3
Premessa
Il tema della diversificazione strategica è da sempre uno degli argomenti più
dibattuti in letteratura catturando l’attenzione di studiosi appartenenti a diverse
discipline che vanno dall’economia alla strategia, dall’organizzazione alla finanza e
così via.
Se a questo aggiungiamo il comportamento reale tenuto dalle imprese ci
rendiamo conto che è naturale che ancora oggi le definizioni e gli effetti derivanti
dall’adozione di una strategia di diversificazione ancora oggi non sono univoche e
in alcuni casi sono addirittura in contrasto fra loro.
Questo perché nel corso della storia abbiamo assistito ad un susseguirsi di
ondate si diversificazione seguite da ondate di rifocalizzazione che non danno modo
di analizzare a fondo il fenomeno e stabilire punti fermi su quelli che sono gli effetti
e le relative cause.
Tradizionalmente gli studi si sono concentrati sulla possibilità di creare valore
per l’impresa attraverso una strategia di diversificazione che permette di aumentare
la performance dell’impresa, cercando di individuare appunto quali siano le cause e
gli effetti dell’implementazione di una strategia di diversificazione.
In questo modo sono stati individuati una serie di vantaggi e svantaggi che in
qualche modo cercano di spiegare il comportamento delle imprese, in particolare il
vantaggio principale viene individuato in una riduzione del rischio causato da un
minore volatilità di flussi di cassa il ché si traduce in un maggior valore per gli
azionisti, il principale svantaggio invece riguarda l’adozione di comportamenti
opportunistici da parte dei manager con conseguente riduzione del valore per gli
azionisti, quindi l’effetto finale dipenderà dal bilanciamento dei benefici e dei costi
che una strategia di diversificazione comporta.
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Negli ultimi anni, a fianco agli studi sulla relazione diversificazione –
performance, sono sorti una serie di studi sulle differenze strutturali fra chi decide
di diversificare la propria attività e chi decide di non farlo.
Infatti il principale vantaggio di una strategia di diversificazione consistente in
un minor rischio operativo e conseguente minor volatilità dei flussi di cassa, ha un
impatto diretto su quelle che sono le scelte di struttura finanziaria adottate dalle
imprese.
Questo è un filone di ricerche molto recente anche perché le teorie sulle scelte
di struttura finanziaria si sono sviluppate principalmente dopo le Proposizioni di
Modigliani e Miller negli anni ’50-’60, con la ricerca di tutte quelle variabili che in
qualche modo vanno ad incidere sul livello di indebitamento scelto dall’impresa.
Una di queste è rappresentata proprio dalla diversificazione strategica, la cui
relazione sarà analizzata in questo lavoro di tesi.
In particolare il mio lavoro è stato strutturato in tre capitoli:
nel primo verranno analizzate le principali teorie sulla diversificazione e
sulla struttura finanziaria andando ad individuare quelle che sono le
principali definizioni accettate in letteratura ed i principali costi e
benefici che derivano dagli studi più rilevanti;
nel secondo si cercherà di definire quella che è la relazione fra
diversificazione e scelte di struttura finanziaria individuando attraverso i
contributi attualmente presenti in letteratura, quelli che sono i principali
costi e benefici che derivano dalla relazione e che modo la
diversificazione va ad influenzare le scelte dell’impresa riguardati la
propria struttura finanziaria;
nel terzo e ultimo capitolo si individueranno inizialmente quelli che sono
i risultati ottenuti in letteratura, dopodiché si passerà all’ analisi empirica
di un campione di imprese quotate sul mercato italiano e di un campione
di imprese quotate sul mercato United Kingdom, andando ad individuare
5
in questo modo la relazione fra diversificazione e leverage e le
differenze esistenti fra i due campioni di imprese.
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Capitolo 1
Diversificazione e struttura finanziaria
1.1. Definizione di diversificazione
La diversificazione è un tema che negli ultimi decenni si è affermato catturando
l’attenzione di numerosi studiosi di diverse discipline: dall’economia alla strategia,
dall’organizzazione alla finanza.
Questo tema si è sviluppato soprattutto in seguito all’osservazione dei
comportamenti delle imprese che tendono ad investire in attività differenti dal
proprio core business, ponendo, di conseguenza, l’attenzione anche sugli aspetti
economico-finanziari legati a questo fenomeno.
Tuttavia, nonostante una letteratura ampia e variegata, a causa dell’alternarsi di
ondate di diversificazione e rifocalizzazione da parte dell’imprese, non è possibile
individuare una definizione univoca, ma si deve fare contemporaneamente
riferimento a più definizioni, ognuna rispondente a peculiari aspetti su cui ci si
sofferma.
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1.1.1. La diversificazione secondo Ansoff
Uno dei principali contributi alle ricerche sulla diversificazione viene dato da
Ansoff (1957, 1958) che focalizzò la propria attenzione sulla diversificazione intesa
come atto di crescita e la definì come l’entrata in nuovi prodotti e nuovi mercati, in
pratica la diversificazione, nella concezione di Ansoff, viene vista come una delle
alternative di sviluppo che un impresa può perseguire.
Per tale motivo egli definisce quelle che sono le alternative strategiche di
crescita per un impresa facendo riferimento a due dimensioni (prodotti e mercati) ed
elaborando così una matrice 2x2 (Figura 1.1) all’interno della quale è possibile
identificare 4 differenti strategie di crescita:
Figura 1.1 Matrice prodotto/mercato
Tratta da: Ansoff H.I., 1957,”Strategies for diversification”. Harvard Business
Review, Sept. - Oct. pag.114
Market penetration, aumentare la propria quota di mercato fermo
restando l’attuale combinazione prodotto-mercato;
Market development, destinare l’attuale linea di prodotti a nuovi
mercati;
Product development, creare nuovi prodotti per sostituire o affiancare i
prodotti esistenti nei mercati attuali;
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Diversification, creare nuovi prodotti per servire nuovi mercati.
Mentre per le prime tre strategie è possibile individuare almeno un
denominatore comune con l’attività originaria dell’impresa, che può essere
rappresentato dalle capacità di marketing, dalle caratteristiche tecnologiche del
prodotto o da entrambe, nel caso della diversificazione l’impresa, secondo Ansoff
(1957), deve sviluppare “....new skills, new techniques, and new facilities”
1
.
Subito dopo, Ansoff (1958, 1965) individua tre diverse direzioni per
implementare una corretta strategia di diversificazione (Figura 1.2):
Figura 1.2 Vettori di sviluppo nella diversificazione
Tratta da: Ansoff H.I., 1965, “Corporate Strategy”, McGraw-Hill Book Company,
New York pag. 146
1
Ansoff H.I., 1957,”Strategies for diversification”. Harvard Business Review, Sept. Oct. pag.114
9
Horizontal diversification, che comporta l’introduzione di nuovi
prodotti nei mercati in cui opera l’impresa, andando a sfruttare
soprattutto sinergie di marketing;
Vertical diversification or vertical integration, che consiste
nell’incorporare all’interno dell’impresa specifiche funzioni del prodotto
precedentemente provvedute da imprese situate a monte o a valle della
propria catena produttiva;
Lateral diversification, che si distingue in concentric diversification che
consiste nello sfruttare le proprie conoscenze, competenze e capacità di
marketing, tecnologiche o di entrambe in nuovi settori di business, e in
conglomerate diversification che comporta l’entrata in nuovi settori
dove non è possibile sfruttare alcun effetto sinergico.
Ovviamente non mancano le critiche in particolare Reed e Luffman (1986) si
concentrano sul presupposto che vi sia una naturale correlazione positiva tra
diversificazione e crescita, essi infatti fanno notare che spesso tale correlazione non
è riscontrabile nella realtà.
Nonostante questo, la definizione data da Ansoff è stata adottata per lungo
tempo negli studi di management e ancora oggi, seppur rivisitata, è ampiamente
condivisa.
1.1.2. Altri contributi in letteratura
Come abbiamo già detto la letteratura non si riduce solo al contributo dato da
Ansoff, ma è molto ampia e variegata, anche se è comunque possibile individuare
un gruppo di autori il cui contributo ha avuto un peso maggiore.
Sicuramente fra essi deve essere inclusa la Penrose (1959) che si concentra sul
processo di diversificazione affermando che “… un impresa diversifica le sue
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attività produttive ogniqualvolta, senza abbandonare le vecchie linee di prodotto,
inizia la produzione di nuovi prodotti, incluse produzioni intermedie, che sono
sufficientemente differenti dalle produzioni precedenti e che implicano, quindi,
qualche differenza rilevante nei programmi di produzione o di distribuzione”
2
includendo in questa definizione incrementi di varietà del prodotto finale,
operazioni di integrazione verticale e incrementi del numero di basic areas di
produzione in cui l’impresa opera.
Nei suoi studi la Penrose seguì l’approccio resuorse based view che consiste nel
vedere il processo di diversificazione come un opportunità di crescita dell’impresa
attraverso l’impiego dell’eccesso di capacità produttiva o di risorse a disposizione
dell’impresa.
Tale approccio fu seguito anche da Chandler (1962), infatti egli studiò a fondo
le grandi corporation americane, caratterizzate dalla continua esigenza di crescita e
di allocazione efficiente ed efficace delle risorse a propria disposizione e per tale
motivo si trovò d’accordo con la Penrose (1959) nell’affermare che la
diversificazione rappresenta la miglior opportunità a tale riguardo.
Egli affermò che il fattore fondamentale che determina il successo di una
strategia di diversificazione è la scelta di una adeguata struttura organizzativa,
infatti Chandler afferma che l’impresa nel definire il proprio percorso di crescita e
sviluppo deve, contemporaneamente, definire un processo di sviluppo organizzativo
che consenta di supportare il processo strategico di crescita.
Gort (1962), invece, studia il fenomeno della diversificazione secondo la
prospettiva economica e la definisce in termini di un aumento dell’eterogeneità
degli output sulla base del numero di singoli mercati serviti dall’impresa ed
individuandoli attraverso i codici SIC
3
.
Nel corso del tempo gli studi sulla diversificazioni sono aumentati sempre di
più e contemporaneamente anche le definizioni date.
2
Penrose E.T., 1959, “The theory of the growth of the firm”, Basil Blackwell. Ed. Ital., 1973, “La teoria dell’espansione
dell’impresa”. Franco Angeli Editore, Milano, Italy, pag. 147-148
3
Standard industrial classification, consiste in un codice che identifica il settore merceologico di appartenenza di una
determinata impresa
11
Barry (1975), ad esempio, la definisce come l’incremento del numero di settori
in cui l’impresa opera; Kaiman e Schwartz (1975) come la misura con la quale le
imprese appartenenti ad un dato settore producono beni imputati ad un settore
diverso; Pitt e Hopkins (1982) come la misura con cui le imprese operano in
differenti business simultaneamente; Ramanujamn e Varadarajan (1989) come
l’ingresso di un impresa o di una business unit in nuove linee di attività attraverso
processi interni di sviluppo o acquisizioni che comportano cambiamenti nella sua
struttura amministrativa, nei sistemi e in altri processi di gestione.
Per quanto riguarda gli studiosi italiani c’è da sottolineare le definizioni date da
Volpato (1985), che afferma che la diversificazione è un processo di dilatazione
della gamma di prodotti venduti, e da Rispoli (2002), che invece afferma che la
diversificazione consiste nel perseguimento di una strategia di crescita ottenuta
affiancando alla linea o alle linee esistenti una o più nuove linee con esse
variamente collegate in termini di intensità e modalità del collegamento stesso, ma
tali da sviluppare, in relazione diretta al loro grado di vicinanza, effetti sinergici di
ricerca, produzione, distribuzione, comunicazione ed immagine aziendale.
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1.2. Come misurare il grado di diversificazione di un impresa
Osservando i comportamenti delle imprese gli studiosi hanno iniziato a
chiedersi inizialmente se una strategia di diversificazione porti ad avere delle
performance migliori e, negli ultimi anni, se una strategia di diversificazione
influenzi le scelte di struttura finanziaria.
Per rispondere a queste domande si deve prima risolvere il problema di come
misurare il grado di diversificazione, uno dei primi a concentrarsi su ciò fu Leonard
Wrigley (1970).
Egli basandosi sul lavoro di Chandler (1962) elaborò un nuovo metodo di
misurazione della diversificazione che si basa sul concetto delle categorie di
diversificazione che derivano dal grado di correlazione (relatedness) che esiste tra i
diversi business di un impresa.
In particolare individua quattro categorie di diversificazione:
Single product, imprese non diversificate;
Dominant product, imprese prevalentemente mono-business con un
moderato grado di diversificazione;
Related product, imprese diversificate in attività correlate;
Unrelated product, imprese diversificate in attività non correlate.
Il contributo più importante però appartiene a Rumelt (1974) che prima diede
una propria definizione di diversificazione definendola come l’entrata di un impresa
in nuovi prodotti/mercati attraverso un significativo aumento delle proprie
competenze manageriali, sottolineando così l’eterogeneità dell’atto diversificazione
e l’importanza delle risorse e delle competenze, dopodiché introdusse una serie di
correttivi al lavoro di Wrigley (1970).
Prima di tutto discrimina le diverse attività di un impresa non attraverso
classificazioni settoriali ma facendo ricorso al concetto di singoli business, cioè il
numero di attività che possono essere gestite singolarmente in modo indipendente
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rispetto alle altre, mentre il secondo passo consiste nel misurare il grado di diversità
avvalendosi di due metodi, uno basato sul calcolo del volume d’affari generato da
ciascun business rispetto a quello totale e l’altro basato sull’identificazione della
logica strategica sottostante alla scelta di diversificare.
A tal fine costruì tre indici:
Specialization ratio (SR), l’indice di specializzazione calcolato come
rapporto tra il volume d’affari prodotto dal business principale in cui
opera l’impresa e il volume d’affari totale;
Related ratio (RR), l’indice di correlazione calcolato come rapporto tra
il volume d’affari prodotto dal maggior gruppo di attività di un’impresa
e il volume d’affari totale;
Vertical ratio, l’indice di integrazione verticale calcolato come rapporto
tra la proporzione del volume d’affari generato in un anno dai by-
products, da prodotti intermedi e dai prodotti finiti di un impresa
integrata verticalmente e il volume d’affari prodotto complessivamente.
Attraverso l’indice di specializzazione, Rumelt assegna le varie imprese a
quattro categorie diverse:
Single business, per le imprese con un SR compreso tra 0,95 e 1;
Dominant business, per le imprese con un SR compreso tra 0,7 e 0,95;
Related business ed Unrelated business, per le imprese con un SR
minore di 0,7.
L’indice di correlazione viene utilizzato, invece, per distinguere tra imprese
Related business e Unrelated business, in particolare le imprese con un RR
maggiore di 0,7 appartengono alla categoria Related mentre quelle con un RR
inferiore a 0,7 alla categoria Unrelated, mentre l’indice di integrazione verticale
serve per classificare in modo accurato le imprese integrate a monte e a valle della
propria catena produttiva.
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Rumelt, infine, introduce delle sottocategorie, per quanto riguarda la categoria
Related business si può distinguere in Related constrained, che comprende le
imprese i cui business siano tutti contemporaneamente correlati, e Related linked,
che comprende le imprese i cui business sono singolarmente correlati; per la
categoria Dominant business distingue in Dominant constrained e Dominant linked,
che sono simili alle precedenti, e in Dominant Unrelated, che è composta dalle
imprese con un business dominante non correlato ai business minori; infine per la
categoria Unrelated business distingue tra Acquisitive conglomerate, che
comprende le imprese che perseguono l’obiettivo diversificazione attraverso
l’acquisizione di altre imprese e caratterizzate da tassi di crescita dell’EPS
4
superiori al 10%, e Unrelated passive, che comprende tutte le altre imprese.
Il vantaggio principale dell’approccio seguito da Rumelt è che si tratta di una
prospettiva strettamente legata ai processi interni e avente una maggiore specificità
rispetto alle caratteristiche delle singole imprese, contrariamente all’approccio
basato su codici SIC strutturato, invece, su base settoriale.
Per quanto riguarda gli svantaggi il principale difetto di questo approccio fu
individuato dallo stesso Rumelt nella mancanza di oggettività, anche se tale
svantaggio viene compensato dalla rilevanza di tale approccio rispetto al tema della
misurazione della diversità e dal fatto che induce a chiedesi realmente se la strategia
adottata sia realmente una strategia di diversificazione o meno.
A conferma della bontà dell’approccio di Rumelt, molti studiosi hanno
utilizzato misurazioni categoriche molto simili ad esso.
4
Earnings per share, sono gli utili che un'azienda ha generato parametrati al numero di azioni emesse dall'azienda stessa,
la formula per il calcolo dell’EPS è la seguente: nullnullnull null
nullnullnullnullnull nullnullnullnullnullnullnullnullnull
nullnullnullnullnullnull nullnullnullnullnullnull nullnullnullnullnullnull nullnull nullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnullnull
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1.3. Perché diversificare
Nel corso dei loro studi i vari autori si sono soffermati anche sui motivi che
spingono le imprese ad adottare una strategia di diversificazione e anche in questo
caso non si è riusciti ad individuare una tesi comune a tutti, con la conseguenza che
le motivazioni proposte sottostanti a tale scelta sono molteplici.
Nel tentativo di fare un pò d’ordine la Montgomery (1994) ha provato a
classificare le motivazioni presenti in letteratura all’interno di tre categorie:
Market power view o collusion theory, che comprende le motivazioni
legate alle dinamiche competitive interne ai settori interessati;
Agency view, che comprende le motivazioni legate al perseguimento di
strategie non rispondenti a logiche value-enhancing a beneficio della
proprietà ma a logiche opportunistiche di difesa e di trinceramento
manageriale;
Resourse based view, che comprende le motivazioni legate al
perseguimento delle opportunità di crescita grazie all’impiego
dell’eccesso di capacità produttiva o di risorse a disposizione.
In ogni caso tutti gli studiosi concordano nel ritenere che le strategie di
diversificazione comportano da un lato degli effetti benefici per le imprese che le
intraprendono e dall’altro dei costi notevoli di implementazione che comportano
una attenta valutazione dei benefici e dei costi marginali, in quanto solo attraverso
la loro comparazione si può stabilire se perseguire o meno la strategia di
diversificazione.
Partendo proprio dalla possibilità di ottenere dei benefici, nel corso del tempo
sono state proposte numerose motivazioni che, allo stesso tempo, sono anche fonte
di costi, motivo per cui l’impatto definitivo sul valore delle imprese non può essere
definito a priori.