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CAPITOLO 1
INTRODUZIONE
1. PRESENTAZIONE DELLA RICERCA
Uno dei metodi per stabilire la validità di una ricerca qualitativa è la “Self-reflexivity”
(Dallos & Vetere, 2005, p. 208) che potremmo intendere come riflessività critica verso
il proprio vissuto e le proprie operazioni soggettive di ricercatore. Per questo vorrei
presentare questa ricerca partendo dal punto di vista dal quale ho progettato ed
eseguito questa ricerca. Questo permetterà di coglierne in partenza alcune potenzialità
e alcuni limiti.
Di cosa si tratta? L’oggetto che ho scelto è l’esperienza di intenso cambiamento che sta
avvenendo in Diocesi di Milano a proposito di una riorganizzazione della struttura delle
parrocchie dal modello tradizionale ad uno nuovo denominato “Comunità pastorali”.
Perché mi interessa? Perché giungo alla laurea in Psicologia clinica a cinquant’anni,
dopo venticinque di ministero come sacerdote nella Chiesa cattolica presso la Diocesi
di Milano, e perché desidero portare entro il mio vissuto istituzionale qualche spunto
e intuizione che provenga dalla psicologia e in particolare della psicologia clinica delle
organizzazioni. Il cambiamento in atto, che prevede profonde trasformazioni dei ruoli
per noi preti al servizio delle parrocchie, sta avendo un impatto importante sulla nostra
identità, sulle relazioni tra confratelli, coi laici collaboratori e i semplici fedeli delle
nostre comunità. Tale cambiamento interno alla Chiesa ha un legame sistemico con i
profondi cambiamenti sociali e culturali entro i quali la vita della Chiesa si svolge.
Sapranno questi cambiamenti portare nuova linfa ed energia alla istituzione di cui
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faccio parte come la nostra leadership auspica? Si arriverà al risultato di realizzare con
più efficacia il nostro “compito primario”, cioè la missione di annunciare il Vangelo
dell’Amore di Dio in Gesù Cristo per gli uomini di oggi? Questo processo di innovazione
risponde ai valori costitutivi della nostra istituzione e li coniuga in modo rinnovato con
lo spirito e le esigenze del nostro tempo oppure rischia di essere solo una
ristrutturazione di facciata? Si vedono alcuni primi risultati promettenti o sta
producendo perlopiù caos ed incertezza? Quali suggerimenti si potrebbero dare alle
varie componenti della istituzione per limitare gli errori e favorire un apprendimento
della innovazione creativa?
Sono le domande che via via sono sorte e mi hanno accompagnato nello svolgimento
di questa ricerca dalla posizione affascinante ma anche scomoda dell’osservatore
partecipante. Se infatti ho condiviso perlopiù gioie e preoccupazioni dei miei “colleghi”
ho anche “goduto” della condizione privilegiata di chi ha avuto tempo e modo di
studiare, leggere, frequentare l’ambiente universitario. Stare insomma su un “meta
livello” che può avere una duplice valenza: punto privilegiato di osservazione in vista di
una diagnosi e di una azione efficace sul sistema ma anche tentazione di stare “fuori
dalla mischia” dei problemi quotidiani. Conscio di questa ambivalenza delle situazioni e
del cuore umano, il mio compreso, ho accettato la sfida di fare ricerca nel mio
ambiente vitale. Memore del detto attribuito a Gregory Bateson, ‘Non si può
comprendere un sistema senza esserne parte’, ho osato sperimentare con questa
ricerca quanto appreso nel curricolo formativo affinché il sapere divenga saper fare,
per rendere questa parte di mondo un poco migliore.
2. OBIETTIVI E DOMANDA INIZIALE.
La domanda che sta all’inizio di questa ricerca nacque dalla constatazione della
coesistenza di tante speranze e di tanti ostacoli che si ergono nel processo di
innovazione in atto, tanto che lo stato di incertezza pervasiva da cui è segnato il clima
dell’istituzione richiede di essere elaborato e affrontato. Il mutare di abitudini,
dovendo i preti occuparsi anche di altri fedeli oltre a quelli della propria parrocchia,
l’aumento del tempo passato in riunioni di dubbia efficacia organizzativa, l’incertezza
invasiva sugli scopi e il modo di attuazione dei cambiamenti, il vedere colleghi che
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perdevano coraggio o chiedevano un cambio sentendosi posti in condizioni di vita per
loro non accettabili, il sentire lo sgomento della gente di fronte a cambi di persone e
trasformazioni di attività... tutto questo ha fatto sorgere in me non solo
preoccupazione e ansia ma anche curiosità di poter ragionare sul cambiamento per
scorgere vie di intervento in ordine a promuovere una innovazione possibile e
coerente con la identità della nostra istituzione. La forma che prese inizialmente
questa domanda era: quali sono i fattori che permettono il cambiamento e quali lo
inibiscono? Quali vincoli e quali possibilità emergono? Presto a tale domanda ne
seguirono altre: cosa significa operare un buon cambiamento nella Chiesa? In che
misura questa riforma la rende più autentica e fedele ai suoi ideali? I cambiamenti
prospettati e richiesti sono attuabili praticamente? Il modo con cui sono stati avviati è
in sintonia con le finalità e i valori proclamati? Nel trattare della innovazione nella
Chiesa non si po’ dimenticare la dimensione del significato, o dei valori, che in essa si
cela e da cui essa ha origine. C’è una dimensione teologica che dice il senso del
cambiamento e ne permette di valutare la opportunità in relazione alla identità della
Chiesa e alla auto comprensione che in essa si manifesta. Pur tenendo conto di questa
ineludibile fonte di significato, in questa ricerca ci limitiamo alla analisi dei processi
psicologici sociali e istituzionali, intrecciati con le dinamiche individuali, implicati in
questo cambiamento. Gli obiettivi che abbiamo pensato di raggiungere saranno
quindi: 1) ottenere una migliore comprensione del cambiamento in atto e dei processi
da esso innescati; 2) raggiungere dei criteri per valutare la prassi attuale e 3) fornire
suggerimenti all’organizzazione nelle sue diverse articolazioni per perseguire il
cambiamento effettivamente possibile ed efficace.
3. QUADRO CONCETTUALE DI RIFERIMENTO
Realizzare una ricerca nel campo della psicologia clinica delle organizzazioni su questo
specifico campione della Chiesa cattolica che è la diocesi di Milano e il decanato di
Seregno comporta l’enunciare alcune teorie di riferimento, collegate con la natura
della istituzione in oggetto e ai processi in atto, alla luce delle quali i dati verranno
raccolti, elaborati e discussi.
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Il metodo di questa ricerca è stato influenzato dal riferimento ai concetti e ai metodi
proposti da Kurt Lewin. Essendo il ricercatore dentro il sistema e volendo operare per
favorire la sua evoluzione, la concezione lewiniana della RICERCA AZIONE, che prevede
l’immersione nel CAMPO che è l’oggetto di studio per comprenderlo e interagire in
funzione di una sua trasformazione, è subito sembrata una prospettiva promettente.
Scrive Lewin: “Per stabilire l’intensità delle forze che si oppongono ai mutamenti [...], è
necessario, in ultima analisi, compiere degli sforzi effettivi per mutare [...], ovvero lo si
può fare solo attraverso un approccio sperimentale” (Lewin, 2005, p. 86)
1
. Avendo la
leadership della istituzione avviato una fase di mutamento, questa è da considerarsi
una situazione favorevole per scorgere le forze che ad esso si oppongono come anche
le risorse che possono favorirlo.
Più profondamente questo approccio si fonda su una concezione epistemologica
caratterizzata dalla svolta che ha riportato il soggetto entro il campo di osservazione
della scienza, tipica della filosofia contemporanea della scienza. In particolare
l’epistemologia e le scienze della evoluzione e del cambiamento hanno specificato i
concetti di “vincolo e possibilità” (Ceruti, 2009) quali riformulazione dei classici
concetti di leggi di natura (o sociali) e di caso. La crescita e lo sviluppo di organismi
viventi e di organizzazioni sociali possono essere letti alla luce dei vincoli strutturali e
contestuali con cui si deve fare conto e con le possibilità che le contingenze storiche
2
e
la libera azione dei soggetti pone in atto. L’autore di riferimento sarà in questo senso
Mauro Ceruti il quale, entro l’approccio della complessità, precisa e rilancia il senso di
questo binomio concettuale.
Il Cambiamento di una struttura organizzativa implica trasformazioni dei ruoli dei
membri della organizzazione, come delle relazioni tra essi e delle abitudini consolidate.
1
Il testo originale è del 1943.
2
Una interessantissima applicazione di questa impostazione epistemologica alla biologia evoluzionista è
offerta da Telmo Pievani nel suo ultimo e affascinante libro (Pievani, 2011)in cui propone anche una
critica della relazione tra fede e scienza, tema che è certamente affine all’oggetto di questa ricerca.
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Tale cambiamento può essere letto alla luce della PROSPETTIVA SISTEMICA (Watzlawick,
Weakland, & Fisch, 1974) che ne definisce la natura e fornisce elementi per valutare
l’efficacia dei processi posti in atto per realizzarlo. Il pensiero sistemico ci fornisce un
modello per classificare se il cambiamento in atto sia di primo ordine, che cioè implica
un cambiamento nel sistema (più di prima), che però rimane immutato, oppure se sia
da inquadrare in un cambiamento di secondo ordine, cioè un cambiamento che implica
un cambiamento del sistema stesso (1974, p. 27). Le indicazioni dell’approccio
sistemico offrono ulteriori criteri per valutare il perché di un fallimento del
cambiamento tentato. Ad esempio la “sindrome da utopia”, secondo gli autori, porta a
tentare un cambiamento mediante modalità che invece lo perpetuano o addirittura
peggiorano le condizioni di partenza (1974, p. 61-73). Tale approccio fornisce anche
interessanti spunti per favorire un cambiamento di secondo ordine suggerendo di
apprendere e applicare la “sottile arte della ristrutturazione” (1974, p. 101-117). Ne
terremo conto al momento di discutere i dati raccolti e proporre prospettive per una
evoluzione realistica della istituzione.
Il punto di vista psicodinamico sulle organizzazioni è rappresentato dagli autori riunitisi
intorno alla Tavistock Clinic di Londra, in Particolare Wilfred Bion, Elliot Jaques e Larry
Hirschhorn e dalla rielaborazione di questo filone di pensiero e ricerca offerta da G. P.
Quaglino (2004) e U. Morelli (2009) (2010). Tale ottica di pensiero ci fornirà i concetti
di “compito primario”, di “ansietà”, di “meccanismi di difesa”, di “rischio primario” e di
“disturbo organizzativo” per leggere i fenomeni organizzativi. In questa tradizione di
pensiero l’organizzazione è pensata come una istituzione che, tra le altre funzioni,
intende difendere gli uomini dall’ansia ma che in qualche modo rischia di diventare
produttrice di ansia fallendo nel suo scopo e suscitando reazioni contrarie. Di qui l’idea
del disturbo organizzativo che richiede una azione di umanizzazione del fenomeno
organizzativo che consiste nello smascherare e abbassare le difese assumendo il rischio
di impegnarsi nel compito primario, di contenere le proiezioni, di bonificare la
relazione tra leader e follower e di accedere ad un processo continuo di revisione del
compito primario stesso.
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La natura della organizzazione oggetto di studio deve essere ben considerata nella sua
specificità. Studiare una porzione della Chiesa cattolica richiede di coglierne la
specificità rispetto ad altre organizzazioni produttive, commerciali, aggregative o
politiche. La nostra è una organizzazione “vocazionale” (Rulla L. M., 1971/1989, p. 153-
157), che si definisce cioè in base alla accettazione dei membri di principi e valori
precedenti il loro accordo e che ne normano la vita interna e lo sviluppo. Il suo
mutamento non riguarda i valori fondamentali che la costituiscono ma il perenne
movimento per adeguarsi a tali valori e poterli realizzare nella storia. Per tenere conto
di questa specificità faremo riferimento alla teoria della “ANTROPOLOGIA DELLA VOCAZIONE
CRISTIANA” elaborata da P. Luigi Rulla S.J. e collaboratori, con particolare riferimento agli
aspetti psicosociali della sua formulazione in cui si evidenziano le istanze odierne della
leadership nella loro interazione con le dinamiche intrapsichiche dei soggetti in
vocazione (Rulla, 1971/1989; Rulla, 1985; Rulla, Imoda, & Ridick, 1986).
4. DALLE PARROCCHIE ALLE COMUNITA’ PASTORALI: CONTESTO E
SVILUPPI DELLA RIFORMA
La Riforma delle comunità pastorali in diocesi di Milano.
Nella Primavera del 2006 il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo della Diocesi di
Milano, lanciava una riforma della organizzazione territoriale della Chiesa cattolica di
Milano basata sulla istituzione di una nuova struttura denominata “COMUNITA’
PASTORALE” (Arcidiocesi di Milano, 2009, p. 43-65). Già a metà degli anni ’90 con il
XLVII Sinodo diocesano si era posto il problema di far fronte al calo dei sacerdoti e
all’innalzamento della loro età media costruendo una nuova modalità di collaborazione
tra le parrocchie denominata Unità di Pastorale giovanile, laddove mancava il prete
per i giovani, e Unità pastorale, laddove mancava anche un parroco per ciascuna di
esse, cosa che accadeva specialmente per le più piccole parrocchie del forese
(Arcidiocesi di Milano, 2009, p. 13).
La secolare suddivisione territoriale della Chiesa cattolica in parrocchie (Can. 515)
(CDC, 1983), riconosciute giuridicamente e affidate alla cura pastorale di un sacerdote,
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il parroco, ed eventualmente di altri presbiteri collaboratori, i vicari parrocchiali, veniva
così ad essere modificata in modo piuttosto radicale suscitando insieme perplessità e
speranze.
Il Cardinale per lanciare e motivare il cambiamento si è rifatto al binomio COMUNIONE
e MISSIONE. “Ogni tempo (...) e ogni epoca storica ha, per la Chiesa un unico
significato, e questo fin dalla fondazione: è il tempo della Missione” (Tettamanzi,
Omelia per la Messa crismale del 13 aprile 2006, 2009, p. 44). Al tema della Missione
egli aveva già dedicato i primi tre anni del suo ministero a Milano (Tettamanzi, 2003).
La comunione è “il principio e la forza della Missione” (Tettamanzi, 2009, p. 58). La
Missione, come compito di annuncio della Buona Notizia del Vangelo di Gesù Cristo al
mondo di oggi, e la Comunione, come dinamica relazionale complessa che scaturisce
intorno a questo annuncio e alla sua accoglienza e lo mostra come credibile, sono le
due realtà fondative della Chiesa stessa. La riforma dovrebbe servire a realizzare oggi
meglio e in modo più efficace tale compito che costituisce l’identità della Chiesa.
L’omelia venne accompagnata da un documento redatto dal Consiglio Episcopale della
Diocesi in cui si dettano le linee guida iniziali di tale operazione (Consiglio Episcopale di
Milano, 2009).
La Riforma consiste nell’avviare un processo che porterà a raggruppare le oltre 1.100
parrocchie della diocesi aggregandole in cosiddette “comunità pastorali” affidate alla
cura di un gruppo di preti e anche diaconi, religiose, laici e laiche impegnati a tempo
pieno, come i direttori laici di oratorio, che condividano in toto la corresponsabilità per
la vita della comunità. Tale gruppo, denominato “direttivo”, sarebbe guidato da un
responsabile, un prete, che rimarrebbe il solo a portare il titolo di parroco di ciascuna
delle parrocchie, mentre gli altri presbiteri assumono il titolo di vicari parrocchiali della
comunità pastorale.
Nel Direttivo “deve esistere la più ampia condivisione dell’attività e delle scelte
pastorali elaborate con il coinvolgimento degli organismi di corresponsabilità ecclesiale
unitari (Consiglio pastorale e Consiglio per gli affari economici della comunità
pastorale)” (Consiglio Episcopale di Milano, 2009, p. 73).
Il Cardinale e i suoi collaboratori sono ben consapevoli che tale riforma non è solo una
risposta creativa alla sfide della evangelizzazione ma è anche il tentativo di far fronte
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alla note difficoltà che investono oggi l’azione pastorale (2009, p. 67). Nella società si
evidenziano una crescente scristianizzazione, la interruzione della trasmissione della
fede tra le generazioni, la complessificazione del tessuto sociale anche a causa della
immigrazione, e l’affermarsi di un individualismo diffuso. All’interno della Chiesa si
registra il calo del numero dei sacerdoti e dei consacrati e la difficoltà a far fronte alle
ancora alte richieste di servizi pastorali con un numero ridotto di operatori. Il clero va
inoltre incontro a problemi di invecchiamento, solitudine e eccessivi carichi di impegni
pastorali. Più specificamente nella prima parte del testo citato, che raccoglie i
documenti ufficiali sull’avvio della riforma, si riconosce esplicitamente che è la carenza
di sacerdoti che ha messo in luce la insostenibilità del sistema di cura pastorale vigente
fino ad oggi (Arcidiocesi di Milano, 2009, p. 12).
L’attuazione di tale riforma (Arcidiocesi di Milano, 2010) è partita lentamente nei primi
due anni dalla sua enunciazione, anche a causa di un naturale processo di precisazione
e organizzazione dei passi da compiere e poi ha assunto un ritmo di diffusione più
rapido ma solo in alcune zone pastorali, tra cui spicca quella di Monza.
Tabella 1. Comunità pastorali sorte in Diocesi nei primi anni della Riforma e numero di parrocchie,
sacerdoti e abitanti coinvolti . Fonte: Curia Arcivescovile.
Anno N° Comunità
pastorali
N° Sacerdoti
coinvolti
N° Parrocchie
coinvolte
N° Abitanti
2006 19 80 66 227.786
2007 20 71 66 226.662
2008 22 88 73 279.631
2009 27 117 88 470.035
2010 28 113 96 435.606
20113 5 20 21 75.701
totale 121 489 410 1.715.421
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Questi dati, forniti direttamente dall’Ufficio di Cancelleria della Curia Arcivescovile di Milano, sono
aggiornati al 31 luglio 2011.
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Artefice di tale accelerazione nella zona di Monza sembra essere il nuovo Vicario
Episcopale Mons. Armando Cattaneo che ne persegue con determinazione la
attuazione (Cattaneo, "Ama la parrocchia altrui come la tua". Le nuove comunità
pastorali., 2008).
La Diocesi si costituisce di una organizzazione territoriale che prevede sette zone
pastorali, ciascuna guidata da un Vicario Episcopale di Zona, le quali sono
ulteriormente divise in 73 “decanati”, gruppi di parrocchie radunati intorno a cittadine
rilevanti o ad aree omogenee della città.
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Figura 1. La Diocesi di Milano e la sua struttura a sette zone pastorali.
Figura 2. La zona pastorale V di Monza, e i suoi otto decanati.
13
La zona pastorale V di Monza è suddivisa in otto decanati tra cui quello di Seregno.
Attualmente i dati aggiornati rivelano che la zona di Monza si presenta come quella più
avanzata nel processo di costituzione e avvio delle comunità pastorali in diocesi. In
particolare il decanato di Seregno, oggetto della presente ricerca, è andato incontro ad
un veloce processo di attuazione della Riforma
4
che lo ha portato, dal 1°settembre
2009 a divenire il primo decanato interamente costituito da parrocchie unite in
Comunità Pastorali, primato che ha mantenuto fino al 1° ottobre ’10, quando anche il
decanato di Desio ha completato il passaggio alle comunità pastorali.
Tabella 2. Fonte: Curia Arcivescovile aggiornati al 31-07-2011
Diocesi Zona
1
Zona
2
Zona
3
Zona
4
Zona
5
Zona
6
Zona
7
PARROCCHIE TOTALI 1.107 170 235 181 160 154 141 66
COM. PASTORALI (C.P.) 121 6 29 23 16 33 7 7
% di c. p. per ogni zona sul
totale delle c.p.
5
100% 5 24 19 13 27 6 6
L’attuazione di tale riforma ha comportato (1) la identificazione delle parrocchie da
unire in comunità, (2) le dimissioni dei parroci delle singole parrocchie interessate e (3)
la nomina di un nuovo responsabile parroco di comunità pastorale (a volte un nuovo
sacerdote, come in Giussano, altre volte uno già presente sul territorio, come nel
centro di Seregno). Inoltre si sono verificati parecchi spostamenti di vicari parrocchiali
e l’indicazione o nomina di alcune figure di religiose e laici come membri dei direttivi
delle comunità pastorali.
Gli organismi rappresentativi delle comunità parrocchiali, i consigli pastorali (CPP) e
degli affari economici, saranno sostituiti da un nuovo consiglio pastorale unitario (CPU)
di comunità e da un consiglio degli affari economici unitario (CAE), il primo dei quali
sarà formalmente eletto dai fedeli nell’ottobre del 2011. Nel frattempo i consigli dei
due livelli, parrocchiale e di comunità pastorale, continuano a lavorare, seppure a
ritmo ridotto e non senza difficoltà nell’articolare le competenze e trovare procedure
efficienti.
4
Vedi la Appendice-1.
5
Sarebbe stato utile avere anche il dato della percentuale delle parrocchie coinvolte per ogni zona nelle
comunità pastorali, dato che evidenzierebbe meglio la situazione singolare della zona pastorale V, ma
non è stato possibile averlo. Ma già qui si vede che ben il 27% delle comunità pastorali esistenti sono
nella zona di Monza.
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Prima di procedere alla presentazione del campione oggetto di studio nel prossimo
paragrafo presentiamo una contestualizzazione della riforma milanese in riferimento
alle possibilità offerte nella chiesa cattolica dal Codice di Diritto canonico, alle scelte
effettivamente in atto nel contesto italiano e con uno sguardo al più vasto mondo
occidentale.
La parrocchia e i cambiamenti nella sua organizzazione alla luce del Codice di
Diritto canonico.
Nella Chiesa cattolica la parrocchia è una istituzione storica e consolidata attraverso la
quale la Chiesa si è radicata nel territorio permettendo la pratica della fede e
sostenendo la identità religiosa dei suoi membri. La forma tradizionale che prevede un
presbitero parroco come guida e responsabile delegato dal Vescovo e riconosciuto
dalla autorità civile. Le trasformazioni sociali in atto, e in particolare la carenza del
clero e la persistente domanda di servizi e attività religiose, rendono difficile in vari
contesti del mondo occidentale continuare ad offrire capillarmente questa struttura
della Chiesa. Il Codice di Diritto canonico, fonte normativa che disciplina la vita e
l’organizzazione della Chiesa latina, prevedendo questa difficoltà, indica tre possibili
soluzioni alternative. Al canone 517 § 1 si parla della possibilità che un gruppo di preti
prenda in cura una o più parrocchie “in solido”. Tutti sono parroci di tutte le parrocchie
contemporaneamente e sono coordinati da uno di loro che assume il ruolo di
moderatore e di responsabile di fronte al Vescovo. Una seconda possibilità, stabilita al
can. 517 § 2 prevede la possibilità che la parrocchia venga affidata ad un diacono o
altra persona o gruppo di persone non presbiteri. In questo caso il Vescovo deve
nominare un sacerdote che mantenendo i poteri di parroco sia il moderatore della cura
pastorale. Infine nel can. 526 è prevista la possibilità che un sacerdote riceva in cura
pastorale, in caso di scarsità del clero, più parrocchie.
Ulteriori modalità di far fronte alla crisi del modello tradizionale di cura pastorale sono
quelle di sopprimere le parrocchie più piccole e accorparle in macro-parrocchie di più
vaste dimensioni oppure mantenere la identità giuridica della parrocchia ma fornire
una cura pastorale condivisa con altre. In questa ultima area si colloca la scelta della
Chiesa milanese di costituire le comunità pastorali.
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Le trasformazioni strutturali della parrocchia nel contesto occidentale: una
ricerca americana.
La letteratura scientifica di taglio sociologico e psicologico su queste trasformazioni è
quasi inesistente. Dal punto di vista sociologico pastorale vi è una ricerca americana
pubblicata nel 2004 su dati raccolti tra il 2000 e il 2002 in tutto il territorio degli Stati
Uniti d’America (Zech & Gautier, 2004). I ricercatori si domandano se si possa fare un
confronto tra le parrocchie che negli ultimi anni sono passate dal modello tradizionale
di cura pastorale ai tre modelli previsti dal codice e se si possano rilevare differenze
nella valutazione dell’efficacia della cura pastorale operata in essi.
I ricercatori hanno costruito un modello statistico in cui la variabile dipendente sono i
cambiamenti avvenuti nella frequenza alla Messa domenicale
6
, e le variabili
indipendenti sono i cambiamenti nella struttura parrocchiale secondo le tre possibilità
previste dal Codice, e una serie di variabili di controllo che si ipotizzava avessero
influenzato la scelta di cambiare la struttura della leadership delle parrocchie. Tali
variabili sono: la dimensione della parrocchia, il rapporto tra battezzati e funerali, la
composizione etnica delle comunità
7
, il reddito medio della popolazione locale, e
ulteriori variabili che tenevano conto delle trasformazioni locali nelle diocesi.
L’elaborazione statistica dei dati basata su una regressione multipla mostra che
nessuna delle variabili di controllo ha un serio impatto sulla variazione della frequenza
alla Messa tra le parrocchie che hanno subito la ristrutturazione della cura pastorale e
quelle ancora basate sul modello tradizionale. Mentre tra le parrocchie che hanno
subito la ristrutturazione pastorale è possibile rilevare un diverso impatto dei tre
modelli di ristrutturazione sulla frequenza alla Messa. Le parrocchie guidate dai parroci
“in solido” subiscono un significativo aumento delle presenze alla Messa domenicale,
esattamente la crescita della frequenza alla Messa è del 18% maggiore che nelle altre
parrocchie.
6
Negli USA vi è la tradizione di rilevare la presenza al culto in una domenica specifica di ottobre e
trasmettere i dati ad un centro di raccolta nazionale a cui i ricercatori hanno attinto.
7
E’ prassi comune in questo contesto che i fedeli si registrino presso la parrocchia di appartenenza, una
prassi attinta dalle chiese protestanti e integrata da tempo nella Chiesa cattolica.
16
Il modello presentato ha dei limiti che i ricercatori riconoscono: il maggiore peso dei
fattori personali che influenzano la frequenza alla Messa rispetto a quelli comunitari,
come segnalato dalla letteratura scientifica sul tema, e l’affidabilità incerta della
rilevazione delle presenze alla Messa dell’indice nazionale di ottobre. Nonostante ciò i
risultati mostrano che non c’è crescita o declino della frequenza alla Messa se
mettiamo a confronto nel medesimo periodo le parrocchie tradizionali e quelle
ristrutturate. Parificando le altre variabili, i cambiamenti della guida pastorale non
influenzano la pratica del culto domenicale. Gli autori interpretano tali risultati
inducendo che i fedeli accettano oggi più facilmente i cambi della organizzazione
pastorale. Un ulteriore risultato che si evince dalla analisi del modello è quello di
evidenziare che tra le tre modalità di cura pastorale rinnovata una appare più gradita
ai fedeli, che la premiano con una maggiore frequenza alla Messa domenicale: quella
dei “parroci in solido”. Le ragioni che possono spiegare tale fenomeno sono così
ipotizzate dai ricercatori. Dal punto di vista dei preti che offrono il servizio, il lavorare
in gruppo permetterebbe una maggiore soddisfazione e autostima, il vivere e pregare
insieme in una casa parrocchiale comune evita fenomeni di solitudine del clero
8
, una
solitudine che non può essere colmata dalla maggiore presenza dei laici oggi attivi
nelle parrocchie con vari ministeri e compiti. Dal punto di vista dei laici, sebbene non
possano più avere disponibile in ogni parrocchia un prete a tempo pieno, essi possono
trovare più facilmente nel gruppo dei parroci qualcuno a cui confidarsi e con cui
entrare in maggiore sintonia (per la predicazione, la confessione, la guida spirituale e
altri servizi). Nonostante i suoi limiti tale studio presenta alcuni dati preliminari che si
prestano per ulteriori analisi e per un confronto con i dati di questa ricerca.
8
Questa è una osservazione tipicamente americana, nel cui contesto è comune che i preti vivano
insieme in una Rectory – casa parrocchiale, condividendo servizi comuni e la coabitazione. Una prassi
molto differente da quella milanese che invece prevede tradizionalmente la abitazione autonoma di
ciascun sacerdote.