II
PREMESSA
Il traguardo della laurea specialistica non credo rappresenti il punto di arrivo del mio
processo di apprendimento. É certo però che esso segnerà la fine di un ciclo di studi
partito non tanto dalla scuola primaria ma sicuramente dagli ultimi anni della scuola
superiore, ovvero da quegli anni in cui il proprio sapere inizia ad acquisire una maturità
tale da permettere di decidere quale sarebbe stato il proprio percorso di vita futuro.
La mia scelta, maturata appunto in quegli anni, è stato il risultato di un’incessante
desiderio di spingermi al di fuori dei limiti culturali imposti dalla mia cultura italiana e
mi ha così diretto verso studi di tipo umanistico e soprattutto verso un ampliamento dei
miei orizzonti culturali che oggi, attraverso lo studio di nuove lingue e nuove culture,
credo di aver raggiunto.
Dopo il conseguimento della mia laurea triennale in Plurilinguismo e
Multiculturalità, ottenuta presso l’ Università “L’Orientale” di Napoli, l’ardente bisogno
di approfondire ma allo stesso tempo di ampliare le mie conoscenze, mi ha condotto a
questo corso di laurea magistrale in Lingue per l’ Impresa e la Cooperazione
Internazionale, dove ho avuto modo di arricchire il mio sapere anche con studi di tipo
economico e socio-politico dedicandomi per la prima volta a materie quali la storia
economica, la politica economica, la geografia politico - economica ed il diritto.
Attraverso la mia tesi ho, dunque, cercato di rappresentare in un unico lavoro il
carattere poliedrico del mio sapere formatosi durante le scuole superiori, cresciuto
III
attraverso il corso di laurea triennale ed infine modellatosi e perfezionatosi durante
questi due anni di laurea specialistica.
IV
INTRODUZIONE
La recente crisi economica che ha colpito l’economia europea e mondiale, la crisi di
un grande colosso nostrano come il gruppo Fiat, la nuova figura dell’ a.d. Sergio
Marchionne, il sondaggio di Mirafiori, sono tutti elementi che hanno riportato al centro
delle discussioni economiche il ruolo dell’imprenditore, quello dell’operaio e
soprattutto il rapporto che c’è e che ci dovrebbe essere tra queste due fondamentali
figure del ciclo economico.
L’annosa questione non nasce certamente oggigiorno, ma è un problema che è stato
affrontato più e più volte in questi ultimi secoli da economisti, storici, sociologi, ed
anche letterati.
Lo scoppio della Rivoluzione Industriale durante il XVIII secolo ed il conseguente
avvento dei nuovi sistemi di fabbrica, crearono in Europa prima, e nel mondo poi, uno
sconvolgimento ed una rivoluzione degli ordini sociali, determinando la nascita di
scenari totalmente nuovi, in cui si delineavano sempre più due figure contrapposte: da
un lato l’imprenditore – borghese che vedeva nella variabile “lavoro umano” il possibile
fattore per l’aumento della propria ricchezza; dall’altro l’operaio – proletario che
giudicava il lavoro sua unica possibilità di sopravvivenza, ma che prendeva sempre più
coscienza dei propri diritti e della condizione disumana in cui viveva.
Contemporaneamente ai moti insurrezionali e rivoluzionari che, a partire dagli inizi
del XIX sec. (il Luddismo, una delle prime forme di movimento operaio, nasce intorno
al 1811-1812), si diffusero a macchia d’olio in tutta Europa, nacquero teorie e teorici
che cercavano di trovare una soluzione a tale problematica.
V
Il mio studio si è voluto soffermare su due importanti personaggi che a lungo si sono
dedicati alla ricerca di un risvolto più o meno utopistico di questa situazione : Karl
Marx e George Orwell, due figure lontane e vicine allo stesso tempo. In particolar modo
la mia ricerca ha voluto per prima cosa mettere in evidenza come il distopico Orwell sia
riuscito tramite un’opera letteraria, Animal Farm (1945), da alcuni giudicata anche
come favola per bambini, a mettere in discussione, dopo circa un secolo, la teoria di una
rivoluzione operaia “storicamente necessaria” predicata da un insigne storico, filosofo
ed economista come K.Marx in un’altra grande opera del nostro tempo, Il Manifesto del
Partito Comunista (1848).
In Animal Farm l'animalismo, la dottrina rivoluzionaria adottata dagli animali, è
basata sugli insegnamenti dell’ Old Major (Vecchio Maggiore), così come il
comunismo è basato sugli insegnamenti del filosofo tedesco. A causa dei suoi
riferimenti precisi, La fattoria degli animali è stata spesso considerata una satira nei
confronti del solo comunismo sovietico. Quello che però la prima parte della mia tesi
tende a dimostrare è che in essa è possibile riscontrare anche tratti distintivi di altri tipi
di sfruttamento: si distinguono particolarmente i tratti eziologici della nascita della
corruzione e del perseguimento di interessi personali da parte dei detentori del potere in
seguito al raggiungimento del medesimo. Nel racconto si può rintracciare, quindi, una
più generale disillusione valida per qualunque rivoluzione, la considerazione cioè che la
ricerca del potere finisca presto o tardi per far tradire gli iniziali ideali rivoluzionari.
Secondo una lettura critica dell'ideologia comunista, l’ Old Major, nonostante le
buone intenzioni, non intuisce un elemento cruciale: è convinto cioè che le sue idee
siano valide e moralmente elevate, e che la declinazione operata sia solo attribuibile agli
individui corrotti, che troveranno comunque il modo di piegarle ai loro scopi. Mentre
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per chi opera questa critica è vero l'esatto contrario: il finale è già tutto contenuto nelle
premesse e non esiste la distinzione tra un comunismo vero e uno ideale.
Dopo aver delineato il background storico in cui tale questione prende vita, e dopo
aver esaminato i diversi punti di vista di queste due importanti figure della cultura
europea, ho a lungo cercato soluzioni tanto idilliache, quanto concrete, per poter
proporre un sorta di escape a questo eterno conflitto.
Una risposta ben più che adeguata è stata rinvenuta in un articolo del quotidiano
nazionale “Il Sole 24 ore” dove si raccontavano le vicende di tale Ricardo Semler,
amministratore delegato di un’impresa brasiliana, SEMCO, che è riuscito in circa
vent’anni di leadership ad aumentare a livello esponenziale non solo il fatturato della
propria azienda, ma pure le richieste di lavoro da parte di persone esterne.
L’inevitabile curiosità legata a tali eventi mi ha spinto a contattare questo
imprenditore riuscendo a proporre tramite e-mail una breve intervista. Grazie alle sue
risposte e alle sue spiegazioni sono venuto a conoscenza di una pratica manageriale
chiamata “management partecipativo”, molto conosciuta ma poco diffusa a livello
mondiale. Una pratica che parte da precursori del cooperativismo come lo scozzese
Robert Owen e l’italiano Giuseppe Mazzini e che con una copiosa dose di coraggio in
più da parte della classe imprenditoriale moderna potrebbe definitamente risolvere in
modo ottimale la questione legata al rapporto tra imprenditore e operaio facendo del
lavoro un vero e proprio strumento di gratificazione per ogni persona,
indipendentemente dalla mansione svolta.
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I CAPITOLO
Cambiamenti economici e sociali nell’Inghilterra e
nell’Europa del XIX secolo
L’ origine del termine “Rivoluzione Industriale” viene attribuito ad un economista
francese, tale Jerome-Adolphe Blanqui, anche se la consacrazione avvenne ad opera di
Arnold Toynbee con le sue “Lectures on the Industrial Revolution” del 1884.
Il concetto di Rivoluzione Industriale, ancora oggi, è sicuramente uno tra i temi più
dibattuti e più controversi tra gli storici dell’economia. Non solo ci sono le più disparate
teorie su cosa fu, quando avvenne, cosa comportò e da cosa fu causata; ma addirittura il
dibattito si concentra anche sulla reale esistenza o meno di una “Rivoluzione
Industriale”. Per comprendere quanto profondo è il solco che divide le scuole di
pensiero basti pensare alle parole di R. Cameron :
“Ci fu una rivoluzione industriale? L’ assurdità della domanda non è tanto nel fatto
che venga presa in considerazione, quanto che il concetto stesso venga preso sul
serio […] da studiosi che dovrebbero sapere come stanno le cose
1
”.
Altrettanto eloquenti sono le parole di Max Hartwell il quale disse semplicemente:
“La rivoluzione industriale ci fu e fu britannica
2
”.
Al di là delle contrapposizioni ideologiche, è indubbio che nel periodo che va dal
1760 al 1830 l’Inghilterra fu oggetto di trasformazioni profonde sia dal punto di vista
economico che sociale. In quel periodo cambiò il modo di lavorare, si modificò la
fisionomia del paesaggio, mutarono gli usi, le tradizioni, ma soprattutto cambiò la
1
CAMERON R., La Révolution industrielle manquée, in <<Social Science History>>, 1990, pp. 559 - 565
2
HARTWELLl R. M., Was There an Industrial Revolution?, in <<Social Science History>>, 1990, pp. 567-576
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posizione dell’ uomo nei confronti della natura. Non più un uomo schiavo, costretto a
fare i conti con le limitate risorse naturali, ma un uomo che non doveva più avere paura
delle limitazioni allo sviluppo di origine malthusiana.
Illuminanti, a questo proposito, sono le parole che usa Harold Perin nel definire il vero
significato della Rivoluzione Industriale:
“Una rivoluzione nell’accesso degli uomini ai mezzi di sostentamento, nel controllo
del loro ambiente ecologico, nella loro capacità di sfuggire alla tirannia e all’avarizia
della natura […] rese possibile per gli uomini raggiungere una padronanza completa
del loro ambiente fisico, senza la necessità ineludibile di sfruttarsi l’un l’altro
3
”
Per la prima volta nella storia veniva superata la legge dei rendimenti decrescenti,
non più miseria e povertà come conseguenze inevitabili della crescita della popolazione.
Ciò che si verificò in quegli anni fu una straordinaria crescita del settore manifatturiero
sostenuto da un numero impressionante di micro e macro invenzioni che permisero un
aumento altrettanto eccezionale della produttività e quindi del prodotto pro-capite.
3
PERKINS H.J., The Origins of Modern English Society, 1780-1880, Londra, Routledge &K.Paul, 1972
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1.1. Una rivoluzione di stampo inglese
L’Inghilterra del XV sec. si presentava come un paese sottosviluppato messo in
ombra dalle grandi potenze commerciali di Francia, Italia e Paesi Bassi e dove l’unico
vero settore avanzato era quello delle materie prime. Esso però risultava scarsamente
supportato da altri settori, come ad esempio quello manifatturiero, che permettessero la
trasformazione delle materie prime in prodotti vendibili sul mercato, costringendo così
l’Inghilterra ad esportare tali materie in altri paesi per poi riacquistare da loro il prodotto
finito.
Uno degli Stati che godeva di questa situazione era l’Italia, che nel XV sec. risultava
essere il paese più all’avanguardia nella produzione dei tessuti ed il maggiore
esportatore di panni lana in tutta Europa. La grande quantità di lana grezza, ma lo scarso
sviluppo del settore manifatturiero costringeva dunque l’Inghilterra ad un ruolo di
spettatore in un settore commerciale, quello tessile, che successivamente si svelerà
fondamentale per l’inizio della rivoluzione.
Quando infatti agli albori del 1500 il sogno di stampo francese e spagnolo di una
supremazia europea diede vita ad una serie di otto conflitti noti come “le grandi guerre
d’Italia” e combattuti prevalentemente nella penisola, i mercanti italiani non riuscirono
più a soddisfare le richieste di panni lana da parte di paesi facoltosi come la Germania
meridionale (all’epoca principale acquirente dei prodotti tessili italiani) i quali
cominciarono a rifornirsi di panni lana in Inghilterra.
Gli sfortunati avvenimenti storici verificatisi in Italia, furono dunque un trampolino
di lancio per l’economia inglese. Il boom delle esportazioni che infatti si verificò
successivamente non rimase per nulla fine a se stesso, al contrario creò un effetto
10
moltiplicatore che condusse allo sviluppo di nuove produzioni quali il ferro, il piombo e
la seta.
I fattori fondamentali del boom definitivo dell’economia britannica furono diversi,
ma sicuramente i più importanti vanno individuati nello sviluppo di un commercio
oceanico, nell’adozione di un’adeguata politica economica da parte del governo e nella
valorizzazione dell’apporto degli immigrati.
Per primo infatti vennero sfruttati i grandi giacimenti di oro ed argento presenti in
America: i due metalli nobili venivano importati in patria e successivamente utilizzati
nel commercio con l’ Oriente. In questo contesto non è da sottovalutare lo sviluppo tra
la fine del XVI e l’inizio del XVII sec. della pirateria, fenomeno finanziato dal regno
per contrastare la supremazia delle navi spagnole nel mar dei Caraibi e che apportò un
capitale importante per la formazione di quella che sarà la Compagnia britannica delle
Indie Orientali che conferì alla regina Elisabetta I d’Inghilterra, per ventuno anni, il
monopolio del commercio nell’Oceano Indiano.
Lo sviluppo del commercio oceanico era inoltre affiancato da una eccellente politica
economica adottata dal governo britannico nota con il nome di mercantilismo.
Il mercantilismo era una politica di tipo protezionistico che consisteva, in teoria e in
pratica, nell’edificazione economica dello stato e nell’utilizzazione dello stato
medesimo per promuovere gli interessi dei protagonisti delle scelte politico-
economiche.
4
Strumento fondamentale di tale politica furono gli “atti di navigazione”
ovvero atti legislativi tesi a proteggere e valorizzare il settore navale inglese.
Esemplificativo è l’atto di navigazione datato 1661:
4
SHEPARD B., RICHARD T., Storia economica d’Europa. Lo sviluppo economico della civiltà occidentale, Roma, Editori
Riuniti, 1984.
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“For the increase of shipping and encouragement of then navigation of this nation,
wherein, under the good providence and protection of God, the wealth, safety, and
strength of the kingdom is so much concerned[…]from thence forward, no goods or
commodities whatsoever shall be imported into or exported out of any lands, islands,
plantations, or territories to his Majesty belonging or in his possession…in Asia,
African, or America, in any other ship or ships, vessel or vessels whatsoever, but in
such ships or vessels as do truly and without fraud belong only to the people of
England…or are of the built of and belonging to any of the said lands, islands,
plantations, or territories, as the proprietors and right owners thereof, and whereof the
master and ¾ of the mariners at least are English[…]”
5
Tale atto stabiliva dunque che nessuna merce proveniente dall'Asia, dall'Africa e
dall'America potesse venir introdotta in Inghilterra se non per mezzo di navi inglesi e
che nessuna merce proveniente da paesi europei potesse esser importata se non su navi
inglesi o dei paesi di provenienza.
L’ultimo ma non meno importante fattore di sviluppo fu l’atteggiamento da parte del
governo e del popolo inglese nei confronti degli immigrati.
L’immigrazione nel XVII sec. era un fenomeno prettamente religioso. Le persone
perseguitate per la propria fede, diversa da quella di stato, in paesi come Francia o Paesi
Bassi, si vedevano costretti ad emigrare altrove e l’Inghilterra anglicana simbolo della
scissione dalla Chiesa cattolica appariva all’epoca come uno degli stati più liberi. Molte
di queste persone erano lavoratori specializzati e la grande capacità di accoglienza, ma
soprattutto la grande umiltà manifestata dal popolo inglese nell’approcciarsi con altre
culture ( non a caso anche la pratica del Grand Tour trova i suoi inizi nella penisola
britannica) condusse alla formazione e allo sviluppo di nuovi settori di produzione come
quello del vetro e della seta. Il lavoro specializzato inoltre permetterà il
perfezionamento di nuove tecniche produttive che, unite alle nuove fonti di energia e
all’ampliamento delle stesse strutture produttive, segnerà la nascita della rivoluzione
industriale.
5
English Historical Documents, JENSEN M. ed.,v.9, 1962