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CAPITOLO PRIMO
IMPIEGO DEI MAGNETI PERMANENTI
La scelta di un magnete permanente è un’operazione complicata; ci sono molti fattori da considerare, più o
meno semplici per la buona riuscita di un progetto. Non bisogna quindi sorprendersi se spesso, trascurando
questi fattori, si verificano spiacevoli inconvenienti nel passaggio dalla fase di progetto alla realizzazione
vera e propria di un prodotto.
In questo capitolo si cercheranno di mettere in evidenza gli aspetti generali da considerare qualora si
vogliano impiegare i magneti permanenti.
I materiali magnetici duri attualmente più diffusi sono:
AlNiCo – sono leghe composte di alluminio, nichel e cobalto. Fin dalla loro scoperta il prodotto di
energia è andato via via aumentando, specialmente con l’introduzione della sua forma anisotropa. Le
caratteristiche principali sono un’elevata densità di flusso, superiore al tesla, un’ottima stabilità
termica e costi di fabbricazione ridotti. Tuttavia presentano un’estrema durezza e fragilità e una bassa
forza coercitiva che ne stanno sempre più limitando l’utilizzo in applicazioni dove sono richieste alte
induzioni residue e costi molto contenuti, mentre si ripiega su altri materiali per prodotti di maggiore
qualità.
Ferriti - si distinguono dagli altri materiali perché ceramici e non metallici, ma non per questo
rappresentano i più elevati prodotti di energia disponibili. Le induzioni residue sono basse e inoltre
sono fragili e difficili da lavorare. Hanno comunque avuto un elevato successo, che le ha portate a
coprire oltre la metà del mercato mondiale dei magneti, grazie agli elevati valori di coercività e ai costi
minimi. La caratteristica di demagnetizzazione è pressoché lineare e ciò ne agevola l’impiego nelle
macchine elettriche e in molte altre applicazioni. Per limitare la tendenza alla smagnetizzazione alle
basse temperature, cosa poco gradita nel settore automobilistico, e migliorare al contempo le
proprietà magnetiche delle ferriti, alcuni produttori aggiungono elementi quali cobalto e lantanio, o un
composto dei due, alle polveri base.
Magneti in terre rare
SmCo – sono ottenuti dalla combinazione di samario e cobalto e la loro scoperta negli anni ‘60 del
secolo scorso permise di combinare i vantaggi dei magneti in AlNiCo e in ferrite: un’elevata induzione
residua e coercività. Inoltre hanno una notevole stabilità termica. A causa della natura strategica del
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cobalto, il cui prezzo subisce consistenti variazioni, e del costo iniziale del samario, lo sviluppo di
questi materiali è tutt’oggi ridotto e il loro impiego è limitato a quelle applicazioni dove sia richiesto
un certo livello di miniaturizzazione dei componenti.
NdFeB - i magneti in neodimio, ferro e boro, nella loro forma sinterizzata, sono i più performanti
attualmente commercializzati con prodotti di energia BH compresi tra 183÷414 kJ/m
3
. Nel processo
di sinterizzazione una lega cristallina di NdFeB viene ridotta in polveri delle dimensioni inferiori al
micron all’interno di un laminatoio; quindi vengono sottoposte le stesse polveri a un intenso campo
magnetico e pressate nella forma base. Il blocco risultante è poi sinterizzato fondendo il materiale in
un metallo solido. Le leghe NdFeB sinterizzate sono meccanicamente più resistenti e meno fragili
rispetto agli altri magneti. Le materie grezze Nd e Fe sono molto abbondanti in natura e quindi il
costo è nettamente inferiore rispetto al SmCo.
Mentre la domanda per i materiali magnetici soft non ha subito notevoli variazioni nel corso degli anni, la
domanda mondiale di magneti permanenti è cresciuta in media del 9% ogni anno nell’ultimo ventennio. In
particolare quella relativa ai magneti NdFeB (legati e sinterizzati) sta crescendo con tassi del 12÷15% l’anno,
a spese soprattutto della quota di mercato occupata dalle ferriti. I magneti permanenti in NdFeB tendono
perciò a sostituirsi ai tradizionali magneti in ferrite, AlNiCo e SmCo in molti campi di applicazione: motori
elettrici, dispositivi elettroacustici, strumenti di misura, equipaggiamenti dell’industria automobilistica e
petrolchimica, apparecchiature elettromedicali. Una forte influenza nello sviluppo dei magneti in NdFeB fu
dovuta all’espansione di apparecchiature elettroniche di largo consumo, come computer e telefoni cellulari.
PROPRIETÀ PRINCIPALI DI UN MAGNETE
I parametri fondamentali che caratterizzano un MP sono sostanzialmente, la forza coercitiva H
C
, l’induzione
residua B
r
e il prodotto di energia BH. L’importanza da attribuire a queste proprietà dipende dalle
condizioni operative di un magnete, tenendo conto delle condizioni di esercizio tipiche e di quelle estreme.
Tipicamente le tabelle riportano le proprietà dei magneti riferite alla temperatura ambiente, ma se si pensa
di lavorare a temperature elevate bisogna tenere in considerazione la riduzione della densità di flusso e la
resistenza alla demagnetizzazione. Alcuni produttori forniscono le massime temperature ammissibili ma
talvolta sono indicazioni confuse e poco attendibili. Inoltre alcuni fattori di progetto specifici, come la
geometria del circuito magnetico o la presenza di campi esterni smagnetizzanti influiscono notevolmente
sui limiti termici.
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Geometria, dimensioni e tolleranze
La taglia e la forma dei MP variano molto in base all’applicazione a
cui sono destinati. Esistono MP a forma di disco, blocchi, arcuati, ad
anello etc. Le dimensioni spaziano dai piccoli magneti per orologi a
quelli di grossa taglia per motori industriali.
Per la realizzazione di un progetto di solito bisogna raggiungere un
compromesso tra configurazione dei magneti, limiti sulle tolleranze
e il corrispondente aumento di costi. Ad esempio nella realizzazione
di un motore sarebbero preferibili magneti di forma obliqua o
elicoidale (skewed) per ridurre la coppia d’impuntamento (cogging
torque) ma il costo di lavorazione per realizzare magneti con queste
caratteristiche comprometterebbe la convenienza finale della
macchina.
Altri conflitti nella scelta entrano in gioco, ad esempio, quando si vogliono confrontare magneti ad arco con
quelli ad anello. Per i motori brushless gli anelli sono più semplici da assemblare sul rotore; tuttavia
realizzare anelli con tolleranze ristrette richiede anche in questo caso un aumento della spesa. Bisogna però
dire che i magneti ad anello sono più facili da disporre in una configurazione che riduca il cogging. In
generale quindi per ridurre le tolleranze è necessaria una lavorazione aggiuntiva: si verrà a spendere sia per
il materiale in sé sia per la sua rimozione.
Considerazioni meccaniche
I magneti permanenti sono piuttosto fragili a vari livelli. Le ferriti e le leghe SmCo sinterizzate sono
estremamente delicate, mentre NdFeB sinterizzato è più robusto. E’ pertanto importante tenere presente
che i magneti non dovrebbero mai essere localizzati in strutture che li sottopongano a sforzi meccanici o
ancora dotarli di filettature/agganci per fissarli, dato che l’unico compito di un magnete è quello di
produrre flusso.
Rivestimenti e resistenza alla corrosione
In base al tipo di materiale scelto varia molto la scelta della protezione dalla corrosione. Ferrite, AlNiCo e
SmCo sono in genere stabili al riguardo e raramente richiedono un rivestimento speciale per proteggerli.
Le leghe NdFeB ad alta densità sono invece molto reattive e pertanto vanno protette. Vale la pena
ricordare però che anche i magneti più stabili possono trarre benefici da un rivestimento, qualora vi siano
preoccupazioni riguardo all’aspetto estetico, la protezione contro la perdita di particelle magnetiche o
semplicemente per maneggiarli.
Figura 1.1 magneti di varie forme.
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Tabella 1.1 tipi di rivestimento per magneti permanenti NdFeB.
I rivestimenti sono raggruppabili in due categorie: metallici e organici.
I rivestimenti metallici consistono nel ricoprire con materiali come nichel, rame, latta (lamiera di ferro con
un sottile strato di stagno sulla superficie) o una combinazione dei tre stratificati. In questa categoria
rientrano anche i depositi di ioni metallici, ad esempio alluminio o cadmio, particolarmente adatti qualora
non si possa eccedere troppo nelle tolleranze.
I rivestimenti organici consistono nell’applicazione di vernici speciali o in trattamenti di e-coating che
permettono alle leghe NdFeB di ottenere risultati notevoli anche in presenza di spruzzi salini.
La pessima resistenza alla corrosione dei magneti in NdFeB ne limitò notevolmente la diffusione agli albori
della sua commercializzazione. Il processo di corrosione in questi materiali comincia con la diffusione di
ossigeno, vapore acqueo o idrogeno lungo i bordi di grano. In particolare l’idrogeno, che non si trova
naturalmente nell’aria, si forma come sottoprodotto della reazione di corrosione quando l’ossigeno viene
strappato dalle molecole d’acqua. Paradossalmente un’altra sorgente d’idrogeno è introdotta dai processi
di elettrolisi o placcatura, preparatori al rivestimento del magnete. Il processo di ossidazione, che si
conclude con la formazione di Nd
2
O
3
, comporta un aumento di volume e la perdita di polveri che
danneggiano il magnete in modo irreversibile. Il deterioramento avviene anche alla presenza di: solventi
alcalini organici o acidi, liquidi conduttivi (acqua salata), oli e gas corrosivi (Cl, NH
3
).
Esistono due soluzioni per contenere la corrosione del NdFeB:
rivestimenti - la tabella 1.1 mostra i tipi di rivestimento più diffusi e le relative applicazioni.
migliorare le proprietà intrinseche del materiale - dapprima drogando il materiale con alcuni elementi
di transizione come Co, Ga, Mo o V. Quindi limitando la concentrazione di Nd. Quest’ultimo aspetto
inizialmente non era correlato con l’ossidazione e quindi si eccedeva nell’uso di Nd.
Di solito si applicano entrambi questi metodi, avendo particolare cura nella scelta dei materiali utilizzati,
preparando e rivestendo correttamente le superfici. In altre parole il rivestimento da solo non basta;
esistono casi in cui il rivestimento resta integro ma il magnete sottostante è distrutto.
Rivestimento Spessore [µm] Applicazione
Alluminio-Cromatura 7÷19 motori e sensori
Resine epossidiche 40÷80 altoparlanti , risonanza magnetica
Elettrodeposizione 20÷30 motori industriali
Placcatura in Nichel 10÷20 altoparlanti, motori e sensori
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La qualità del rivestimento è solitamente testata dal produttore del magnete ma per avere un’indicazione
definitiva sulla resistenza del magnete, la soluzione migliore è quella di testarlo in condizioni di servizio o in
un ambiente che le riproduca adeguatamente. Esistono test di stress che sottopongono il magnete a
condizioni estreme di temperatura, pressione, umidità e alla presenza di sostanze saline. Spesso un tipo di
rivestimento si dimostra efficace nei test effettuati su campioni di laboratorio ma, passando alla produzione
su larga scala, i risultati sono insoddisfacenti e si rende necessario intensificare i controlli di qualità sui
prodotti.
Testing
Ci sono due filosofie per testare i magneti. La prima consiste nel verificare le proprietà intrinseche del
magnete e di compararle con i dati forniti dal costruttore. Siccome i metodi usati sono simili, il costruttore
e il cliente si troveranno d’accordo quando il magnete non rispetta le specifiche. Tuttavia la verifica delle
proprietà intrinseche difficilmente riesce a prevedere le prestazioni finali del magnete e spesso ha un
effetto distruttivo sui componenti. L’altro approccio pertanto consiste nel testare il magnete nelle stesse
condizioni in cui sarà utilizzato. Questo permette di prevedere bene il comportamento del magnete ma è
difficile metterlo in relazione alle proprietà intrinseche date dal costruttore. Entrambi i metodi hanno
quindi vantaggi e svantaggi e di solito si cerca un compromesso tra le due possibilità.
Magnetizzazione
Lo scopo della magnetizzazione è quello di saturare completamente il magnete, altrimenti le sue proprietà
magnetiche decadrebbero in modo poco prevedibile. Una volta che il magnete è magnetizzato è più difficile
maneggiarlo, pertanto c’è la tendenza a rimandare questo passo alla fine o dopo l’assemblaggio. Tuttavia la
magnetizzazione a prodotto assemblato è più difficile essendo più complicato esporlo a campi
sufficientemente elevati per la saturazione. In generale si procede applicando campi sempre più intensi al
prodotto assemblato e, quando il flusso in uscita non cresce più, si ritiene che il magnete sia saturato.
Figura 1.2
effetto sulla placcatura in nichel
dopo 20 ore a 130°C, 260 kPa e
95% di umidità.
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Considerazioni costruttive
Oltre agli aspetti riguardanti la magnetizzazione, considerazioni aggiuntive vanno fatte quando ci si occupa
dell’assemblaggio dei magneti. Se la magnetizzazione avviene dopo averli montati non si presentano
preoccupazioni particolari nella fase di assemblaggio; se invece è richiesto il montaggio, ad esempio di
grossi magneti in terre rare in uno stato di pre-magnetizzazione, bisogna considerare le elevate forze di
attrazione che si sviluppano. Occorre prestare attenzione affinché i magneti non si attirino tra loro o con
altri materiali ferromagnetici (esempio utensili metallici come chiavi o cacciaviti) finché non siano
propriamente posizionati. Ciò anche per evitare seri danni alle persone coinvolte nelle fasi di montaggio.
Adesivi
Molte tipologie di adesivi sono usate per i magneti, dai ciano acrilati agli epossidici strutturali. La scelta
dipende dal materiale con cui sono accoppiati e dalle condizioni atmosferiche cui saranno esposti. Oltre alla
resistenza meccanica e alla compatibilità chimica tra i materiali, lo spessore dell’adesivo e la sua tolleranza
dovrebbero essere tenuti in conto nelle considerazioni progettuali.
STABILITÀ DEI MAGNETI
La capacità dei magneti di sostenere un campo magnetico è dovuta ai domini magnetici che sono bloccati
nella loro posizione dall’anisotropia del materiale. Una volta rimosso il campo magnetizzante iniziale, i
domini restano nella loro posizione finché non agiscono forze esterne superiori a quelle che li tengono fissi.
L’energia richiesta per alterare il campo prodotto dai magneti varia molto per ogni tipo di materiale. La
stabilità può essere descritta come “la possibilità di ottenere dal magnete le stesse prestazioni lungo tutta
la sua vita”.
Fattori che influenzano la stabilità sono il tempo, la temperatura, i cambiamenti di riluttanza, campi
smagnetizzanti, radiazioni, stress e vibrazioni.
Tempo
L’effetto del tempo sui magneti permanenti moderni è minimo; i cambiamenti maggiori si hanno
immediatamente dopo la magnetizzazione. Questi cambiamenti, noti come strisciamenti magnetici, si
verificano a causa di domini instabili che risentono delle fluttuazioni termiche e, riducendone il
numero, si riducono anche le variazioni. Da questo punto di vista il comportamento migliore lo
mostrano i magneti in terre rare mentre l’AlNiCo 5 può perdere al massimo il 3% della propria densità
di flusso dopo 100.000 ore di vita.
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Tabella 1.2 coefficienti di temperatura reversibile.
Tabella 1.3 temperature operative massime e di Curie.
Temperatura
Esistono tre effetti dovuti alla temperatura:
perdite reversibili - sono quelle perdite che spariscono quando il magnete ritorna alla sua temperatura
originaria e non possono essere eliminate dalla stabilizzazione dei magneti. Le perdite reversibili sono
descritte dal coefficiente di temperatura reversibile T
C
, come mostra la tabella 1.2, espresso in
percentuale per grado centigrado. E’ a causa della significativa differenza tra il coefficiente di
temperatura di B
r
rispetto H
C
che la curva di smagnetizzazione presenta un ginocchio alle elevate
temperature.
perdite irreversibili ma recuperabili - sono definite come una parziale smagnetizzazione del magnete a
causa della presenza di alte o basse temperature e, a differenza delle reversibili, sono recuperabili solo
con la rimagnetizzazione. Nel progettare il circuito magnetico si deve pertanto evitare che il magnete si
trovi a lavorare ad alte temperature in un punto oltre il ginocchio per evitare appunto questo genere
di perdite.
perdite irreversibili e irrecuperabili - si verificano quando sono presenti temperature talmente elevate
da cambiare la struttura chimica del magnete. Nella tabella 1.3 sono riportate le temperature di Curie
T
CURIE
, oltre la quale i domini magnetici sono disposti in modo disordinato e il materiale perde il
proprio magnetismo, e la temperatura operativa massima T
max
che rappresenta il limite pratico da non
oltrepassare per evitare danni.
Materiale T
CURIE
[°C] T
max
[°C]
NdFeB 310 150
SmCo 750 300
AlNiCo 860 540
Ferriti 460 300
Spesso si preferisce demagnetizzare parzialmente i magneti esponendoli a elevate temperature, al fine
di stabilizzarli e garantire un flusso costante quando si troveranno a operare a temperature inferiori.
Materiale T
C
di B
r
T
C
di H
C
NdFeB -0.12 -0.6
SmCo -0.04 -0.3
AlNiCo -0.02 0.01
Ferriti -0.2 0.3
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Ai magneti in NdFeB impiegati nei veicoli elettrici è richiesto di funzionare a temperature massime di
180°C e questo è reso possibile sostituendo al neodimio una quantità significativa di disprosio Dy che,
essendo molto meno abbondante del neodimio, provoca un aumento del costo del magnete.
Variazioni di riluttanza e campi smagnetizzanti
Il loro effetto sarà analizzato meglio in seguito, tuttavia per contenere gli effetti delle variazioni di
riluttanza si usa spesso stabilizzare i magneti sottoponendoli alle stesse variazioni di riluttanza del
circuito magnetico in cui sono inseriti.
Radiazioni
I magneti in terre rare sono comunemente usati nelle applicazioni dove è richiesto di deviare un fascio
di particelle cariche e quindi bisogna tenere in considerazione l’effetto che tali radiazioni possono
avere sulle proprietà magnetiche. Per evitare un’esposizione diretta dei magneti alle radiazioni si usa
spesso interporre uno schermo e si stabilizzano gli stessi pre-esponendoli ai livelli di radiazione previsti
in fase di assemblaggio.
IMPIEGO DEI MAGNETI PERMANENTI NELLE MACCHINE ELETTRICHE
La disponibilità di materiali magnetici moderni con una considerevole densità di energia ha permesso, fin
dagli anni ’50, di sostituire agli avvolgimenti di campo un’eccitazione a magneti permanenti, garantendo
una riduzione delle dimensioni e delle perdite. La macchina sincrona col suo tradizionale circuito di campo
rotorico è stata anch’essa modificata con l’ausilio dei magneti, andando a togliere anelli e spazzole.
Con la nascita dei transistori di potenza e dei tiristori fu poi sostituito al commutatore meccanico un
equivalente elettronico. Tutti questi aspetti portarono allo sviluppo delle attuali macchine sincrone a
magneti permanenti (PMSM) e delle macchine DC senza spazzole (DCBL). Nel caso delle macchine DCBL gli
avvolgimenti di armatura sono disposti sullo statore e non nel rotore come le macchine DC convenzionali, il
che ha permesso di migliorare il raffreddamento e l’isolamento degli avvolgimenti e quindi di raggiungere
tensioni superiori.
La caratteristica di demagnetizzazione dei vari materiali magnetici impiegati nelle macchine elettriche è
riportata in figura 1.3 solo per il secondo quadrante, poiché essi non hanno un’eccitazione esterna una
volta magnetizzati e devono quindi resistere alla presenza di campi esterni smagnetizzanti. Questo
includerebbe anche il terzo quadrante ma difficilmente lo si raggiunge nel normale funzionamento.
Ad eccezione dell’AlNiCo, che ha la più alta induzione residua ma un andamento non lineare della propria
caratteristica, le altre tipologie di materiali hanno andamento lineare nel secondo quadrante.
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Figura 1.3 caratteristiche nel secondo quadrante dei magneti permanenti.
La densità di flusso in corrispondenza di eccitazione nulla è detta densità di flusso residua B
r
. Nel caso dei
magneti ad alta coercività la caratteristica BH è una linea retta e la coercività è indicata con H
ch
.
Invece la caratteristica dell’AlNiCo ha una curvatura, detta ginocchio, alle basse densità di flusso.
In prossimità di questo punto essa decresce rapidamente verso induzione nulla e raggiunge il valore H
cl
di
campo magnetico. L’intensità del campo magnetico in corrispondenza del ginocchio è H
K
. Se l’eccitazione
esterna agente contro il magnete viene rimossa, esso recupera il proprio magnetismo seguendo una linea
parallela alla caratteristica BH originaria. In questo caso si raggiunge un nuovo valore d’induzione residua
B
rr
inferiore rispetto a quella iniziale e non più recuperabile. Anche se la retta di ritorno è indicata come una
linea dritta, solitamente si tratta di un ciclo (ciclo d’isteresi minore) il cui valore medio è rappresentato
appunto da tale retta. La pendenza di questa retta è µ
0
µ
rm
come si vede dalla relazione tra densità di flusso
e intensità di campo riportata a pagina 14, dove µ
rm
è la permeabilità relativa di ritorno (permeabilità
reversibile relativa). Per le leghe SmCo e NdFeB µ
rm
ha valori prossimi a 1.03-1.10.
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Figura 1.4 punto di lavoro dei magneti.
Figura 1.5 rappresentazione del percorso dei flussi.
Retta di carico
Per trovare il punto di lavoro sulla caratteristica di demagnetizzazione si considera il percorso del flusso
nella macchina. Il flusso passa dal polo nord del rotore allo statore attraversando un traferro, quindi si
richiude nel polo sud del rotore passando nuovamente per il traferro. Così facendo il flusso attraversa
due volte il magnete e due volte il traferro come mostrato in figura 1.5. La fmm fornita dai magneti
coincide con quella applicata al traferro nell’ipotesi di trascurare la caduta nel ferro di statore e rotore.
Quindi:
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Dove H
m
e H
g
rappresentano rispettivamente l’intensità di campo nel magnete e nel traferro mentre l
m
e
l
g
sono le lunghezze di magnete e traferro. La densità di flusso corrispondente al punto di lavoro può
essere individuata sulla caratteristica del magnete supponendo che quest’ultima sia una linea retta di
equazione:
Dal confronto delle equazioni, ricordando che il flusso nel magnete coincide con quello nel traferro, si
ricava:
Si ha la conferma che la densità di flusso operativa è sempre minore della densità residua, a causa
dell’eccitazione del traferro. Si ricorda inoltre che sono state trascurate le riluttanze del ferro e i flussi
dispersi nel ricavare queste equazioni. Per aumentare la densità di flusso operativa si può agire
riducendo il traferro o aumentando lo spessore del magnete.
Il punto di lavoro è indicato in figura 1.4 e la linea che lo connette con l’origine degli assi è detta retta di
carico. La pendenza di questa retta è pari al coefficiente di permeanza fittizia µ
C
.
Se lo statore viene alimentato, producendo un campo smagnetizzante, la retta di carico trasla verso
sinistra parallelamente alla retta originale della quantità H
e
, come mostra la medesima figura.
Si osserva innanzitutto che l’intersezione con l’asse H non dipende dalle grandezze geometriche del
traferro, ma dal campo esterno e dalle dimensioni del magnete permanente. Il punto di lavoro si sposta
ancora, riducendo ulteriormente la densità di flusso B
m
.
Da notare che il coefficiente di permeanza è ricavato, per un certo punto di lavoro definito da B
m
e H
m
,
come:
Da cui:
dove µ
re
è la permeabilità esterna.
15
Figura 1.6 caratteristiche H [A/m] e BH [MJ/m
3
]
Le variazioni della densità di flusso residua sono provocate dai cambiamenti di temperatura così come
dall’impatto dei campi esterni, entrambi i quali sono indotti dalle condizioni operative esterne, da qui il
nome di permeabilità esterna. Se ad esempio s’introduce un campo esterno demagnetizzante, si nota
che il coefficiente di permeanza decresce allo stesso modo in cui diminuisce la permeanza esterna per
un dato punto di lavoro. Per un magnete duro la permeabilità esterna varia da 1 a 10 in condizioni
nominali.
Densità di energia
La densità di energia del magnete si ricava dal prodotto tra l’intensità di campo e la sua densità di flusso.
Il punto di lavoro prossimo al picco di energia è quello ottimale dal punto di vista dell’utilizzazione del
magnete. Esso si ricava eguagliando a zero la derivata della densità di energia rispetto all’intensità di
campo. La massima densità di energia per un magnete, mostrata in figura 1.6, vale:
La densità di flusso alla quale è disponibile la massima energia è pari a . La linea di carico passante per
questo valore d’induzione dà la corrispondente intensità di campo magnetico. Bisogna notare che
questo punto di lavoro a massima densità di energia richiede un elevato campo demagnetizzante dagli
avvolgimenti statorici della macchina. Inoltre non è possibile mantenere sempre lo stesso punto di
lavoro in una macchina a velocità variabile poiché le correnti di statore variano notevolmente per
coprire il campo di funzionamento.
Retta di carico