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Introduzione
L'obiettivo di questo elaborato è quello di proporre un progetto di cultural
regeneration per il contesto territoriale della Marca Fermana. Situata tra le province di
Ascoli Piceno e Macerata, questa zona da un anno è istituzionalmente riconosciuta come
Provincia di Fermo e di fatto è la quinta provincia della Regione Marche.
L'idea di questo lavoro prende forma unendo la conoscenza profonda di questo
territorio, data la mia provenienza, e quella del mio percorso formativo nel campo della
progettazione culturale.
Partendo dall'analisi dei cambiamenti sociali, economici e culturali causati dal
fenomeno della globalizzazione che, non solo modifica le forme della comunicazione,
accorcia le distanze fisiche e aumenta i contatti culturali, ma richiede anche uno sforzo di
ridefinizione dell'identità, in particolare quella territoriale e culturale, si è giunti alla
strutturazione di un progetto relativo alla Marca Fermana. Tale progetto parte
dall'importanza che si riconosce alla partecipazione della comunità in campo progettuale
ed è stato realizzato grazie agli strumenti della progettazione culturale. Inoltre, si è ritenuto
fondamentale affrontare il tema della sostenibilità punto centrale per la costruzione di
nuovi processi di sviluppo.
In una successione che segue lo schema delle scatole cinesi, questi argomenti si
succedono fino ad arrivare al capitolo conclusivo in cui si presenta il progetto vero e
proprio.
Nel Primo Capitolo si affronta il tema della ri-definizione dell'identità territoriale
analizzando come questa sia cambiata nel tempo e presentando come si presenta oggi nel
pieno processo di globalizzazione. Nel Secondo Capitolo si presenta il dibattito sulla
sostenibilità analizzandone i diversi aspetti per giungere alla fine ad una nuova definizione
che la veda non più come obiettivo da perseguire, bensì come caratteristica del processo
progettuale. Nel Terzo Capitolo si analizzano le forme distrettuale con l'obiettivo di vedere
come queste siano le forme ideali di base per la realizzazione di un processo di sviluppo
nell'era dell'economia della conoscenza proprio perché si basano sullo sviluppo a rete
condiviso. In particolare, si vede come la forma del distretto possa costituire un elemento
di successo anche per il settore culturale e non solo per quello economico-industriale.
Successivamente, nel Quarto Capitolo, si presentano le teorie, i metodi e gli strumenti
relativi al concetto di promozione della partecipazione e alle pratiche della progettazione
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culturale su cui sarà basato il progetto oggetto di questo lavoro. Nel Quinto Capitolo si
descrive il contesto ambientale, economico, culturale ed organizzativo della Marca
Fermana in modo da chiarirne le caratteristiche da cui si parte per la progettazione. Infine,
nel Sesto Capitolo, si presenta un sunto dei temi affrontati nei capitoli precedenti sotto
forma di progetto di rigenerazione culturale per il territorio descritto mostrandone
l'originalità rispetto alle proposte già esistenti dell'amministrazione.
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CAPITOLO I
Il territorio: questo sconosciuto.
Introduzione
«Siamo in un periodo di grandi mutazioni. Ai più diversi livelli avvengono
trasformazioni anche molto profonde che investono tutti gli aspetti della nostra
vita. Sono tutti aspetti che mutano molto velocemente davanti agli occhi nostri,
ogni giorno. Naturalmente questi cambiamenti hanno i loro riflessi sulla città,
divenuta la massima espressione dei modi di vita dell’uomo» *Naselli 2002, p. 42+.
Questa affermazione ci permette di riassumere quelle che saranno le linee guida di
questo capitolo. Dopo aver dato una panoramica generale su quello che viene considerato
il processo più importante della contemporaneità, la globalizzazione, cercheremo di
analizzare come questo ha modificato il territorio e il suo processo di sviluppo facendo
emergere delle problematiche nuove a livello di organizzazione territoriale e vita
relazionale delle comunità all’interno dei mutati sistemi urbani.
E’ ormai comunemente condiviso il fatto che i sistemi urbani tradizionali posti in
atto dai sistemi produttivi taylorista e fordista siano stati superati facendo emergere nuove
forme di stanziamento urbano che portano con loro una serie di problemi interpretativi
[Becchi, 1999]. In questo capitolo si cercherà di dare spazio a queste nuove interpretazioni
che vedono la crisi del sistema metropolitano caratteristico dell’era industriale, lasciando
spazio ai sistemi complessi di centri minori caratteristici della cosiddetta era della
conoscenza o era della rete. Inutile dire che lo sviluppo tecnologico ha modificato il
concetto di luogo e di spazio aprendo, insieme alla globalizzazione e al crollo del sistema
produttivo tradizionale, nuove vie per lo studio e l’analisi delle comunità ponendo
l’attenzione sull’importanza delle relazioni territoriali, economiche, organizzative e
interpersonali. Come si approfondirà nel corso del capitolo, la città contemporanea è un
luogo intersecato da molteplici flussi materiali ed immateriali e ciò di cui ha bisogno per
essere interpretata è uno strumento concettuale in grado, da un lato, di dialogare con la
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dimensione territoriale della città stessa, e dall’altro di rappresentare tali flussi.
Considerato che i flussi altro non sono che le relazioni tra attori e luoghi diversi divenuti
sempre più frequenti grazie al processo di globalizzazione, questo strumento è il concetto
di ‘spazio’ *Sassen 2002+. Secondo Augé il ‘luogo’ :
«è allo stesso tempo ciò che esprime l’identità del gruppo (…) e ciò che il gruppo
deve difendere contro le minacce esterne e interne perché il linguaggio dell’identità
conservi un senso» [Augé 2005, p. 45],
mentre lo ‘spazio’ si organizza in modo che possa essere esperito dall’uomo. In altre parole,
significa considerare il ‘luogo’ come frutto dell’agire della comunità locale e lo ‘spazio’
come l’insieme dei flussi indeterminati che avvengono su una determinata porzione di
territorio [Governa 2005]. Questo ultimo concetto ci permette di dire che se da un lato il
‘luogo’ rappresenta la comunità umana che lo costruisce attraverso le proprie azioni,
tradizioni e modelli di pensiero, lo ‘spazio’ è caratterizzato dall’illimitatezza, in quanto non
è possibile definire in modo pragmatico un territorio attraverso la determinazione dei flussi
che vi prendono forma. Per questo motivo l’uomo ha bisogno di uno ‘spazio’ su cui dar vita
alle proprie relazioni in modo da poter costruire un ‘luogo’ che lo rappresenta.
Questa nuova percezione di luogo e spazio ha causato una trasformazione del
concetto e delle pratiche che costruiscono le identità, elemento chiave di tutte le linee
guida dei processi di sviluppo locali. L’individuazione di identità tradizionali da difendere di
fronte al tentativo di omologazione culturale innescato dalla globalizzazione sembra
essere, oggi, la chiave primaria degli interventi di sviluppo locale, ma, agendo in questa
direzione, si corre il rischio di sfociare in localismi estremi che, invece di diffondere nuovi
modelli di sviluppo per il futuro partendo dalla possibilità di arricchimento reciproco
offerto dall’era delle reti, ostacolano la ricerca di risposte efficaci all’interno del sistema
globale in cui siamo tutti chiamati a vivere e ad agire.
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1. Globalizzazione: identità a rischio?
Nel corso degli ultimi anni il cuore dei dibattiti politici, economici e sociali è stato
senza dubbio il processo di globalizzazione ed oggi sembra non esserci più ampio spazio per
nuove definizioni. Ma che cos’è la globalizzazione? Obiettivo di questo lavoro non è quello
di definire questo processo quanto quello di tracciarne le linee essenziali per comprenderlo
più da vicino soprattutto in relazione al problema dello sviluppo territoriale e alla
costruzione dell’identità.
Per prima cosa definiamo la globalizzazione come:
«processo empirico e oggettivo di crescente connettività economica e politica, un
fenomeno soggettivo che si sviluppa nelle coscienze come consapevolezza collettiva
dell’aumento delle interconnessioni a livello mondiale, una moltitudine di progetti
globalizzanti specifici che cercano di formare condizioni globali» [Pieterse 2005, 35].
In questa breve definizione sono presenti tutte le caratteristiche essenziali del processo di
globalizzazione: per prima cosa è un processo sia oggettivo che soggettivo in quanto
coinvolge la vita dell’uomo sia sul piano delle proprie azioni che su quello della
consapevolezza; in secondo luogo è il frutto delle relazioni tra le diverse culture coinvolte
in un meccanismo di costruzione di una nuova dimensione sociale ed economica che è
quella globale; infine, se letto in questi termini, non è un processo formatosi negli ultimi
decenni, quanto un processo intrinseco nella storia del mondo e per questo non può essere
ridotto ad un mero processo di occidentalizzazione [Ibid.].
Intesa in questo senso:
«la globalizzazione ha contribuito al progresso del mondo attraverso i viaggi, il
commercio, le migrazioni, la diffusione delle culture, la disseminazione del sapere
(…) e della conoscenza reciproca. (…) Ad esempio, nella parte finale del millennio
appena trascorso il flusso è stato in larga misura dall’Occidente verso l’Oriente, ma
al suo inizio (attorno all’anno Mille) l’Europa stava assimilando la scienza e la
tecnologia cinesi e la matematica indiana e araba. Queste interazioni sono
un’eredità mondiale, e la tendenza contemporanea è coerente con questo sviluppo
storico» [Sen, 2002; p. 4].
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Se, quindi, la globalizzazione come processo è una caratteristica della storia
dell’uomo in quanto attraverso le sue migrazioni, i commerci e lo sviluppo tecnico-
scientifico ha sempre creato contatti con le altre culture, perché tendiamo a percepirla
come un processo caratteristico della contemporaneità?
La globalizzazione, oltre ad aver innescato un cambiamento radicale a livello
economico portando benefici e non a tutti i popoli della terra, ha permesso al mondo di
arricchirsi dal punto di vista scientifico e culturale grazie all’abbattimento delle barriere,
spesso solo mentali, tra le diverse culture [Ibid.] favorendo «la tendenza verso
l’integrazione umana» *Pieterse 2005, p. 41+.
A questo proposito lo stesso Pieterse [ivi, p. 41-42] definisce le clausole che devono
guidare il processo di globalizzazione affinché si giunga ad una piena integrazione, e sono:
1. Che la globalizzazione venga vista come un processo storico a lungo
termine;
2. Che la tendenza verso l’integrazione umana venga vista non come un
processo lineare ma come dialettica (tra le diverse espressioni
culturali e tradizionali);
3. Che questa prospettiva sia combinata con un’analisi dei poteri e delle
gerarchie;
4. Che le visioni utopiche di unità umana siano considerate come
possibili indicazioni, non come scorciatoie;
5. Che poiché la globalizzazione è un insieme complesso e
multidimensionale di processi, il quale implica processi concreti,
cambiamenti di soggettività e progetti globalizzanti specifici, anche i
movimenti verso l’integrazione umana si dispiegano in modo
irregolare attraverso molte aree e dimensioni diverse;
6. Che le diaspore e le migrazioni siano incluse nella tendenza verso
l’integrazione umana;
7. Che ne consegua un impegno in interventi politici miranti all’equità
globale *…+.
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Se, quindi, da un lato il processo di globalizzazione ha causato la delocalizzazione
industriale, in quanto l’apertura dei mercati ha permesso al sistema produttivo di cercare
luoghi in cui è possibile abbattere i costi produttivi, dall’altro ha permesso l’apertura e il
contatto tra le diverse culture con la conseguenza di accentuare il senso di attaccamento e
di difesa della cultura di appartenenza. Pertanto, in un periodo i cui la dimensione globale
sembra prendere il sopravvento, si tenta di valorizzare ciò che ogni comunità ha
necessariamente di diverso dalle altre, la cultura in senso lato, per poter creare nuove vie
di sviluppo e non soccombere di fronte al diffondersi del mercato globale.
Il rischio che si corre in questo caso, dimostrato anche dalle manifestazioni contro il
processo globalizzante, a volte fin troppo violente, è quello di creare un’estrema
frammentazione culturale in quanto ogni singola comunità tenderà a valorizzare e
preservare se stessa. Pieterse parla di tre dimensioni diverse del processo di
globalizzazione e definisce questa tipologia come «scontro tra civiltà» [Pieterse 2005, p. 60]
in quanto la cultura è vista come un campo di battaglia che la comunità è chiamata a
difendere dall’avanzata del nemico rappresentato dalle culture altre [ivi, p.63]. Questo
ragionamento ha dei punti di forza e dei punti di debolezza che possiamo distinguere
rispettivamente in una difesa della diversità culturale dalla tendenza di creare un’unica
cultura globale, mentre la debolezza è rappresentata dalla possibilità che queste azioni di
difesa portino le comunità a chiudersi in se stesse e ad iniziare una vera e propria battaglia
con le altre distruggendo il processo verso l’integrazione umana *Ibid.] .
Il passo migliore, quindi, dovrebbe essere quello di aprirsi verso nuove forme di
conoscenza attraverso le grandi possibilità concesse dalla globalizzazione con lo spirito di
avere una preservazione di se stessi arricchita dall’incontro con l’altro.
A questo proposito citiamo una parabola indiana che Swami Vivekananda
1
pronunciò al Parlamento Mondiale delle Religioni l’11 settembre 1892 a Chicago in cui
traspare chiaramente l’importanza del processo di apertura verso ciò che è diverso dal
‘mondo’ al quale apparteniamo.
1
[1863–1902]. Fu il principale discepolo di Sri Ramakrishna Paramahansa. In India è considerato il santo-patriota che ha
ispirato il rinascimento spirituale del Paese. Fu il primo grande saggio-yogi ad andare in America come ambasciatore spirituale dell’India.
Operò per favorire una migliore comprensione tra Oriente ed Occidente, per creare un mondo migliore che riunisse il meglio della
religiosità orientale e della razionalità e dell’efficienza scientifica occidentale.
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C’era una volta una rana che viveva in un pozzo. Era lì da
tanto tempo. Era nata in quel pozzo ed era cresciuta fino a
diventare una rana adulta che ogni giorno ripuliva l'acqua dai
vermi e dai microbi che vi si trovavano. Vivendo in questo modo,
era diventata bella grassa e lustra. Un bel giorno, una tartaruga,
che invece viveva nel mare, passò di lì e cadde nel pozzo. «Da dove
vieni?». «Dal mare». «Dal mare? È grande così?» e la ranocchia
fece un salto. «No, amica mia, è molto più grande!». «Allora è
grande così» e la rana fece un altro salto, più grande. «Amica mia
— rispose la tartaruga — come puoi paragonare il mare al tuo
piccolo pozzo?». «Allora dev'essere grande così!» e la rana si mise
a saltare da un estremo all'altro del pozzo. «Che assurdità voler
paragonare il mare a un pozzo!». «No — pensò la ranocchia che
abitava il pozzo —, niente può essere più grande del mio pozzo.
Questa tartaruga è una bugiarda: cacciamola via!».
In un contesto come quello contemporaneo in continuo cambiamento sia dal punto
di vista economico che sociale, è fondamentale non fare la parte della rana e pensare solo
al proprio ‘pozzo’. L’apertura verso il mondo esterno, se mossa dalla volontà di conoscere e
dallo spirito di confronto costruttivo, costituisce evidentemente un fondamentale passo
verso una crescita sostenibile. Non si tratta, quindi, di rinunciare alle proprie radici, quanto
di integrarle attraverso l’interazione con l’altro. Secondo lo studio di Pearce *2001+, la
società contemporanea si differenzia da quelle precedenti proprio per la sua particolarità di
concepire la relazione con ciò che è diverso da se stessa. In particolare, il sociologo
americano distingue tre tipi di comunicazione che hanno caratterizzato il percorso della
società verso l’epoca contemporanea: la comunicazione monoculturale, la comunicazione
etnocentrica, ed infine la comunicazione cosmopolita. Con il termine ‘monoculturale’
Pearce si riferisce a quelle comunità che basano la loro comunicazione sul principio che non
esistono differenze rispetto al loro modo di intendere il mondo e le relazioni sostenendo,
infatti, che «coloro che comunicano monoculturalmente assumono (…) che le altre persone
esprimano e (ri)costruiscano le loro stesse risorse nello stesso modo» [p.59].
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Per ‘comunicazione etnocentrica’, invece, intende quella particolare forma di
comunicazione tra appartenenti ad una stessa comunità per cui ogni possibile differenza
nella valutazione e reinterpretazione del mondo è un minaccia alla sicurezza della comunità
anche se è il perno su cui si basa la stabilità della comunità stessa infatti
«nella comunicazione etnocentrica, il ‘noi’, di chiunque sia, è definito dal contrasto
con il ‘loro’ e le ‘nostre’ risorse includono modi specifici di trattare con ‘loro’ in
modo che tali risorse non siano messe a rischio. Queste risorse sono resistenti
perché, praticamente qualsiasi cosa facciano ‘loro’ non fa che confermare la ‘nostra’
percezione della ‘loro’ inferiorità» [ivi, p. 92]
Anche se queste due forme di comunicazione risultano essere quelle più naturali e
più facili da attuare da una comunità che vive sulla sua pelle gli effetti quotidiani del
processo di globalizzazione, senza dubbio non rispondono a quei criteri fondamentali della
relazione con l’altro che devono condurre alla piena integrazione umana così come si vedrà
in seguito. Per questo motivo e per rispondere, quindi, in modo più coerente alle richieste
della società contemporanea sempre più multiculturale Pierce individua il terzo tipo di
comunicazione sociale definendolo ‘comunicazione cosmopolita’. Secondo la sua
definizione questa tipologia di comunicazione
«risulta da un impegno nel trovare modi di realizzazione del coordinamento: 1)
senza negare l’esistenza o l’umanità di ‘altri’ modi di realizzare coerenza e mistero,
come invece fa la comunicazione monoculturale; 2) senza deprecare od opporsi ad
‘altri’ modi di realizzare la coerenza ed il mistero, come invece fa la comunicazione
etnocentrica. (…) Quando è ben effettuata la comunicazione cosmopolita permette
il coordinamento tra gruppi con realtà sociali diverse, anche incommensurabili
(incommensurate)» [ivi, pp. 157-158].
A questo ragionamento associo una riflessione organica sulla globalizzazione come
processo che, da un lato, ha sottolineato le differenze tra le culture, mentre dall’altro ha
avviato un processo di ‘uniformità globale’, conosciuto anche come McDonaldizzazione o
Occidentalizzazione o Americanizzazione, secondo cui l’omogeneizzazione culturale
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avverrebbe attraverso la diffusione del modello capitalistico promosso dalle multinazionali,
perlopiù americane, diffuse sul territorio mondiale [Pieterse 2005, p. 67].
La paura di perdere i propri fondamenti culturali e tradizionali ha costituito il
motore di crescita per le singole identità socio-culturali. L’uniformazione culturale, però,
«spesso porta a sostituire l’antica ricchezza con un tragico vuoto. (…) La cultura
scacciata ritorna ovunque, a volte sotto le forme più nocive. In assenza d uno spazio
necessario e di un legittimo riconoscimento, essa ritorna in maniera esplosiva,
pericolosa o violenta» [Latouche 2002, p. 53].
Questo rischio si è dimostrato molto evidente nell’ultimo decennio con l’emergere
del terrorismo internazionale che ha iniziato a colpire senza più riferimento a luoghi e spazi
ben determinati in nome di un valore di preservazione culturale che sembra essere
minacciato dalla cosiddetta occidentalizzazione del mondo.
Quale potrebbe essere, quindi, la forma corretta da dare al processo di
globalizzazione per evitare da un lato l’appiattimento e dall’altro l’integralismo della
diversità culturale? Pieterse individua nella forma dell’ibridazione culturale un punto
necessario verso l’integrazione umana.
Infatti, considerato che la storia dell’umanità è intrisa di flussi migratori che nel
corso dei secoli hanno permesso alle diverse culture di incontrarsi e mescolarsi tra loro
creando, spesso, nuove forme culturali, è impensabile fermare tale processo in virtù di un
principio di tutela e difesa della diversità culturale. La cultura nasce ed evolve insieme
all’uomo e per questo l’ibridazione costituisce necessariamente un passaggio
fondamentale nell’evoluzione dell’umanità. Gli studi hanno mostrato che nel processo di
ibridazione culturale le caratteristiche profonde di una cultura, valori, comportamenti, la
struttura fondante della cultura stessa, restano immutate, mentre si mescolano i diversi
aspetti folkloristici dando vita a nuove rappresentazioni della cultura di una comunità
[Pieterse 2005].
Riassumendo brevemente possiamo dire che il processo di globalizzazione può
essere interpretato in tre paradigmi diversi:
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1. l’estrema difesa della diversità culturale che vede le singole comunità difendere, a
volte in modo anche violento, la propria cultura di fronte all’aumento del contatto
con le altre culture scaturito dal processo di globalizzazione;
2. l’omogeneizzazione culturale che, al contrario, vede la globalizzazione come vettore
di diffusione di un’unica cultura globale storicamente quella occidentale che tende
ad appiattire le differenze in virtù di un unico valore unificatore;
3. l’interrelazione tra le diverse culture vede nella globalizzazione intesa come
l’abbattimento di ogni frontiera l’occasione di incontro, di conoscenza e di scambio
tra modi diversi di concepire il mondo.
Questo terzo paradigma della globalizzazione è senza dubbio quello più difficile da
realizzare in quanto prevede la costruzione di una nuova identità globale senza perdere di
vista quelle che sono le identità locali di partenza in quanto
«l’ibridismo è per la cultura ciò che la decostruzione è per il discorso: trascendere le
categorie binarie *…+è una collocazione intermedia» * ivi, p. 129]
Andando ancor più nello specifico possiamo associare ai tre paradigmi della
globalizzazione individuati da Pieterse i tre tipi di comunicazione individuati da Pearce
affermando che per comunità che praticano una comunicazione monoculturale sarà più
facile considerare la globalizzazione come campo di battaglia tra civiltà lontane tra loro,
così come per società che realizzano una comunicazione etnocentrica sarà più facile
interpretare la globalizzazione come un processo atto ad imporre un modello culturale in
modo da cancellare le diversità esistenti. Infine, il modello della comunicazione
cosmopolita è quello sostenuto da comunità che considerano la globalizzazione come un
processo ibrido, in cui questo ibridismo è l’unico elemento che possa condurre alla piena
integrazione umana. A questo proposito si pone un altro tipo di problematica: se per la
modernità la relazione, lo scambio e il mescolamento culturale sono considerati elemento
necessario ed essenziale, quale identità socio-culturale possiamo attribuire alla società
contemporanea? In altre parole, ha ancora senso, oggi, parlare di identità unica in una
società in cui identità culturali diverse si incontrano, si mescolano e condividono il loro
quotidiano? Queste saranno le domande chiave a cui si tenterà di rispondere nel prossimo
paragrafo.