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1. ABSTRACT
Lo studio ha il fine di esplorare come le persone amputate d‟arto inferiore
unilateralmente (soggetti di entrambi i sessi senza limiti d‟età) si relazionano con la
propria protesi dopo un lungo periodo di tempo trascorso dopo l‟intervento. I dati che
sono stati raccolti attraverso un questionario costruito ad-hoc consentono di individuare
dall‟esperienza in prima persona come la protesi si relaziona con il corpo e la mente del
soggetto amputato.
Dall‟analisi dei dati raccolti risalta un bisogno imperioso di riabilitazione sebbene sia
passato un lungo lasso di tempo e queste persone non siano più seguite da nessun servizio
di riabilitazione. Si nota come le persone non riescono ad includere nelle spazio
intracorporeo la protesi per sfruttarla come strumento di conoscenza e di relazione con il
mondo esterno. Da qui scaturiscono compensi dannosi per il benessere della persona e
limitazioni nelle sue attività funzionali, associate con notevoli alterazioni percettive.
Il fisioterapista, in collaborazione con altre figure professionali, ha un ruolo cruciale
nella presa in carico di questo tipo di paziente che ha la necessità di essere sostenuto nel
processo di correzione della percezione dello spazio intracorporeo e nell‟incremento
dell‟informatività da parte della protesi.
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2. INTRODUZIONE
Amputazione vuol dire “operazione chirurgica o trauma per cui sia asportato (tutto o
in parte) un arto o un organo”. In senso figurato il verbo amputare significa “ridurre,
accorciare drasticamente o senza criterio” (1). Generalmente viene inteso come sinonimo
di eliminazione, soppressione, riduzione drastica e drammatica.
Come possiamo notare tutti questi termini hanno una connotazione semantica
negativa e danno la sensazione d‟incompletezza acquisita. In effetti, le persone che hanno
subito un intervento d‟amputazione, sono viste dalla società come private di naturalezza,
interezza, funzionalità e in un certo senso mutilate.
Come ha osservato Alessandra Vecoli, fisioterapista, in modo simile anche la parola
“moncone” fa pensare ad una mancanza. Inoltre, precisa lei, questo termine risulta
accettabile in campo chirurgico, però non in quello della fisioterapia in cui siamo sempre
e comunque “nell’ottica di quello che si deve (ri)acquisire”(2) e non di quello che è
andato perduto. Per questo motivo ci propone il termine “elemento terminale dell’arto
leso”, che ha lo scopo di ridimensionare il modo di pensare la riabilitazione
dell‟amputato.
Il pensiero di perdere una parte anatomica, come un arto inferiore, è devastante per la
maggioranza delle persone. Quando succede, l‟amputazione produce una triplice perdita
in termini di funzione, di sensazione e di immagine corporea. Una delle difficoltà più
grandi, però, cui va incontro una persona amputata è lo stigma sociale che le sarà
attribuito di persona con grandi difficoltà motorie e grave disabilità. Secondo la scrivente,
questo credo è ormai obsoleto e numerosi studi nella letteratura dimostrano le alte
capacità di recupero di questi pazienti tramite un corretto approccio riabilitativo.
Tramite il follow-up di pazienti amputati effettuato con questo studio si è voluto
indagare sui comportamenti e sul modo di muoversi dei pazienti oltre che sulla
riorganizzazione delle mappe neuronali, allo scopo di offrire ai fisioterapisti nuove e
importanti informazioni su come seguire la rieducazione di questo tipo di utenti.
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3. ACCENNI GENERALI
3a. Incidenza ed eziologia
Le amputazioni di arto possono essere classificate in congenite e acquisite (4). Le
forme congenite sono rappresentate da malformazioni nelle quali c‟è una completa
aplasia dell‟arto oppure un‟ipoplasia nella quale la crescita è compromessa in un grado
grave e ad un certo punto si decide l‟amputazione.
Ultimamente però sono molto più frequenti le amputazioni acquisite che solitamente
sono dovute a queste cause:
o Malattie vascolari periferiche (PVD) (3) - la maggior parte sono rappresentate da
ischemie dei tessuti periferici, soprattutto nell‟età avanzata affette da diabete mellito.
Solitamente i pazienti hanno una storia di pregressa neuropatia periferica, ulcere e
susseguente cancrena e osteomielite.
o Tumore - non più molto frequente per il sopravvento di tecniche avanzate per la
salvaguardia dell‟arto.
o Trauma - le fratture molto gravi con danni dell‟arteria poplitea e del nervo tibiale
posteriore possono essere trattate, però a volte i risultati sono molto scarsi e vengono
richiesti più interventi, per cui l‟arto è dolente e meno funzionale ed efficiente di una
protesi.
o Infezioni - il trattamento della sepsi con vasocostrittori può condurre ad un‟occlusione
dei vasi e di conseguenza ad una necrosi distale che ha bisogno dell‟amputazione.
Statisticamente, dai cinque ai cinquanta anni le cause traumatiche d‟amputazione
sono le più frequenti, invece, dai sessanta anni in su le principali diventano le
vascolopatie. Per quanto riguarda la sede delle amputazioni, Basaglia riferisce i dati del
Ministero della Sanità negli anni 1999-2002, dai quali risulta che in quel periodo sono
state effettuate 42949 amputazioni d‟arto inferiore e 11357 dell‟arto superiore. Si rileva
che il numero d‟amputazioni di arto inferiore rappresentano il 79% di tutti gli interventi
di questo tipo. Inoltre le localizzazioni del livello di taglio sono nel 47% dei casi
transtibiale e nel 31% transfemorale e insieme compongono il 78% (4).
Tenendo presenti queste percentuali, ci si può rendere conto anche dell‟importanza,
dal punto di vista della società e del mondo del lavoro, della riabilitazione corretta dei
pazienti per poter loro garantire un ritorno ad una vita simile a quella precedente
all‟amputazione. Generalmente si pensa che le persone che hanno subito un intervento
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simile, soprattutto se si tratta di persone giovani senza altre co-morbilità, recuperino in
fretta e in modo eccellente. Come ci ricorda, però, Scott M. Tintle e il suo gruppo di
studio (5), la metà delle persone amputate (51%) va incontro ad un disturbo di natura
anatomica, nonché a problematiche neuropsicologiche.
3b. L’amputazione dal punto di vista dell’ortopedico
Un intervento per essere considerato riuscito deve rispettare certi criteri (5):
Eseguire all‟inizio la rimozione massiccia del materiale necrotico ed estraneo e
l‟irrigazione (specialmente nel caso di un trauma);
Preservare un maggior numero d‟opzioni per il modellamento del moncone mantenendo
la lunghezza massima possibile e salvare tutti i tessuti vitali dopo la prima procedura;
Preservare le articolazioni funzionali e, nel caso di trauma, trattare le fratture secondo i
metodi tradizionali;
Effettuare la trazione e la neurectomia di tutti i nervi motori, sensitivi e misti in
prossimità dell‟estremità del moncone;
Identificare, isolare e chiudere saldamente tutti i vasi sanguigni;
Smussare e lisciare l‟estremità dell‟osso, proteggendo il periostio;
Effettuare una miodesi stabile con una tensione muscolare fisiologica e aumentare
successivamente la stabilità con una mioplastica secondaria;
Assicurarsi di avere un‟imbottitura distale robusta;
Mantenere un frequente follow-up nell‟immediato periodo post-operatorio per
identificare e prevenire precocemente le eventuali complicazioni senza ricorrere a un
altro intervento.
Rispettare le regole dell‟operazione è molto importante perché se il chirurgo non
esegue un corretto bilanciamento muscolare, potrebbero comparire delle contratture
prossimali, difficoltà nel controllo funzionale dell‟arto residuato, ecc (5). Ovviamente in
questi casi, il recupero funzionale e la riabilitazione saranno gravemente compromesse.
Inoltre, bisogna tener conto del fatto che una persona amputata consuma molto più
energia per deambulare (3): per esempio una persona che ha subito un‟operazione a
livello transfemorale consuma il 50-65% in più di energia rispetto a una persona con gli
arti integri.
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3c. L’amputazione dal punto di vista del neurofisiologo
La coscienza e le sensazioni che abbiamo del nostro corpo sono fondamentali per
l‟auto-consapevolezza del proprio io. Ma come viene costruita l‟immagine corporea e
come essa influisce sulla nostra vita, sui nostri movimenti e il nostro benessere?
Gli studi sull‟immagine mentale hanno preso spunto dalle immagini visive che
possono essere generate internamente al nostro cervello. Questa capacità della nostra
mente non è stata presa in considerazione dal mondo scientifico fino agli anni ‟80 perché
si trattava di un‟esperienza soggettiva, qualitativa e quindi difficilmente quantificabile.
Noi utilizziamo, però, questo strumento costantemente nella vita di tutti i giorni, per
esempio quando stiamo pensando a come raggiungere un certo punto della città ci
costruiamo mentalmente una mappa delle strade che dovremmo percorrere (6).
La capacità di organizzare l‟immagine mentale è caratterizzata da due elementi (6):
- Competenza di rappresentarsi situazioni, oggetti, esperienze motorie anche in assenza
di queste;
- Competenza di avere coscienza di ciò che si sta immaginando.
Tuttavia per la riabilitazione risultano più significative due tipi specifici
dell‟immagine mentale: l'immagine corporea e lo schema corporeo. Questi termini per
molto tempo sono stati considerati sinonimi e ciò ha creato molta confusione. Come ci
spiegano Giovanni Berlucchi e Salvatore M. Aglioti in una recente review, l‟auto-
consapevolezza del proprio corpo è un concetto difficilmente comprensibile, che
dev‟essere vista come una competenza acquisita attraverso la propriocezione, conoscenza
e valutazione del proprio e altrui corpo, movimento o anche emozione e intenzione. Il
loro studio della letteratura ha evidenziato l‟evoluzione delle teorie sullo schema
corporeo e immagine corporea, cosa distingue questi concetti e inoltre hanno illustrato la
loro influenza sulla cognizione del corpo (7). I primi studiosi sono stati Head e Holmes, i
quali un secolo fa (1911/1912), hanno suggerito che lo schema corporeo è costruito
istante per istante dal cervello avendo come base la propriocezione e la superficie
corporea (quindi possiamo misurare i cambiamenti posturali, le stimolazioni tattili e i
movimenti). Questa definizione è però molto lacunosa e lascia spazio alle interpretazioni
soggettive, per cui risulta poco scientifica, soprattutto perché abbiamo ormai a
disposizione le nuove teorie di Melzack della neuromatrix. Questi è: “un sistema
cerebrale distribuito ma funzionalmente integrato che agisce come un tutt'uno e produce
una sensazione del corpo come un'unità, anche se con caratteristiche diverse in tempi