Premessa
1
I) Premessa
Per il giurista italiano dei nostri giorni, i concetti di elemento
soggettivo del reato e, in particolar modo, di capacità a delinquere sono
ormai un punto fermo del diritto penale sostanziale e processuale. Questo
studio è volto a dimostrare come, in realtà, la codificazione di tale istituto
sia stata frutto di un lungo cammino, nonchØ la conseguenza di un ampio
dibattito che ha attraversato l’Italia a cavallo tra il XIX ed il XX secolo.
Si cercherà, inoltre, di esporre come l’introduzione nel nostro
ordinamento dell’istituto della capacità a delinquere sia la “spia” di un
mutamento radicale dei tempi, avvenuto in concomitanza con lo sviluppo
piø consapevole e variegato della “Scuola Classica” ed il fiorire di un’altra
dottrina penale portata avanti dalla “Scuola Positiva”. L’analisi di tale
materia è pertanto l’occasione per capire come e perchØ la teoria liberale
dominatrice incontrastata della prima metà dell’Ottocento, fondata sul
presupposto del contratto sociale e dell’uomo razionale, abbia dovuto
confrontarsi (e in parte piegarsi ad esso) con il prepotente ingresso sul
palcoscenico del diritto del Positivismo, che già aveva rivoluzionato la
filosofia e le scienze naturali.
Una precisazione si rende necessaria: non potendosi studiare la species
ignorando il genus, sarà utile, al fine di esporre gli assunti della teoria
liberale, prendere spunto dai codici penali vigenti negli Stati italiani
preunitari. Questo è il punto di partenza per poter analizzare,
successivamente, le teorie della “Scuola Classica”, della “Scuola Positiva”
e, infine, del Tecnicismo Giuridico.
Da ultimo si procederà con l’esposizione della disciplina vigente
relativa alla capacità a delinquere, alla luce della Costituzione repubblicana
e dell’orientamento giurisprudenziale delle Corti italiane repubblicane.
Premessa
2
I.I) Nota per il lettore
Una delle difficoltà poste da questo studio è cercare di esporre
chiaramente, ben contestualizzandoli, gli orientamenti delle tre Scuole
penali piø rilevanti. La disposizione degli argomenti seguirà, pertanto,
l’ordine cronologico, ma al fine suesposto, tale criterio non potrà essere
seguito in modo rigido in quanto le tre dottrine convivono a partire
dall’ultimo decennio del XIX secolo, fino agli anni ’30 del XX secolo. Per
tale motivo, in alcune parti di questo scritto, l’ordine cronologico dovrà
cedere il passo a quello della materia trattata.
Premessa
3
1. Introduzione
“Accanto al fatto penalmente illecito, il secondo pilastro del diritto
penale moderno, il secondo grande capitolo della moderna scienza penale,
è la personalità dell’autore dell’illecito penale”
1
.
In modo provvisorio ed approssimativo possiamo affermare che per
oltre due secoli – tra il XVIII ed il XX – sull’argomento si sono alternate
sostanzialmente tre diverse dottrine.
La prima, che possiamo ricondurre sommariamente alla cosiddetta
“Scuola Classica”
2
, si faceva portatrice di un diritto penale del puro fatto e,
conseguentemente, del “dogma del reo come essere morale assolutamente
libero nella scelta delle proprie azioni, che come tale venne elevato a Uomo
astratto ed irreale”
3
.
La seconda, riconducibile invece alla “Scuola Positiva”, può indicarsi
come la base di un diritto penale dell’autore, fondato sulla figura del
delinquente, “essere assolutamente determinato, che come tale viene
degradato ad entità naturalistica, bio-psico-sociologica, rimbalzato tra
costituzione ed ambiente e privo di ogni spontaneità ed
autodeterminazione”
4
.
La terza, infine, ispiratrice del Tecnicismo giuridico Novecentesco, è il
frutto di un compromesso e, pertanto, postula un diritto penale misto del
fatto e della personalità dell’autore, acquisendo quest’ultimo come
“concreta individuazione umana, nØ tutta libertà nØ tutta necessità, ma con
1
F. Mantovani, Diritto penale parte generale, CEDAM, Padova 2001, pag. 581
2
Frutto del sostrato filosofico c.d. “liberale”
3
Ivi, pag. 583
4
Ibid.
Premessa
4
una libertà condizionata, motivata, la cui sfera di spontaneità e di
autodeterminazione varia, ampliandosi o riducendosi fino ad annullarsi”
5
.
Date per assodate queste informazioni, che peraltro saranno rese in
modo ben circostanziato in tre dei cinque capitoli che compongono questo
testo
6
, ci si può rivolgere al passato fino ad arrivare ai primi dell’Ottocento,
per cominciare un viaggio lungo due secoli.
5
Ibid.
6
La tripartizione della quale si è detto è accettata pacificamente dalla dottrina; oltre a Mantovani, op. cit.,
v. E. Santoro, Carcere e società liberale, Torino, 2004, pagg. 20 ss.
Capitolo I
5
CAPITOLO I
UNA NECESSARIA INTRODUZIONE: DALLA TEORIA LIBERALE
ALL’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO
NELLE CODIFICAZIONI PRE-UNITARIE
1. Introduzione
Quando ci si approccia allo studio storico di un istituto – in questa
sede quel complesso ambito relativo all'elemento soggettivo del reato,
all'imputabilità ed alla personalità del reo – e a come questo venga recepito
in un dato ordinamento (in specie quello italiano), la strada da seguire, o
meglio l'incipit dal quale dedurre una lunga argomentazione, è già tracciata
da tutti i giuristi che hanno solcato in precedenza il medesimo "sentiero". Si
deve pertanto iniziare l'indagine da quello che è il punto di partenza
stereotipo, fissato da quasi due secoli di elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale: per dare inizio a questo studio, si tratta, con certezza, del
Codice penale per il Regno d'Italia del 1811, derivato – come ampiamente
riportato in seguito – dal Code penal francese del 1810.
Questo primo capitolo ha, quindi, l'obiettivo di esaminare le
disposizioni inerenti all'elemento soggettivo del reato, nel codice del 1811 e
in tutti i codici c.d. preunitari piø rilevanti.
Tutto ciò sarà preceduto da una breve e semplificativa analisi del
sostrato iusfilosofico posto dai c.d. contrattualisti e dalla teoria c.d. liberale,
dal quale una trattazione che non si pretende completa, ma quantomeno
esaustiva, non può prescindere.
Capitolo I
6
2. La concezione antropologica dell’uomo razionale: il reato come
mero inadempimento del contratto sociale
All’indomani della Rivoluzione francese, con l’ascesa politica di
Napoleone Bonaparte, divenuto imperatore della Francia e di tutta l’Europa
continentale centro-occidentale, i grandi campi del sapere sono attraversati
in modo pieno ed uniforme dalla corrente di pensiero nota come
Illuminismo. La caratteristica principale di essa è data dalla posizione
assolutamente centrale dell’uomo, fulcro delle vicende terrene e oggetto di
attenzione delle scienze esatte ed inesatte.
Alla base di questa teoria filosofica sta una concezione antropologica
complessa, ormai nota come “utilitaristica”, da analizzarsi sotto due profili.
Per il primo aspetto, gli Illuministi considerano l’uomo come essere
razionale, dotato di un intelletto totalmente controllabile. Possiamo ben dire
di essere di fronte ad un homo scientificus che conosce, quindi, gli effetti
delle sue azioni ed agisce mosso dalla ragione. Pertanto si tratta di un uomo
altamente individualista che razionalmente esalta il proprio istinto di
sopravvivenza.
Per il secondo aspetto, certamente consequenziale rispetto al primo,
l’uomo sa anche essere un “animale sociale” che giunge ad un
compromesso come individuo singolo tra i singoli. Il compromesso di cui
si parla è il cosiddetto contratto sociale, istituto storicamente e
filosoficamente controverso, oggetto di studi secolari non ancora sopiti.
Capitolo I
7
L’espressione “contratto sociale”
1
interessa, secondo la pressochØ
unanime storiografia filosofica, due tipi di patto: il contratto sociale vero e
proprio (c.d. Gesellschaftsvertag o pacte d’association) ed il contratto di
governo (c.d. Herrschaftsvertag o Unterwefungsvertag o pacte de
governement). Secondo l’ordine logico così esposto, il primo consiste
nell’accordo stipulato da “un numero di individui che si trovano in uno
stato di natura […] per formare una società organizzata”
2
. Il secondo, noto
anche come contratto di sottomissione, “presupponendo uno Stato già
esistente, intende definire i termini in base ai quali [il popolo] deve essere
governato”
3
.
Questo secondo tipo di accordo è caratterizzato da una struttura
accettata da Locke, mentre in Hobbes ed in Rousseau vi è solo qualche
traccia di esso, e comunque con accezioni negative volte a confutarne
l’esistenza e a contrastarne la necessità ontologica.
Il primo, invece, assume nelle teorie di Hobbes, Locke, Rousseau e
Kant, strutture formalmente similari ma, a tratti, diametralmente opposte
dal punto di vista contenutistico. Il punto di maggior dibattito concerne il
presupposto principe del “patto associativo”, ossia il cosiddetto stato di
natura.
A proposito di esso Thomas Hobbes descrive una situazione
protostorica di “guerra di tutti contro tutti”
4
, ossia un assetto antropologico
condensabile nel brocardo latino homo hominis lupus.
1
La bibliografia sul tema è vasta, oltre a J. W. Gough, Il contratto sociale: storia critica di una teoria,
Bologna, 1986, testo utilizzato per la maggior parte dei riferimenti posti in calce a questo primo
paragrafo, sono da segnalare il notissimo testo di J. J. Rousseau, Du contrat social, ou Principes du droit
politique, Parigi, 1762, v. anche Giuseppe Duso (a cura di), Il contratto sociale nella filosofia politica
moderna, Bologna, 1987
2
J. W. Gough, op.cit., pag. 15
3
Ibid.
4
Ivi, pag. 225
Capitolo I
8
John Locke (e con esso Baruch Spinoza) è invece schierato su una
posizione di “pace e benevolenza”
5
sintetizzabile con i termini homo
hominis deus e riconducibile ad una sorta di empatia naturale tra gli esseri
umani.
Secondo la teoria esposta da Jean-Jacques Rousseau ne Il contratto
sociale, lo stato di natura era solo una condizione di isolamento brutale,
nella quale gli uomini erano fisicamente molto piø forti di oggi. L’uomo
era originariamente integro, biologicamente sano e moralmente retto;
questo divenne malvagio e ingiusto solo successivamente per uno squilibrio
di ordine sociale. A proposito di ciò, l’esistenza sociale si sviluppò quando
l’esistenza nomade lasciò il posto al dimorare fisso con la conseguente
acquisizione della proprietà. Da qui la tanto famosa quanto critica
affermazione contenuta nel Discorso sull’origine e sui fondamenti della
disuguaglianza fra gli uomini
6
del 1754:
“il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare «questo è
mio», e trovò persone così ingenue da crederlo, fu il vero fondatore della
società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non
avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e
colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi da questo
impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra
non è di nessuno»”
7
.
5
Ibid.
6
Tradotto e commentato, tra gli altri, da Michelangelo Musarra, Discorso sull’origine e sui fondamenti
della disuguaglianza fra gli uomini, Milano, 1968
7
Reale - Antiseri, Storia della filosofia, Brescia 1997, pag. 613
Capitolo I
9
Immanuel Kant si prodiga in uno studio piø distaccato, impostato
totalmente sulla logica. Egli sostiene che il diritto consiste nella limitazione
della libertà di ciascuno, alla condizione che essa si accordi con la libertà di
ogni altro
8
. La libertà di ognuno coesiste, pertanto, con la libertà degli altri.
Ovviamente l'uomo kantiano non può non avere bisogno di un padrone,
data la facilità con cui cede all'istinto egoistico. Ma il padrone non è un
altro uomo, bensì il diritto stesso. Kant analizza l'uomo e in lui trova una
tendenza egoistica, ovverosia una “insocievole socievolezza”: gli uomini
tendono a unirsi in società, ma con una riluttanza a farlo davvero ed il
conseguente rischio di disunire questa società. In poche parole: si associano
per la propria sicurezza e si dissociano per i propri interessi. Ma è proprio
questa conflittualità a favorire il progresso e le capacità del genere umano,
perchØ lottano per primeggiare sugli altri: “come alcuni alberi che si
costringono reciprocamente a cercare l'uno e l'altro al di sopra di sØ, e
perciò crescono belli dritti, mentre gli altri, in libertà e isolati fra loro,
mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi”
9
.
Quanto alla libertà ed ai limiti dello stato, Kant non ignora affatto le
tesi lockiane sul liberalismo, perchØ anche lui afferma che lo Stato mira a
garantire la libertà di ogni persona contro chiunque altro. Il cosiddetto
“Stato repubblicano” che delinea si basa su tre principi della ragione:
la libertà (in quanto uomo);
l'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge (in quanto
sudditi);
l'indipendenza (in quanto cittadino).
8
Concetto ben definito nella frase attribuita a Voltaire che recita: “la libertà di un uomo termina ove
comincia quella di un altro uomo”.
9
Reale – Antiseri, op.cit., pag. 618
Capitolo I
10
Questa visione dello Stato va in conflitto con un qualsiasi dispotismo
presente, anche paternalistico. Secondo Kant infatti, “un governo
paternalistico è il peggiore dispotismo che si possa immaginare”, dato che
costringe i sudditi ad attendere che il capo dello Stato giudichi solo
mediante la sua bontà. C'è solo una soluzione a questo problema: “essere
liberi per poter esercitare le proprie forze nella libertà”
10
.
Quanto al “contratto sociale”, Kant pone a principio della sua teoria
l’idea di uno stato di natura senza leggi in cui, in assenza di restrizioni, gli
uomini si fanno giustizia da sØ, reciprocamente. Tale impostazione è
giustificata dalla volontà di voler immaginare l’uomo “spogliato di tutto ciò
che egli deve alla società”
11
. Il filosofo di Königsberg parla precisamente di
“ein Zustand der Rechtlosigkeit”
12
. ¨ da qui che sorge l’esigenza di un
contratto “originale” tramite il quale si costituirà lo Stato.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel affronta l’argomento in maniera
pragmatica, ritenendo non logico fondare la natura dello Stato sulla
relazione contrattuale. Esso infatti non avrebbe come fine ultimo la
protezione e la garanzia della vita e della proprietà dei suoi membri uti
singuli. ¨ l’uomo che ha come scopo razionale la vita nello Stato ed è
quest’ultimo a permettere all’essere umano di entrare a far parte di esso o
di uscirne.
Per quanto riguarda l’ambiente culturale italiano, la massima
espressione della filosofia del diritto penale settecentesco è Cesare Beccaria
che con il suo Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764, pose una pietra
miliare nel panorama giuridico nazionale. Partendo dalla teoria
10
Antiseri – Reale, op.cit., pag. 647
11
J. W. Gough, op. cit., pag. 244
12
“una condizione non regolata da norme”: Reale – Antiseri, op. cit., pag. 665
Capitolo I
11
contrattualistica, il giurista e filosofo milanese definì il delitto come una
violazione del contratto sociale. La società nel suo complesso godeva
pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al
delitto commesso (principio di proporzionalità della pena) e secondo il
principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un
altro. In merito alla pena di morte, importante fu la polemica imbastita dal
Beccaria stesso nel capitolo XXVIII della sua opera piø nota
13
. Egli
contestava la pena capitale per tre ordini di motivi:
a) nessuno è padrone di uccidersi e, a maggior ragione, nessuno
può porre la propria vita a discrezione del giudice; la vita è il
massimo di tutti i beni, e la sua interruzione violenta non
rientra nel patto sociale;
b) dall’esperienza di tutti i secoli si desume che la pena di morte
non è un deterrente infallibile: “l’ultimo supplicio non ha mai
distolto gli uomini determinati dall’offendere la società”;
piuttosto “il lungo e stentato esempio di un uomo privo di
libertà” e costretto a lavorare duramente, distoglie dal
commettere delitti, perchØ costituisce una prospettiva piø
dolorosa di una morte violenta ma repentina;
c) infine, la morte legale è un dato contraddittorio, perchØ le leggi
non possono proibire l’uccisione e contemporaneamente
prevederla come pena: “parmi un assurdo che le leggi, che
sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e
puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e,
13
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di Piero Calamandrei, Firenze, 1965
Capitolo I
12
per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico
assassinio”.
Nonostante queste tre argomentazioni, Beccaria ritenne che almeno in
un caso la pena di morte fosse inevitabile, ossia quando il reo abbia tale
potenza e tali relazioni che possa attentare alla sicurezza della nazione
anche se imprigionato: “la morte di qualche cittadino diviene dunque
necessaria quando la nazione recupera e perde la sua libertà, o nel tempo
dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi”. In ciò,
Beccaria riflettØ l’opinione antichissima dell’uccisione lecita del tiranno.
Questa breve digressione relativa al contratto sociale ed ai filosofi
contrattualisti era necessaria: essa infatti permette a chi legge di poter
immaginare il sostrato filosofico che sta alla base di un’intera stagione
giuridica, nota come epoca della teoria liberale. Per addentrarci a pieno
nell’argomento centrale di questo studio occorre pertanto trasferire quanto
detto sino ad ora nel campo del diritto penale sostanziale.
Per l'appunto, la prima metà del XIX secolo, così impregnata di una
“società che ragiona”, esprime un diritto penale, italiano ed europeo, che è
il figlio naturale di essa. La dottrina, la giurisprudenza e, come vedremo, i
codici, saranno quasi ovunque unanimi nel considerare il reato come un
mero inadempimento del contratto sociale.
Ciò che si immagina è quindi un uomo razionale a tal punto da rendere
ogni reato il frutto di una scelta cosciente e volontaria. Nessuno spazio è
riservato alla personalità del reo, nessuno ai motivi che lo hanno portato al
reato, nessuno ai fattori esterni che abbiano potuto condizionare il soggetto
attivo del reato: al centro vi sono solo la condotta posta in essere e l’evento
causato dal colpevole.
Capitolo I
13
Analizzando l’assetto della dottrina liberale, la prima cosa che risalta
agli occhi di chiunque si approcci ad una tale teoria è che essa appare come
il frutto di un paradosso. In un periodo nel quale l’uomo è posto “al centro
del mondo”, il diritto penale guarda alla mera gravità del delitto. A fronte
di piø reati commessi da piø esseri umani, si guarda ai primi – giustamente
– differenziandoli ma si puniscono i secondi come se fossero tutti uguali.
Pur tuttavia, anche a questo può darsi una spiegazione: a differenza di
quanto accadrà alla fine dell’Ottocento, in questo momento storico gli
studiosi del diritto affrontano studi meramente teorici e sono criticati
proprio perchØ troppo distaccati dalla realtà quotidiana. Chi costruisce tesi
di questo tipo, le adatta non all’uomo uti singulus, bensì all’ uomo sociale;
tutto ciò che è teoria finisce così per schiacciarsi senza profondità,
plasmandosi – è bene ribadirlo – non sull’uomo ma su un Uomo ideale.
Non resta altro che analizzare come questa teoria si vada a
concretizzare nelle codificazioni italiane antecedenti rispetto
all’Unificazione politica.
3. Il movimento di codificazione penale: le linee guida dei codici
ottocenteschi e preunitari
Il movimento di codificazione penale si sviluppa in tutta Europa,
secondo cadenze e linee di tendenza indipendenti dalle divisioni politiche e
giuridiche. Una ricostruzione, pur sommaria, deve pertanto assumere
giocoforza un orizzonte piø vasto di quello suggerito dai confini nazionali.
Risultando estremamente dispersivo e prolisso spingersi alle
cosiddette “Consolidazioni” o comunque indietro oltre la seconda metà del
XVIII secolo, è da dirsi che proprio sul finire del Settecento la dimensione
Capitolo I
14
sovranazionale del movimento di codificazione si accentua. La riforma è
animata da un patrimonio di idee alla cui elaborazione contribuiscono
giuristi del calibro di Montesquieu, Voltaire, Feuerbach, Bentham e, come
accennato supra, Beccaria.
A proposito di tale periodo altamente produttivo della scienza penale,
si permetta un breve inciso. Mario Sbriccoli parla di “centralità del
problema penale”
14
, e pone due questioni. La prima: “i giuristi […]
risaltano per qualità, consapevolezza dei tempi e dei problemi [ma]
mostrano talora i limiti della loro condizione di intellettuali periferici,
costretti ad agire in contesti chiusi e qualche volta ostili. […] La loro
produzione non si rivolge al pubblico, ma è destinata ad altri giuristi”
15
e,
pertanto, ad ambienti elitari. La seconda è altamente critica: “la [loro]
scienza mette in soggezione gli storici non giuristi i quali finiscono per […]
sottovalutarne la funzione”
16
.
Il dibattito, acceso e profondo, è caratterizzato da una ferma
contestazione del diritto penale vigente: si denunciano gli aspetti
anacronistici, arbitrari e inutilmente crudeli di esso, nonchØ l’ormai inadatta
selezione dei comportamenti da reprimere. Come ogni teoria che si possa
ritenere esaustiva, questa non si limita ad indicare la pars destruens,
ponendo anche una vigorosa pars construens, tuttora attuale ed essenziale
per il diritto penale. Essa mette infatti a disposizione del diritto veri e
propri pilastri, nuovi e incorrotti, della giustizia: il principio di legalità,
ossia nullum crimen sine lege; il principio di proporzionalità tra il reato
14
In ben due saggi M. Sbriccoli intitola un proprio articolo come La centralità del problema penale. Il
primo si trova in La penalistica civile, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica,
Aldo Schiavone (a cura di), Bari 1990; il secondo in Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa.
Istituzioni e diritti, M. Fioravanti, Bari, 2004, pagg. 193 ss.
15
M. Sbriccoli, La penalistica civile, in op.cit., pag. 152
16
Ibidem