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INTRODUZIONE
La problematica dello smaltimento e condizionamento dei rifiuti nucleari di origine medicale e
industriale risulta di estrema importanza in ottica nazionale e internazionale.
Sono definiti rifiuti radioattivi quei materiali di scarto che contengono o sono contaminati da
radionuclidi e la cui concentrazione d‟attività è maggiore di un valore di soglia individuato dalle
normative nazionali. In ambito internazionale, il rifiuto radioattivo è un «qualsiasi materiale che
contiene o è contaminato da radionuclidi a concentrazioni o livelli di radioattività superiori alle
”quantità esenti” stabilite dalle Autorità Competenti, e per i quali non è previsto alcun uso».
Secondo la definizione fornita dall‟Agenzia Internazionale dell‟Energia Atomica (IAEA
International Atomic Energy Agency) il rifiuto radioattivo è un «materiale radioattivo in forma
solida, liquida o gassosa per il quale non è previsto alcun ulteriore uso e che è tenuto sotto controllo
come rifiuto radioattivo dall‟Organismo Nazionale a ciò preposto secondo le norme e le leggi
nazionali». Invece, per quanto riguarda la normativa italiana, il rifiuto radioattivo è «qualsiasi
materia radioattiva, ancorché contenuta in apparecchiature o dispositivi in genere, di cui non é
previsto il riciclo o la riutilizzazione», di cui al d.lgs. 17 marzo 1995, n. 230, e al d.lgs. 26 maggio
2000, n. 241. Tutte le normative di sicurezza nucleare hanno lo scopo di minimizzare il più
possibile i rischi connessi con l‟uso di materiali radioattivi o con l‟esposizione alle radiazioni,
tenendo anche conto dei vantaggi che possono derivare alla società. I criteri generali comuni a tutte
le norme internazionali in materia di rifiuti radioattivi sono:
• l‟ottimizzazione delle dosi individuali e collettive (secondo il criterio ALARA) e la preservazione
della qualità dell‟ambiente;
• l‟adozione di adeguati provvedimenti atti a ridurre il volume dei rifiuti radioattivi e a fissare, ove
necessario, i radionuclidi mediante condizionamento del rifiuto in matrice inerte (manufatti).
Classificazione dei rifiuti radioattivi.
I rifiuti radioattivi sono classificati in base alla loro attività e al loro tempo di dimezzamento. Allo
stato attuale non esiste una classificazione armonizzata a livello europeo. La IAEA classifica i
rifiuti radioattivi in:
• rifiuti a bassa attività (LLW, low level waste) il loro livello di radioattività è al di sopra dei limiti
che permetterebbero loro di essere smaltiti come rifiuti convenzionali;
• rifiuti ad attività intermedia (ILW, intermediate level waste) il loro livello di radioattività supera il
limite stabilito per le scorie di basso livello e richiedono la schermatura nelle manipolazioni o un
adeguato contenitore di stoccaggio. Per questi rifiuti non è necessario prendere in considerazione il
calore di decadimento nella progettazione delle strutture di contenimento e di smaltimento;
• rifiuti ad alta attività (HLW, high level waste) il loro elevato livello di radioattività richiede la
protezione del personale, la schermatura, la remotizzazione delle operazioni e la considerazione
degli effetti termici, dovuti all‟interazione delle radiazioni con la materia, nella progettazione delle
strutture di stoccaggio e di smaltimento. Rifiuti di questo tipo sono i prodotti derivanti dal
riprocessamento di combustibile nucleare irraggiato o gli stessi elementi di combustibile irraggiato.
In Italia, la classificazione dei rifiuti è contenuta nella Guida Tecnica n. 26 emanata
dall‟ENEADISP in seguito APAT (Agenzia Protezione dell‟Ambiente e per i servizi Tecnici) e ora
ISPRA. Secondo questo documento i rifiuti sono classificati in tre categorie, ciascuna delle quali
prevede una diversa modalità di gestione e di smaltimento:
1) Prima categoria: «vi appartengono i rifiuti radioattivi che richiedono tempi di decadimento
dell‟ordine di mesi, sino a un tempo massimo di alcuni anni»;
2) Seconda categoria: «vi appartengono i rifiuti che richiedono tempi di decadimento variabili
da qualche decina fino ad alcune centinaia di anni per raggiungere concentrazioni di
radioattività dell‟ordine di alcune centinaia di Bq/g». Sono previste due sottocategorie:
10
- «rifiuti solidi la cui attività è al di sotto dei limiti stabiliti che possono essere smaltiti
senza ulteriori trattamenti»;
- «rifiuti la cui attività è superiore ai limiti stabiliti e che devono essere condizionati al fine
di raggiungere determinati requisiti meccanici, chimici e fisici per essere smaltiti sulla
terraferma»;
3) Terza categoria: «vi appartengono tutti i rifiuti che non sono riconducibili alle due categorie
precedenti. In particolare i rifiuti radioattivi di detta categoria richiedono tempi di
decadimento dell‟ordine di migliaia di anni e oltre».
.
Categorie Caratteristiche
Confronto
con la GT26
Tipo di gestione
VLLW
Rifiuti che decadono in pochi
mesi (massimo alcuni anni) a
livelli inferiori ai limiti stabiliti
per il rilascio incondizionato
I
Stoccaggio temporaneo e smaltimento come rifiuti
convenzionali
LILW-SL
Rifiuti a bassa e media attività
con limitato contenuto di α
radionucli-di α emettitori
II
Condizionamento e smaltimento in un sito
ingegneristico in superficie
LILW-LL
Rifiuti a bassa e media attività
che eccedono il limite di 4000
Bq/g per α-emettitori
III
Condizionamento in matrice cementizia e smaltimento
in depositi di media profondità
(>100m)
HLW
Rifiuti che eccedono il limite di
4000 Bq/g per α-emittenti e
presentano una significativa
produzione di calore
(>100W/m3)
III
Condizionamento in matrice vetrosa e smaltimento in
formazione geologica profonda (100800m) dopo un
periodo di 3050 anni in adeguate strutture
ingegneristiche
Tabella 1 – Confronto tra le categorie della guida tecnica n.26 e della classificazione IAEA.
Gestione dei rifiuti radioattivi.
La gestione dei rifiuti radioattivi comprende tutte le attività amministrative e operative che
riguardano la manipolazione, la raccolta, il trattamento, il condizionamento, il trasporto, lo
stoccaggio e lo smaltimento definitivo dei rifiuti radioattivi stessi.
I principi fondamentali che sono alla base della gestione dei rifiuti radioattivi sono quelli individuati
dal d.lgs. n. 230/1995 e dal d.lgs. n. 241/2000; quindi, i rifiuti radioattivi:
- Devono essere gestiti in maniera tale da garantire un adeguato livello di protezione della
salute dell‟uomo e dell‟ambiente;
- Devono essere gestiti in maniera tale da tener conto dei possibili effetti sulla salute
dell‟uomo e sull‟ambiente al di fuori dei confini nazionali;
- Devono essere gestiti in maniera tale che i prevedibili impatti sulla salute delle future
generazioni non siano superiori ai livelli d‟impatto oggi ritenuti accettabili e che comunque
non impongano carichi indebiti alle future generazioni;
- Devono essere gestiti secondo un‟adeguata legislazione nazionale che includa una chiara
ripartizione delle responsabilità e che preveda un organismo regolatorio indipendente;
- La produzione dei rifiuti radioattivi deve essere limitata al minimo possibile tenendo in
debito conto l‟interdipendenza tra tutte le fasi della generazione e della gestione dei rifiuti;
- La sicurezza degli impianti e delle infrastrutture dove si effettua la gestione dei rifiuti
radioattivi deve essere assicurata durante tutto il loro periodo di vita previsto.
I rifiuti radioattivi, qualora rispettino le seguenti condizioni:
- Tempo di dimezzamento < 75 giorni;
- Concentrazione di radionuclidi ≤ 1 Bq/g;
possono essere smaltiti nell‟ambiente, conferiti a terzi e riciclati o riutilizzati, come rifiuti speciali.
È prevista, tuttavia, una valutazione dell‟esposizione e della dose efficace individuale e collettiva
prima dello smaltimento definitivo, nel rispetto dei seguenti criteri:
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- dose efficace individuale ≤ 10 μSv/anno;
- dose efficace collettiva ≤ 1 μSv x persona/anno.
È necessario mettere in evidenza che il limite relativo alla dose efficace individuale è più restrittivo
di quello assunto per la realizzazione e la gestione dei depositi definitivi a bassa e a media attività in
ambito internazionale.
Procedure tecniche per la gestione dei rifiuti radioattivi
Trattamento
In questa fase della gestione, utilizzando appropriati processi fisici e/o chimici, si perseguono i
seguenti obiettivi:
- la riduzione di volume;
- la predisposizione alla successiva fase di ”condizionamento”.
Condizionamento
Questa fase della gestione persegue l‟obiettivo di immobilizzare, all‟interno di un idoneo
contenitore, il rifiuto radioattivo inglobandolo in una matrice solida stabile, avente resistenza fisica,
chimica e meccanica tale da ottenere una forma finale idonea allo smaltimento definitivo.
Stoccaggio temporaneo
L‟obiettivo principale di questa fase gestionale è quello di conservare in sicurezza, per alcune
decine di anni, i rifiuti radioattivi condizionati in modo da permetterne il successivo smaltimento
definitivo.
Smaltimento definitivo
È l‟ultima fase della gestione dei rifiuti radioattivi e si prefigge di:
- Collocare in maniera definitiva, in apposita struttura, i rifiuti radioattivi condizionati con
l‟intenzione di non recuperarli;
- Proteggere l‟uomo e l‟ambiente fino a quando la radioattività residua, per effetto del
decadimento, non raggiunga valori paragonabili a quelli naturali;
- Non permettere che la dose annua alla popolazione superi una frazione del valore di dose
massima annua per le persone del pubblico così come definita dalla normativa vigente.
I rifiuti di seconda categoria, poiché necessitano di alcune centinaia di anni per raggiungere livelli
di radioattività paragonabili al fondo naturale, vengono smaltiti in depositi superficiali o a bassa
profondità. I rifiuti di terza categoria necessitano di centinaia di migliaia di anni per raggiungere
livelli di radioattività paragonabili al fondo naturale e, pertanto, vengono smaltiti in formazioni
geologiche a grande profondità.
Lo smaltimento dei rifiuti a bassa radioattività (o a vita breve)
Quando i rifiuti condizionati vengono depositati in un sistema di smaltimento definitivo, il loro
isolamento dalla biosfera deve essere assicurato per tutto il periodo in cui dura la loro pericolosità.
Questo isolamento viene realizzato tramite barriere di contenimento poste in serie, la cui funzione è
di impedire la diffusione degli isotopi radioattivi verso l‟esterno del deposito. Quindi, la sicurezza
del deposito, sia nel breve sia nel lungo periodo, si basa sull‟affidabilità di queste barriere, la cui
natura dipende dalla severità del contenimento richiesto e da quanto a lungo dovrà essere garantito.
Nel caso di rifiuti a bassa attività, che costituiscono circa il 95% dell‟intera produzione,
l‟isolamento deve essere garantito al massimo per qualche secolo (trecento anni è il tempo che
determina un abbattimento dei livelli di radiazione di circa mille volte dei radionuclidi a vita più
lunga come il
137
Cs o lo
90
Sr). Questo è un periodo di tempo durante il quale le barriere artificiali
(trincee, silos, tumuli) conservano la loro efficacia protezionistica. L‟efficienza delle barriere e
dell‟isolamento è continuamente controllata da sistemi e da reti di monitoraggio ambientali, estesi al
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deposito e alle aree circostanti, e attivi per tutto il periodo di controllo istituzionale, al termine del
quale il sito viene rilasciato senza restrizioni. Esistono casi in cui il sito ha caratteristiche tali da non
richiedere barriere artificiali di contenimento particolarmente severe, com‟è il caso dei siti desertici,
caratterizzati da una quasi completa assenza di precipitazioni e di falde significative. Centri di
deposito definitivo per rifiuti a bassa attività sono in funzione o in progetto in tutti i paesi che
detengono rifiuti radioattivi di questo tipo. La maggior parte dei depositi realizzati nel mondo sono
del tipo superficiale (near surface) caratterizzati da strutture d‟isolamento semplici. Depositi non
superficiali per rifiuti a bassa attività sono realizzati o previsti in cavità artificiali (depositi
scandinavi) o in miniere dismesse (soluzione proposta in Germania). In alcuni paesi sono presi in
considerazione depositi geologici anche per i rifiuti a bassa attività unitamente a quelli ad alta
attività.
Lo smaltimento dei rifiuti ad alta attività (o a vita lunga)
Per i rifiuti ad alta attività, che mantengono livelli elevati di radiazione incompatibili con l‟ambiente
per migliaia o decine di migliaia di anni, il loro isolamento si potrebbe realizzare condizionandoli
dapprima in matrici solide di grande durabilità, come quelle vetrose, e depositandoli
successivamente come manufatti in formazioni geologiche profonde (centinaia o migliaia di metri)
che assicurano l‟isolamento dei radionuclidi dalla biosfera per periodi dell‟ordine di milioni di anni.
Questi sono, per esempio, le formazioni saline e quelle argillose. I depositi in profondità sono
ancora nella fase di studio o di realizzazione pilota nei casi più avanzati. Laboratori sperimentali
sotterranei sono in costruzione o in esercizio in Francia, Germania, Svezia. Il primo deposito
commerciale potrebbe essere operativo in Europa, secondo le attuali previsioni, verso il 2030. In
USA, è in esercizio dal maggio 1999 il WIPP (Waste Isolation Pilot Plant), un impianto pilota per
lo smaltimento dei rifiuti a vita lunga plutoniferi prodotti nei centri del governo federale (i
cosiddetti defense wastes). Per accogliere i rifiuti nucleari di tipo industriale, è ormai in fase di
ultimazione in Nevada il deposito geologico profondo Yucca Mountain (anche se l‟amministrazione
Obama si è dichiarata nel 2009 scettica su tale opzione, e ha proposto di “tagliare” tutti i
finanziamenti). In attesa di disporre di un sito di smaltimento geologico, i rifiuti radioattivi a vita
lunga condizionati vengono conservati in sistemi impiantistici adatti allo stoccaggio per periodi
dell‟ordine di qualche decennio e oltre. È inevitabile che le recenti problematiche sollevate sullo
smaltimento geologico, tutte derivanti non da obiettive difficoltà tecniche ma da problemi di
consenso pubblico, sono destinate a rendere sempre più laboriosa e complessa la soluzione del
problema. Inoltre, deve essere segnalato che acquista sempre più credibilità, almeno a livello
scientifico e radio-protezionistico, il ricorso a un deposito geologico internazionale, destinato ad
accogliere i rifiuti a vita lunga di diversi paesi, se non di tutti, e localizzato in una delle aree più
remote del pianeta, quindi, in condizioni di massima sicurezza e di minimo impatto ambientale.
Come evidenziato da questa piccola panoramica sulla problematica del trattamento delle scorie
nucleari, la prima fase del ciclo di smaltimento dei rifiuti radioattivi consiste nella caratterizzazione
degli stessi mediante metodologie di spettrometria γ. La caratterizzazione consta in analisi
spettrometriche atte a valutare il tipo di radionuclidi presenti nell‟oggetto in esame e l‟attività locale
e globale dello stesso, in modo da classificarlo secondo le norme legislative vigenti e conferirlo alle
successive fasi di trattamento e smaltimento.
OBIETTIVI
La presente tesi si pone l‟obiettivo di effettuare la validazione di un codice di calcolo dedicato a un
sistema di spettrometria γ da laboratorio. Il codice in analisi è il LabSOCS
TM
della CANBERRA,
che risulta un‟evoluzione del codice ISOCS
TM
(per strumentazione portatile) della stessa azienda.
Entrambi i software si basano su Genie
TM
2000, un programma di acquisizione e analisi dello
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spettro. La convalida del codice è effettuata attraverso esperienze in laboratorio tramite un
rivelatore al germanio iperpuro e la modellizzazione, mediante il codice Monte Carlo MCNP5,
dell‟intera strumentazione e geometria di misura.
- Nella prima parte (Capitoli 1, 2, 3) si esporranno alcuni cenni sulla teoria della spettrometria
gamma, sui software di acquisizione e analisi degli spettri e modellizzazione delle geometrie
di misura, e infine sui metodi Monte Carlo e i codici applicativi degli stessi;
- Nella seconda parte (Capitoli 4, 5, 6) si presenteranno i risultati delle misure sperimentali,
della modellizzazione nel sistema di calibrazione LabSOCS e delle simulazioni nel codice
Monte Carlo MCNP5;
- Nella terza ed ultima parte (Capitolo 7) si effettueranno le analisi comparative e conclusive.
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CAPITOLO 1
LA SPETTROMETRIA γ
1.1 Interazione della radiazione elettromagnetica con la materia
L‟assorbimento della radiazione elettromagnetica (raggi X e γ), da parte della materia, differisce in
modo sostanziale da quello delle particelle cariche. Queste ultime dissipano la loro energia in modo
continuo in una sequenza di molti eventi che producono ionizzazione ed eccitazione e penetrano ad
una certa distanza, il range, nel mezzo assorbente. I fotoni, invece, sono assorbiti o diffusi in eventi
singoli; si definisce, pertanto, una probabilità d‟interazione puntuale, giungendo alla legge di
assorbimento:
Se un fascio monocromatico di energia E e intensità I
0
(E) incide su un dato mezzo di spessore x, la
sua intensità sarà attenuata secondo la formula appena scritta, dove µ(E) rappresenta il coefficiente
di attenuazione lineare totale relativo all‟energia E, cioè la probabilità, per unità di lunghezza, che la
radiazione interagisca con il materiale. Trattandosi di un modello probabilistico, è possibile definire
il cammino libero medio della radiazione nel mezzo (che prende anche il nome di lunghezza di
attenuazione ) nel seguente modo:
Tale grandezza rappresenta lo spessore di materiale necessario affinché l'intensità della radiazione
risulti ridotta a un fattore 1/e di quella incidente. Il coefficiente µ(E) è la somma dei coefficienti di
attenuazione lineare corrispondenti a ciascun tipo d‟interazione, effetto Compton, effetto
fotoelettrico e produzione di coppie elettrone-positrone.
Ognuna di queste quantità dipende dall‟energia della radiazione elettromagnetica e dalla natura del
materiale assorbente.
Come si può vedere dalla figura sottostante, l‟effetto fotoelettrico prevale a basse energie, il
Compton nella regione centrale (la cui larghezza diminuisce al crescere del numero atomico Z del
mezzo) e la creazione di coppie a energie più alte.
15
Figura 1.1 – Coefficienti di attenuazione lineare in funzione dell’energia.
Più frequentemente, al posto del coefficiente di attenuazione lineare, si introduce il cosiddetto
coefficiente di attenuazione di massa µ/ρ, esprimibile in cm
2
/g, dove ρ è la massa volumica del
mezzo. Tale grandezza è importante perché prescinde dalla massa volumica del materiale
attraversato; di conseguenza, gli spessori saranno espressi dalla grandezza ρx, in g/cm
2
. Indicando
con σ la sezione d‟urto totale per atomo pari alla somma delle sezioni d‟urto per atomo delle singole
interazioni, esiste una semplice relazione che la lega al coefficiente µ/ρ :
µ
Dove: N
A
è il numero di Avogadro e A il peso atomico del mezzo.
1.1.1 Effetto fotoelettrico
Nell‟effetto fotoelettrico, il fotone incidente viene assorbito da un atomo e, come conseguenza,
viene espulso un elettrone (fotoelettrone) da uno degli orbitali atomici. Indicando con E
L
l‟energia
di legame dell‟elettrone, con hν l‟energia del fotone incidente e trascurando l‟energia cinetica
acquistata dall‟atomo, l‟energia cinetica E
C
del fotoelettrone emesso è:
La sezione d‟urto dell‟effetto fotoelettrico ζ
F
può essere approssimata con la seguente formula:
16
ζ
Dove: K è un‟opportuna costante dimensionale.
La figura sottostante mostra l‟andamento di ζ
F
in funzione di hν.
Figura 1.2 – Sezione d’urto per effetto fotoelettrico.
La vacanza creatasi in uno degli orbitali atomici in seguito all‟emissione del fotoelettrone viene
occupato da uno degli elettroni più esterni e questo processo può essere accompagnato da
radiazione di fluorescenza o da emissione Auger: la differenza delle energie di legame dei due
orbitali si manifesta cioè sotto forma di un fotone caratteristico (emissione di fluorescenza), oppure
viene trasferita a un elettrone legato che acquista così l‟energia sufficiente per essere espulso dall‟
atomo (emissione Auger).
Con il nome di “Yield di fluorescenza” si indica il rapporto tra il numero di fotoni e il numero di
elettroni Auger emessi al variare di Z, che presenta il seguente andamento:
Figura 1.3 – Yield di flourescenza.
17
Dunque, all‟aumentare di Z è sempre più sfavorita l‟emissione Auger.
Riassumendo, lo stato finale di un‟emissione di fluorescenza è formato da un elettrone libero
(fotoelettrone) e da un fotone X caratteristico, mentre lo stato finale di un‟emissione Auger è
formato da due elettroni liberi. Più precisamente, il processo complessivo di riordinamento
dell‟atomo genera una cascata di emissioni di fluorescenza X ed elettroni Auger, di energia sempre
più piccola. Dalla teoria della struttura fine dei livelli atomici, è noto che le interazioni spin-orbita
separano i livelli energetici degli orbitali (non dell‟orbitale K). Le transizioni radiative permesse
sono determinate dalle seguenti regole di selezione: Δl=±1 e Δj=0,±1.
Considerando solamente le fotoemissioni prodotte nell‟orbitale K, le possibili transizioni radiative
possono essere rappresentate come in figura:
Figura 1.4 – Diagramma delle righe K di uno spettro a raggi X.
Lo spettro di emissione di raggi X risultante è uno spettro di righe; le linee relative alle transizioni
K-L
II
e K-L
III
vengono denominate rispettivamente righe Kα2 e Kα1, mentre quelle relative alle
transizioni K-M
II
e K-M
III
sono denominate righe Kβ2 e Kβ1. Il processo di emissione di raggi X,
relativi alle righe K, è un processo a soglia:
l‟energia del fotone gamma, infatti, deve essere maggiore dell‟energia di legame dell‟elettrone nell‟
orbitale K. In questo caso, il processo di assorbimento fotoelettrico può generare una lacuna nell‟
orbitale K dell‟atomo coinvolto.
Nella seguente tabella sono riportate le energie dei fotoni X caratteristici, relativi alle righe spettrali
Kα1, Kα2, Kβ1e Kβ2, e i valori dello Yield di fluorescenza dell‟orbitale K per alcuni elementi.
18
Figura 1.5 - Confronto per alcuni materiali.
Il fotone X di fluorescenza ha generalmente una lunghezza di attenuazione minore o uguale a un
millimetro e, nei casi d‟interazione fotoelettrica sulla superficie d‟incidenza, potrebbe emergere dal
rivelatore e quindi non essere rivelato. Comunque, nell‟ipotesi di un rivelatore con dimensioni
maggiori di qualche millimetro, il fotone X viene riassorbito, generalmente attraverso un processo
fotoelettrico. Se nessuna delle particelle secondarie emerge dal rivelatore, la somma delle energie
cinetiche degli elettroni secondari globalmente generati è pari all‟energia trasportata dal fotone
gamma primario. Se consideriamo un gran numero di fotoni gamma monoenergetici incidenti sul
rivelatore, la distribuzione teorica delle energie cinetiche degli elettroni secondari, originati da
eventi di assorbimento fotoelettrico, sarà una funzione delta centrata sul valore dell‟energia della
radiazione primaria, funzione che prende il nome di fotopicco. L‟assorbimento fotoelettrico
rappresenta quindi il processo d‟interazione ideale per la misura dell‟energia della radiazione
elettromagnetica incidente sul rivelatore.
1.1.2 Diffusione Compton
La diffusione Compton viene anche definita “diffusione incoerente”, riferendosi al fatto che il
fotone interagisce con il singolo elettrone del mezzo, considerato libero, e non con l‟intero atomo. Il
fotone, oltre ad essere deviato dalla sua direzione iniziale, cede parte della sua energia all‟elettrone,
detto elettrone Compton, che acquista pertanto un‟energia cinetica T pari alla differenza tra il fotone
incidente e quello diffuso.
Il seguente schema esemplifica il processo:
Figura 1.6 – Interazione Compton.
19
L‟energia del fotone uscente, E' può essere ricavata dalla conservazione dell‟energia e della
quantità di moto, ottenendo la seguente espressione in funzione dell‟energia iniziale E e dell‟angolo
di diffusione rispetto alla direzione d‟incidenza:
Dove m
0
c
2
indica l‟energia a riposo dell‟elettrone.
Il fotone diffuso può non essere riassorbito nel mezzo e, in tal caso, solo l‟elettrone Compton
contribuisce alla cessione energetica.
L‟energia cinetica dell‟elettrone Compton, nell‟ipotesi in cui l‟elettrone del mezzo sia libero, si può
calcolare semplicemente come la differenza tra le energie del fotone gamma incidente e del fotone
diffuso, cioè:
Dalla formula appare evidente che la distribuzione energetica di un elettrone Compton va da zero,
per ϴ=0, fino ad un valore massimo ( bordo Compton ), per ϴ=π (backscattering), pari a:
La distribuzione delle energie cinetiche degli elettroni Compton ha un andamento tipico come
schematizzato nella figura seguente, dove la differenza tra l‟energia dei fotoni incidenti E e la
massima energia cinetica degli elettroni E
emax
(cioè la massima energia che gli elettroni possono
rilasciare in un rivelatore) è pari a:
Tale grandezza rappresenta ovviamente anche la minima energia di un fotone diffuso per effetto
Compton. Se l‟energia del fotone incidente è tale che l‟elettrone bersaglio non possa considerarsi
libero, è necessario tener conto della sua energia di legame. In queste condizioni, lo spettro
energetico degli elettroni presenta un “arrotondamento” in corrispondenza di ϴ=π.
Per basse energie del fotone incidente, si può notare che E'=E per qualunque angolo di diffusione
(sperimentalmente si osserva tale condizione per energie minori di circa 10
-2
MeV). L‟elettrone,
quindi, riceve una frazione trascurabile di energia nell‟interazione.
Il modello teorico della diffusione Compton è stato sviluppato da Klein e Nishina nell‟ipotesi
d‟interazione tra un fotone incidente e un elettrone libero e inizialmente a riposo. La sezione d‟urto
differenziale per unità di angolo solido e per elettrone, al variare dell‟angolo del fotone uscente può
essere scritta nella forma seguente:
20
Integrando tale relazione è possibile determinare la sezione d‟urto totale di Klein-Nishina
nell‟interazione contro un singolo elettrone (ζe), il cui andamento è di seguito riportato :
Figura 1.7 – Sezione d’urto Compton per elettrone.
Dal momento che il modello di K-N riguarda l‟interazione di un fotone con un singolo elettrone, è
ovvio che ζe non dipende dal numero atomico Z del mezzo attraversato. La sezione d‟urto Compton
relativa ad un atomo è quindi data da:
1.1.3 Produzione di coppie e
+
- e
-
.
Se il fotone incidente ha un‟energia hν superiore a 1,02 MeV, la produzione di coppie diventa un
processo possibile dal punto di vista energetico. Il processo avviene quando un fotone interagisce
con un campo elettrico presente nel mezzo, che è prevalentemente quello generato dal nucleo, ma
anche quello elettronico. Nell‟interazione il fotone si materializza in una coppia elettrone-positrone;
la presenza del nucleo (o dell‟elettrone) garantisce la conservazione della quantità di moto nel
processo. L‟equazione di conservazione dell‟energia, poiché è trascurabile l‟energia cinetica ceduta
al nucleo, è semplicemente:
dove T
-
e T
+
sono le energie cinetiche rispettivamente dell‟elettrone e del positrone.
Tali energie cinetiche non sono in generale uguali, ma possiamo calcolarne il valor medio, dato da:
L‟andamento della sezione d‟urto totale ζ CC fino a energie dell‟ordine della decina di MeV è del tipo
e il suo andamento è riportato in seguito:
21
Figura 1.8 – Sezione d’urto della produzione di coppie
Il positrone è una particella carica che, dopo aver ridotto la propria energia mediante processi di
ionizzazione, annichila con un elettrone; come conseguenza dell‟annichilazione, vengono emessi
due fotoni da 0,511 MeV ciascuno in verso opposto.
1.2 Spettrometria gamma.
Come visto in precedenza, i tre processi fondamentali mediante i quali avviene il rilascio di energia
di un fotone nella materia, ad esempio un rivelatore, sono l‟effetto fotoelettrico, la diffusione
Compton e la creazione di coppie. Ciascuno di tali fenomeni è dominante per un certo intervallo di
energie del fotone incidente, e i rispettivi coefficienti d‟interazione dipendono, oltre che
dall‟energia, anche dal tipo di materiale attraversato.
L‟energia rilasciata dal fotone nel mezzo viene ceduta sotto forma di energia cinetica agli elettroni
secondari e/o trasportata da fotoni di fluorescenza, di diffusione, di annichilazione, i quali possono a
loro volta interagire con la materia generando degli elettroni secondari. In seguito, tali elettroni
trasferiscono la loro energia cinetica al materiale, provocando la ionizzazione o l‟eccitazione di
atomi e molecole. È importante che un rivelatore di radiazione gamma sia un buon assorbitore per i
fotoni, cioè che questi ultimi abbiano un‟alta probabilità di rilasciare la loro energia all‟interno del
materiale attraversato; inoltre è necessario che il dispositivo sia in grado di rivelare i prodotti finali
dell‟interazione, come ad esempio i fotoni di scintillazione nei cristalli o le coppie elettrone-lacune
nei semiconduttori. Bisogna sottolineare che gli elettroni secondari, originati dai processi
d‟interazione dei fotoni, cedono la loro energia cinetica nel rivelatore, mentre è evidente che i fotoni
originati da processi di diffusione Compton e da processi di annichilazione potrebbero non essere
rivelati, in quanto sfuggono dal rivelatore se le sue dimensioni sono piccole.
Per spettro energetico della radiazione rivelata si intende la distribuzione differenziale delle energie
rilasciate da ogni fotone gamma e l‟analisi di tali spettri costituisce il nucleo centrale per la
caratterizzazione di un componente o rifiuto radioattivo. Lo spettro energetico risultante
dall‟interazione di una radiazione elettromagnetica con la materia deve necessariamente essere
esaminato in relazione alle dimensioni del rivelatore.
La risposta di un rivelatore di raggi dipende in modo sensibile dalle sue dimensioni.
1.2.1 Rivelatore di piccole dimensioni.
Se le dimensioni lineari del rivelatore sono molto più piccole del cammino libero medio, nel mezzo
assorbitore, dei fotoni secondari generati in processi di diffusione Compton e di annichilazione, si
22
parla di “rivelatore di piccole dimensioni”. La cessione di energia nel rivelatore avviene secondo i
processi schematizzati in seguito:
Figura 1.9 – Schema dei processi di interazione in un “rivelatore di piccole dimensioni”.
Supponiamo di avere a che fare con una radiazione monoenergetica. Se l‟energia dei fotoni
incidenti è minore di 1.02 MeV, gli unici processi energeticamente possibili sono la diffusione
Compton e l‟effetto fotoelettrico. Lo schema seguente illustra la risposta del rivelatore in tali
condizioni.
Figura 1.10 – Risposta di un “rivelatore di piccole dimensioni”.
Lo spettro continuo che si osserva nella zona di bassa energia rappresenta la distribuzione
energetica degli elettroni Compton, mentre il picco a energie più alte rappresenta gli eventi di
assorbimento fotoelettrico (fotopicco). Per capire meglio la forma di tale spettro, consideriamo che
nell‟approssimazione di rivelatore piccolo praticamente tutti i fotoni diffusi attraverso il processo
Compton escono dal rivelatore senza interagire e, pertanto, il rapporto tra le aree sottese dalle due
curve si può considerare uguale al rapporto tra i rispettivi coefficienti di attenuazione. Se l‟energia
dei fotoni incidenti E
γ
è superiore a 1.02 MeV, anche il processo di creazione di coppie risulta
energeticamente possibile.
Nella figura seguente è possibile osservare di conseguenza un ulteriore picco energetico, detto picco
di doppia fuga, relativo alle energie cinetiche delle coppie elettrone-positrone, e centrato perciò sul