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Capitolo I
Cenni sull’evoluzione del sistema industriale italiano
1. Dalla ricostruzione al boom economico (1945 – 1970)
L’economia italiana esce letteralmente prostrata dalla seconda guerra mondiale. I
bombardamenti hanno distrutto strutture produttive in misura complessivamente
contenuta (circa il 6%) e in modo radicale solo in alcune aree (ad es. i centri siderurgici
di Cornigliano e Bagnoli). Il fabbisogno bellico ha in qualche modo sostenuto l’attività,
specialmente nella meccanica pesante, ma il sistema paese è ancora quello di inizio
secolo, arretrato, prevalentemente agricolo e reduce dagli effetti di un ventennio di
isolamento e di autarchia.
Nondimeno, grazie anche al “piano Marshall” e in modo abbastanza spontaneo, dal
momento che lo Stato limita gli interventi di politica economica, si innesca rapidamente
un trend di crescita impetuosa, che accompagnerà il paese fino ai primi anni ‘60 senza
avere riscontri negli altri stati europei.
Senza dubbio il punto di partenza è la struttura industriale preesistente, concentrata nel
triangolo Torino – Milano – Genova, ma già con interessanti propaggini nel nordest
(industria laniera e cartaria) e in Emilia (macchine agricole). I settori che trainano la
ripresa sono tipicamente l’edilizia, la siderurgia e l’auto. Successivamente si afferma
l’industria meccanica leggera, con gli elettrodomestici ma anche con le macchine per
scrivere e i computer, la chimica e, a seguire, i beni di consumo in genere, l’alimentare,
l’abbigliamento etc.
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Gli attori di questa fase sono sostanzialmente i soliti: imprenditori consolidati, ovvero
grandi imprese che, sin dalla crisi degli anni ‘30, vivono sotto la tutela dell’IRI
1
. In
quest’ultimo caso, come pure in quello dell’ENI, si tratta prevalentemente di settori
strategici nei quali l’intervento dello stato, diretto o indiretto, ha contribuito a ridurre il
grado di dipendenza energetica del paese da terzi.
Dominano la scena ancora le grandi imprese, strutturate per operare anche a livello
internazionale; allo stesso tempo si assiste ad un processo di industrializzazione
graduale delle attività artigiane, primo segnale dell’affermarsi delle piccole e medie
imprese.
2. Lo shock petrolifero, la crisi della grande industria, l’affermazione delle
PMI (1970 – 1990)
Nel 1962 due dei principali obiettivi che il paese perseguiva dal dopoguerra sono
raggiunti: il pareggio (o il surplus) della bilancia dei pagamenti e la piena occupazione.
Manca l’integrazione nord-sud, ma questo purtroppo, rimane “il problema” anche dei
giorni nostri.
Ben presto il boom mostra le sue controindicazioni. Le importazioni aumentano
vertiginosamente, inizia una stagione di rivendicazioni sindacali, spesso legittime,
diminuisce la propensione all’investimento in capitale di rischio.
L'esperimento di modernizzazione industriale dell'Italia entra in un’impasse che, a
partire dal 1963, si trasforma in crisi irreversibile: da questo momento il miracolo
economico si trasforma in esplosione salariale, questa in inflazione e crisi fiscale,
imponendo una violenta restrizione creditizia, di spesa pubblica, e un crollo degli
investimenti privati che si protrae per un quinquennio.
In questo periodo, mentre le altre economie sviluppate continuano a investire nelle aree
geografiche a maggior concentrazione industriale, la qualità degli investimenti italiani si
deteriora rapidamente. Ai privati subentrano le iniziative delle imprese pubbliche e dello
1
L’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), costituito nel 1933 per salvare, acquisendone il
controllo, le maggiori banche ed imprese industriali del paese, sopravviverà fino al 2000.
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Stato, concentrate nella siderurgia e nella petrolchimica e realizzate in aree spesso prive
di contesto industriale. La spesa pubblica è concentrata nella creazione di nuovi posti di
lavoro, che l'industria privata ha cessato di produrre.
La possibilità di svalutare la lira conferisce all’Italia, dal 1970 in poi, uno strumento per
dare una soluzione superficialmente indolore ai propri problemi economici, esplosi nella
seconda metà degli anni Sessanta. Inflazione e svalutazione sono la via maestra scelta
dall'Italia per continuare a crescere nelle condizioni difficili nelle quali si viene a trovare
l'economia mondiale dopo la crisi del petrolio del ‘73. In tale contesto fiorisce
l'industrializzazione leggera, condotta da centinaia di migliaia di piccole imprese, sorte
attorno a quelle grandi e successivamente anche in aree mai toccate prima
dall'industrializzazione.
Questo fenomeno coincide con l'abbandono progressivo, da parte dei grandi paesi
europei come Francia, Germania, Inghilterra, dei settori in cui operavano, per cui le
condizioni concorrenziali per i nostri piccoli imprenditori sono più favorevoli di quelle
delle grandi imprese. Il cambio forte di Franco e Marco, infatti, riduce la competitività
delle imprese tedesche e francesi nei settori a bassa intensità di capitale e ricerca, nei
quali i fattori lavoro e prezzo assumono particolare rilevanza.
Queste ragioni, tuttavia, non sono certamente sufficienti a spiegare da sole la graduale
ma inesorabile debacle delle grandi imprese nella stessa competizione.
In ogni caso si tratta, per i piccoli e medi imprenditori italiani, di una grande e
irripetibile opportunità che essi colgono appieno, anticipando in sostanza quello che
sarà il fenomeno delle “tigri asiatiche”
2
dei nostri giorni.
2
Tigri asiatiche è il nome attribuito originariamente a Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong
per via del loro ininterrotto sviluppo degli ultimi decenni, anche se questo termine si può riferire alla
maggioranza dei mercati in rapida crescita nell’estremo oriente.
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3. I limiti strutturali delle PMI acuiti da moneta unica e globalizzazione (dal
1990 ad oggi)
Lo spostamento dalla grande alla piccola-media impresa di molte attività industriali e
della larga maggioranza del numero degli occupati inizia come detto negli anni ‘70 e
‘80, ma il fenomeno continua – e si consolida – anche dopo, favorito da alcune
peculiarità del nostro paese.
Le piccole strutture presentano una grande flessibilità, che consente rapidi mutamenti di
indirizzo e processi decisionali altrettanto rapidi, grazie ad un sistema di governance
piuttosto semplice e ad una sostanziale vicinanza tra vertice aziendale e lavoratori. La
produttività reale è molto elevata, non tanto o non solo per il valore aggiunto insito nel
prodotto, quanto per la qualità e la laboriosità delle maestranze e il ricorso non
episodico all’elusione contributiva/fiscale. Scarsa o nulla, invece, la presenza sindacale.
A dispetto della forma giuridica, spesso societaria, si tratta quasi sempre, di fatto, di
imprese individuali o familiari. L’imprenditore “tipo” è un ex dipendente, il più delle
volte di matrice tecnica, molto capace, molto determinato e molto individualista.
Il numero dei dipendenti è un fattore cruciale, soprattutto per le microimprese che,
nell’ambito del comparto, rappresentano di gran lunga il gruppo più numeroso: la
possibilità di derogare dall’applicazione del c.d. “Statuto dei Lavoratori”
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spinge spesso
verso la proliferazione di imprese di piccole dimensioni facenti capo ad uno stesso
soggetto economico.
Si tratta, come detto, di imprese “labour-intensive” con necessità contenute di
investimento in immobilizzazioni e tanto meno in R&S.
La struttura patrimoniale è oltremodo carente e squilibrata, in ossequio alla consolidata
equazione impresa povera uguale imprenditore ricco.
Dal momento che l’impiego prevalente di risorse è nell’attivo circolante, le fonti di
finanziamento sono tipicamente il credito di fornitura e il credito bancario a breve
termine.
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La legge 300/70 sancisce, tra l’altro, la non licenziabilità se non per giusta causa o giustificato
motivo dei lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti.
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Il più delle volte quest’ultima forma di finanziamento sostiene impropriamente anche
necessità a fronte di investimenti durevoli. In verità ciò è stato determinato dal tardivo
sviluppo di strumenti alternativi quali il leasing finanziario, ma soprattutto dal persistere
fino al 1993 della Legge Bancaria del 1936
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, che ha reso non agevole l’accesso al
credito industriale.
Il sistema bancario, da parte sua, asseconda di buon grado queste anomalie: da un lato si
sottrae alla necessità di una valutazione scrupolosa del merito creditizio delle imprese
contenendo l’entità degli affidamenti e provocando inevitabilmente la ben nota
multibancarizzazione; dall’altro si guarda bene dal suggerire all’imprenditore politiche
di bilancio più ortodosse, limitandosi a “blindare” con idonee garanzie collaterali gli
ingenti patrimoni extraaziendali (liquidi e non) che vanno formandosi
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, talvolta oltre
frontiera. Ma con Basilea 2, come vedremo, le regole cambieranno drammaticamente.
Abbiamo sin qui elencato una serie di caratteristiche che rappresentano, col senno di
poi, prevalentemente punti di debolezza. Come avremo modo di verificare nei paragrafi
successivi, esse non possono e non devono essere ascritte all’intero mondo delle
cosiddette PMI – il cui ruolo trainante per l’economia nazionale non può essere
assolutamente disconosciuto – ma solo alla fascia bassa dello stesso.
Abbiamo anche visto che un importante fattore di affermazione delle piccole imprese
nazionali è stata la cosiddetta price competitivity, favorita dalla svalutazione strisciante
della lira.
Già nel 1979, con l’avvio dello SME
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, le oscillazioni dei cambi in ambito UE
cominciano ad essere più contenute; perciò, in presenza di un differenziale inflattivo
4
La legge bancaria del ’36 ridisegnò completamente l’assetto del sistema bancario nazionale. In
particolare sancì la netta separazione tra banca e industria e tra attività di finanziamento a breve e a medio
lungo termine.
5
Il legislatore è intervenuto più volte con provvedimenti tesi a disincentivare la
“sottocapitalizzazione” delle imprese, non sempre con risultati apprezzabili. Da ricordare la Legge
“Prodi” del ‘96, che introdusse una tassa del 20% sui proventi da attività costituite a formale garanzia di
prestiti ad imprese, la Thin Capitalization Rule del 2005, che fissò un rapporto massimo tra capitale
proprio e finanziamenti dei soci qualificati o da essi garantiti. E, da ultima, la disciplina attuale, che
stabilisce l’indeducibilità degli oneri finanziari che eccedono il 30% del risultato operativo risultante dal
conto economico.
6
Il Sistema Monetario Europeo venne attuato nel 1979 allo scopo di limitare le fluttuazioni dei cambi
delle valute europee e rappresentò un passaggio intermedio verso l’adozione della moneta unica.
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molto forte rispetto ai competitors europei, la quasi impossibilità di svalutare la lira
rende sempre meno competitive le esportazioni italiane.
La grave crisi finanziaria del 1992, caratterizzata dalla temporanea uscita della lira e
della sterlina dallo SME, d’intesa con l’Europa, e dalla svalutazione complessiva del
30% della nostra moneta, contribuisce quanto meno a ridar fiato alle esportazioni, dando
il via ad una ripresa abbastanza duratura.
Nel frattempo si avvicina il tanto temuto “millennium changeover” che, per
fortuna, non provocherà alcun inconveniente (bug) di tipo tecnico. Il passaggio al nuovo
secolo, tuttavia, almeno emblematicamente, presenta due sostanziali novità che
peseranno fortemente sulla nostra economia:
• con diversi step successivi e con decisioni di carattere finanziario e commerciale
viene definitivamente sancita la libera circolazione dei capitali e delle merci. Si
tratta della globalizzazione, che andrà ad impattare pesantemente, tra gli altri, su
alcuni settori chiave dell’industria italiana, quali il calzaturiero e il
tessile/abbigliamento;
• alla fine del 2001 prende il via l’Euro. E’ la fine delle svalutazioni competitive
in ambito europeo, ma anche l’inizio di un periodo di forza della nuova moneta
nei confronti di dollaro e yen, che si traduce in un’inevitabile perdita di
competitività dell’export europeo verso il continente americano e il far-East, e
in una crescita dell’import dai paesi emergenti, il tutto mitigato da significativi
risparmi sulla bolletta energetica, da sempre tallone d’Achille del nostro paese.
4. La prevalenza delle PMI e, in particolare, delle microimprese
Nel paragrafo precedente abbiamo accennato a come i principali punti di forza delle
PMI italiane si siano rapidamente trasformati in punti di debolezza.
Vediamo innanzitutto quali e quante sono le PMI e che quota rappresentano nel tessuto
economico del paese anche confrontandole con quelle operanti nei paesi dell’UE.
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Con il Decreto del Ministero delle Attività Produttive del 18.4.2005 – che ha
recepito la Raccomandazione della CE del 6.5.2003 – le imprese vengono suddivise
come segue:
Tipo Occupati
(ULA)
(4)
Fatturato
(Milioni di €)
(1) (2)
Totale di bilancio
(Milioni di € )
(1) (3)
Grande Impresa ≥ 250 e > 50 + > 43
Media impresa (PMI) < 250 e ≤ 50 oppure ≤ 43
Piccola impresa (PMI) < 50 e ≤ 10 oppure ≤ 10
Micro impresa (PMI) < 10 e ≤ 2 oppure ≤ 2
(1)
Dati in milioni di euro. Il limite di fatturato e di totale bilancio sono alternativi tra di loro e
cumulativi con il limite di dipendenti con il quale devono necessariamente coesistere.
(2)
Voce A.1 del Conto Economico redatto secondo le norme del Codice Civile.
(3)
Totale dell’Attivo Patrimoniale
(4)
Occupati = numero medio mensile degli occupati a tempo indeterminato e determinato,
impiegati durante l'anno (ULA), purché iscritti nel libro matricola e legati all'impresa da forme
contrattuali che prevedano il vincolo di dipendenza. Sono esclusi i soggetti in cassa integrazione
straordinaria. I dipendenti a tempo parziale vanno conteggiati proporzionalmente al proprio
orario di lavoro.
Come si evince dalla lettura della tabella, rispetto alla classificazione previgente
è stato inserito, nell’ambito della categoria delle PMI, il sottoinsieme “microimprese”.
Non si tratta solo di una variazione metodologica. Le microimprese rappresentano una
“coorte” estremamente importante, per quantità, per numero complessivo degli occupati
e anche per volumi d’affari. Al tempo stesso esse presentano caratteristiche,
problematiche e fabbisogni completamente diversi, ad esempio, da quelli delle medie
che molti hanno iniziato a considerare una categoria a parte.
Nell’appendice 2 riportiamo alcune tabelle e grafici (Tavv. 1∼6) che ben illustrano la
struttura del sistema industriale italiano in rapporto sia alla media UE-27 sia ai singoli
stati membri.
Tralasciando il dato relativo alla numerosità delle imprese ci sembra importante
soffermarsi sui dati percentuali riguardanti il numero degli addetti e il valore aggiunto.
In questi due ambiti la prevalenza delle PMI rispetto al totale è, per il nostro paese,
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significativamente maggiore sia dei principali competitors (con l’eccezione della
Spagna), sia della media UE-27.
Se passiamo ad un’analisi dei sottoinsiemi sopra citati, l’Italia si mantiene ai primissimi
posti – con altri paesi “mediterranei”, quali Grecia e Portogallo – nel comparto “micro”,
scende a centro classifica in quello delle “piccole” per precipitare al penultimo posto,
davanti solo alla Grecia, in quello delle “medie”.
Ci sembrano dati molto significativi che spiegano in parte lo scarso dinamismo del
sistema paese. In particolare l’estremo frazionamento produttivo non giova alla crescita
in ambito internazionale. L’impressione è che il proliferare delle microimprese,
identificabili con le tanto decantate partite IVA, non rappresenti soltanto l’effetto di un
diffuso spirito imprenditoriale ma, il più delle volte, nasconda una mera
esternalizzazione e precarizzazione di posti di lavoro.
Prima di passare, nel prossimo paragrafo, a considerazioni specifiche sul problema
dimensionale delle PMI, ci sembra interessante rimandare ad un grafico elaborato
dall’Ufficio Studi di Mediobanca che fotografa la struttura di bilancio delle PMI e delle
MI italiane raffrontandola con quella dei gruppi maggiori, nazionali ed europei (Tav. 7).
Ebbene, si tratta di dati che confermano la sopracitata diversificazione nell’ambito delle
PMI italiane smentendo in parte lo stereotipo che le giudica genericamente
sottocapitalizzate e superindebitate.
Dalla tavola emerge che le imprese meno indebitate (e quindi più
patrimonializzate) sono quelle del c.d. “quarto capitalismo”, come l’ha definito la stessa
Mediobanca, che comprende le imprese medie con assetto proprietario autonomo,
addetti compresi tra 50 e 499 e fatturato compreso tra 13 e 290 milioni di euro (4300
circa) oltre alle imprese medio-grandi (con fatturato superiore ai 290 milioni ma entro i
3 miliardi).
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5. Un sistema paese che non cresce: il gap dimensionale, uno dei freni allo
sviluppo
Oltre che dall’effetto Euro e dalla globalizzazione dei mercati, il primo decennio del
secolo è stato caratterizzato da due gravi crisi che hanno penalizzato fortemente le
economie occidentali: nel 2001/2002 quella causata dall’attentato alle Torri Gemelle e
dal 2008 in avanti (non la possiamo ad oggi considerare ancora superata) quella
derivante dai cosiddetti “mutui subprime” sfociata nel fallimento di molti istituti di
credito, in particolare negli USA, e nel salvataggio di molti altri da parte dello stato.
A prescindere da questi due eventi epocali le economie mondiali avevano preso a
crescere a ritmi ben diversi le une dalle altre. I paesi emergenti, emblematicamente
rappresentati dai cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e le economie dell’ex
Europa comunista, presentano una crescita piuttosto sostenuta. I paesi ad economia
“matura”, invece, ed in particolare quelli dell’UE, sono caratterizzati, ad eccezione della
Spagna, da bassi indici di crescita del PIL già prima dell’ultima crisi, dopo la quale il
suo valore è sostanzialmente tornato, in termini assoluti, ai livelli del 2006/2007.
In quest’ambito il sistema Italia denota un trend medio di crescita inferiore a quello dei
partners europei, maggiori cedimenti per effetto della crisi ed ora una ripresa
decisamente più fiacca di quella dei citati partners. La Tavola 8 in appendice ben
evidenzia questo andamento complessivamente negativo.
Si tratta di dati abbastanza preoccupanti che impongono il riconoscimento e l’analisi
delle cause e, soprattutto, l’individuazione e l’approntamento dei rimedi: oppure, in
alternativa, una serena consapevolezza del progressivo declino economico del paese.
In alcuni studi di pubblicazione abbastanza recente
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vengono fornite delle chiavi di
lettura del fenomeno condivisibili e motivate, che peraltro rappresentano l’opinione
prevalente in materia. Ne richiamiamo in questa sede alcuni concetti fondamentali,
riportando in allegato alcuni grafici a conforto delle tesi proposte.
Il periodo precedente alla crisi del 2008 si può configurare come uno dei più difficili per
l’economia italiana dal dopoguerra. In presenza di una contrazione degli investimenti e
7
Cfr. in particolare G. Foresti, F. Guelpa, S. Trenti, “Quali leve per il rilancio dell’industria? La
questione dimensionale”, Uff. Studi IntesaSanpaolo, 6/2007.
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di una stasi della domanda interna che riguarda tutti i paesi avanzati, le possibilità di
crescita sono offerte essenzialmente dallo sviluppo delle esportazioni, sviluppo che è
certamente possibile vista la presenza nel mondo di economie in forte espansione.
A differenza di altri paesi, quali la Germania, l’Italia ha invece visto erodersi
sensibilmente le proprie quote nell’export mondiale.
I motivi principali di queste performances insoddisfacenti sono essenzialmente i
seguenti:
• l’orientamento geografico delle esportazioni verso aree poco dinamiche (cfr.
Tav. 9);
• la specializzazione su prodotti con basso sviluppo della domanda mondiale (cfr.
Tav. 10);
• la bassa competitività, soprattutto tecnologica (cfr. Tav. 11).
Le nostre esportazioni sono ancora troppo orientate verso i paesi UEM,
Germania in particolare. I paesi più dinamici, quali quelli asiatici, rappresentano ancora
una quota ridotta – seppure in crescita – del nostro export. E’ invece importante la quota
di esportazioni verso i paesi dell’Europa Centro Orientale, ma in questo caso si tratta
prevalentemente di prodotti intermedi inviati per la lavorazione presso terzisti o propri
impianti delocalizzati.
Analogamente i tradizionali punti di forza del Made in Italy (sistema moda, sistema
casa, meccanica strumentale) ricoprono al momento un ruolo secondario nel commercio
mondiale. E’ peraltro ragionevole pensare che alcuni di questi settori si possano presto
sviluppare nei paesi emergenti.
La specializzazione del nostro paese è ancora sbilanciata su prodotti a basso contenuto
tecnologico, il che impedisce di far leva su elementi diversi dal prezzo. E spesso manca,
nelle imprese con produzioni più specializzate, l’attitudine all’internazionalizzazione o
l’organizzazione necessaria ad affrontare l’approccio a nuovi mercati.