II
V
Premessa
“MICROSCOPIO. Questo è un ordigno moderno o strumento Dioptrico,
ormai a tutti noto, per cui si scuopre, per così dire, un Mondo nuovo nel
Mondo vecchio. Saremmo privi di tanti scoprimenti sì nella Notomia del
nostro corpo, sì degli animali, sì in tutto il Regno più minuto della Natura,
se non si fosse trovata questa maniera d’ingrandire gli oggetti, e scoprire
ciò, che l’occhio nudo veder non potea, e forse né men la mente
comprendere (…)
Non mi fermerò né meno a descriverlo, sì perché ve ne sono ormai di
moltissime maniere, onde troppo lungo riuscirebbe il discorso, sì perché
tanti autori ne hanno scritto, che può, quando vuole il curioso, facilmente
soddisfar la sua sete,,.
Con queste precise parole lo stesso Vallisneri (1661-1730), nel suo Saggio
alfabetico d’Istoria Medica e Naturale, liquidava chiaramente la speranza di
poter reperire dai suoi stessi scritti una descrizione esplicita dei microscopi
da lui utilizzati nel corso della sua attività scientifica.
L’identificazione del tipo o dei tipi di strumento usati dall’autore è, infatti, il
preciso intento di questa tesi.
L’indagine elaborata e messa in atto per il raggiungimento di un simile
obiettivo si è pertanto strutturata lungo un itinerario composto da tre fasi
successive e fra loro direttamente collegate:
Analisi estesa dei testi vallisneriani, editi e manoscritti, alla ricerca dei
brani contenenti informazioni indicative sull’uso del microscopio da
parte dello scienziato.
Formulazione di un’ipotesi sulla base di elementi di compatibilità
cronologica e descrittiva fra gli scritti considerati ed il livello raggiunto
dalla tecnica microscopica nel periodo storico di riferimento.
Verifica sperimentale di tale ipotesi, attraverso la riproposizione di uno
o più esperimenti riportati dall’autore, sullo stesso materiale descritto e
facendo uso del tipo di strumento identificato.
VI
Un’impresa, questa, dall’esito tuttaltro che scontato, per due motivi
fondamentali: l’inesistenza di lavori simili in letteratura scientifica,
aggravata dalla poco favorevole condizione di isolamento in cui versa la
storia della scienza italiana rispetto alle altre discipline che ad essa
dovrebbero essere correlate (biologia, geologia, chimica, fisica,
matematica…), e la vastità del materiale da esaminare, tale per cui s’è reso
necessario molto tempo per poter condurre una ricerca sufficientemente
approfondita.
Ne deriva dunque che una parte considerevole del significato di quest’opera,
e delle motivazioni che hanno indotto a lavorare ad essa, sta nel proposito di
contribuire ad un’inversione di tendenza nella maniera di considerare il
rapporto tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche in Italia, troppo
spesso immaginate in antagonismo fra loro, quando in realtà solo un
inveterato pregiudizio epistemologico impedisce di intuire i vantaggi che
derivano da una maggiore collaborazione fra i vari campi del sapere.
La ricerca condotta ha portato ad individuare, con un buon margine di
certezza, il tipo di strumento di cui Vallisneri si servì per l’osservazione
degli spermatozoi; questo è stato ipotizzato essere un microscopio Wilson a
lente singola appartenente alla vasta categoria dei modelli screw-barrel,
fabbricato nel primo decennio del XVIII secolo.
La possibilità di poter usufruire di diversi esemplari del modello
considerato, custoditi presso il Musée d’Histoire des Sciences di Ginevra, ha
reso possibile una verifica sperimentale di tale ipotesi.
Questa ha consentito una chiara osservazione delle cellule spermatiche di
coniglio per mezzo di tre delle lenti ancora conservate, avvalorando la
plausibilità dell’identificazione operata.
Il corpo centrale della tesi è strutturato in tre parti.
Nella sezione introduttiva viene presentata una sintesi del panorama
scientifico in Italia nel periodo storico considerato (par. 1.1), seguita da una
presentazione della figura di Antonio Vallisneri unita ad un sommario degli
studi e delle opere dell’autore (par. 1.2); vengono infine esposte la nascita e
l’evoluzione della microscopia dalle origini alla prima metà del XVIII
secolo, con un cenno particolare alle tecniche di costruzione e di
lavorazione delle lenti (par. 1.3).
VII
Nella seconda parte si descrivono i metodi utilizzati per la preparazione dei
campioni da esaminare e per l’osservazione di questi attraverso i microscopi
Wilson (par. 2.1); si espongono quindi le tecniche adoperate per fotografare
le immagini così ottenute (par. 2.2).
Nella terza parte vengono messi in evidenza ed analizzati in dettaglio i brani
di Vallisneri a cui si è fatto riferimento per dedurre il tipo di microscopio
utilizzato dall’autore (par. 3.1) e vengono esposti gli elementi a sostegno
della scelta effettuata, seguiti da una descrizione approfondita dei
microscopi Wilson custoditi presso il Musée d’Histoire des Sciences di
Ginevra (par. 3.2); si passa infine ad esporre la relazione delle osservazioni
eseguite ed i risultati ottenuti (par. 3.3).
Nella discussione si riassumono le argomentazioni in base alle quali si è
identificato il microscopio usato da Vallisneri con un modello Wilson, e si
opera un confronto tra le immagini osservate utilizzando i microscopi di tipo
Wilson e quelle ottenute per mezzo di un moderno microscopio didattico.
Nelle conclusioni viene proposta una riflessione sul ruolo svolto dai
microscopi semplici nel progredire della ricerca scientifica e, più in
particolare, nell’attività scientifica di Vallisneri.
In appendice si trova inserita la traduzione di due dei tre pamphlet che
James Wilson dedicò ai microscopi da lui ideati e prodotti, integrata con le
riproduzioni delle tavole originali (Appendice 1 e 2), e di un capitolo del
trattato di Baker del 1769, The microscope made easy, nel quale si trova una
descrizione del microscopio utilizzato in questo lavoro (Appendice 3);
vengono infine approfonditi alcuni argomenti di ottica geometrica
(Appendice 4).
E’ di estrema importanza chiarire un aspetto fondamentale caratterizzante di
questo lavoro, che viene definito, come si legge nel titolo, una “indagine
storico - naturalistica”.
C’è un motivo ben preciso per cui sono state usate queste parole, ed è
strettamente correlato a come si intende il concetto di “naturalista”. Vale a
dire, nell’accezione fatta propria da questo elaborato, un professionista che
peculiarmente, per la natura dei suoi interessi e della sua formazione
accademica, dovrebbe avere la capacità di intuire i legami esistenti tra le
diverse discipline scientifiche nella comprensione della natura, e dovrebbe
VIII
saper sfruttare tale abilità per operare in quei campi che più sono
caratterizzati dal bisogno di una visione d’insieme della realtà; siano essi la
tutela e la gestione ambientale, l’insegnamento scientifico nelle scuole, o –
come in questo caso – la stessa ricerca e divulgazione storico – scientifica.
E’ ovvio che in quest’ultimo caso le capacità tipiche di un naturalista
devono essere affiancate, se si vogliono ottenere buoni risultati, all’indagine
storiografica.
Questa è stata probabilmente la parte più complicata del lavoro, in quanto
era necessario impadronirsi – almeno in forma elementare – di quegli
strumenti che permettessero di addentrarsi nelle vicende del passato senza
commettere errori epistemologici grossolani o, addirittura, fatali per il buon
esito della tesi.
Particolarmente intenso è stato lo sforzo di mantenersi il più possibile entro
un’ottica di contestualizzazione storica dell’autore; è stato in seguito
rilevato, infatti, quanto sia terribilmente facile cedere alla tentazione di
separare i personaggi e le loro opere dall’epoca e dall’ambiente in cui
vissero, commettendo così l’inevitabile errore di travisare gran parte del loro
lavoro e delle motivazioni che li portarono a pensare ed agire in un certo
modo.
Ciò spesso avviene perché quei fatti vengono interpretati secondo una logica
che, pur credendo d’essere imparziale, è in effetti influenzata dal periodo
storico di cui è figlia, così come il personaggio in questione è figlio del suo
stesso periodo storico; un errore, questo, che inevitabilmente apre la strada
all’insidiosa tendenza precursionistica, che tende a «cercare nel passato i
precorrimenti delle teorie contemporanee» e ad «organizzare la storia della
scienza – come spesso accadeva e, talvolta, ancora oggi accade quando chi
si occupa della questione ha una formazione solo scientifica e non
storiografica – nella forma di elenco ed illustrazione dei precorrimenti e dei
precorritori delle teorie considerate corrette dai modelli scientifici oggi
accreditati» (Andrietti, Generali, 2002, pp. 30, 34).
Come diretta conseguenza delle premesse poste fin qui, nella stesura della
parte di questa tesi relativa all’inquadramento storico dell’autore – e
dell’ambiente scientifico e filosofico in cui egli visse ed operò – si è cercato
di seguire il più possibile le linee guida fatte proprie dalla storia della
IX
scienza contemporanea, adottandone i princìpi metodologici fondamentali;
in particolar modo la contestualizzazione del personaggio e degli
avvenimenti considerati nell’ambito del periodo storico di riferimento.
Si è cercato così di analizzare la figura di Antonio Vallisneri nella
completezza delle sue idee scientifiche e filosofiche, senza praticare una
pericolosa cernita di queste ultime in base alla loro supposta veridicità, ma
piuttosto tenendo conto anche di quelle teorie che, per quanto giudicate
inesatte dal pensiero scientifico successivo, sono risultate essere
estremamente preziose per un inquadramento storico il più possibile corretto
dell’autore.
Una simile operazione, ben lungi dall’essere un vezzo è, al contrario, la
condizione sine qua non per una ricostruzione storica che non sia ridotta a
semplice elenco cronologico di nomi e scoperte; una metodologia non
corrispondente al vero e, pertanto, avversata con decisione dallo studioso
tedesco Walter Pagel
1
, per cui «lo storico non può permettersi tali
smembramenti della realtà», né può «trascurare o sottovalutare certi fatti
storici a beneficio di una semplificazione effimera» (Pagel, 1979, p. 418).
Per quanto riguarda la parte direttamente sperimentale di questo elaborato, i
problemi più rilevanti sono stati rappresentati dalla necessità di applicare
alcune tecniche di microscopia moderne – la preparazione del materiale da
esaminare, la sua conservazione, la determinazione dei poteri
d’ingrandimento delle diverse lenti, la fotografia delle immagini ottenute –
all’utilizzo di microscopi risalenti alla prima metà del XVIII secolo,
cercando nel contempo di utilizzare dei campioni il più possibile conformi a
quelli dedotti dall’analisi dei testi vallisneriani (in questo caso il liquido
seminale di coniglio); un compito, questo, notevolmente semplificato
dall’eccellente stato di conservazione in cui si trovano gli strumenti
custoditi presso il Musée d’Histoire des Sciences di Ginevra, e dal notevole
grado di libertà con cui sono stati consentiti la pulitura, la manipolazione e
l’utilizzo degli stessi.
1
Cfr. a questo proposito Pagel, Le idee biologiche di Harvey. Aspetti scelti e sfondo storico, traduzione di Adriano
Carugo, traduzione delle note di Libero Sosio, Feltrinelli, Milano, 1979 (I ed. ingl. 1966; 1969-70), op. cit. in Andrietti,
Generali, Storia e Storiografia della Scienza; il caso della sistematica, Milano, Franco Angeli editore, 2002, pp. 32-33.
X
La presente, pertanto, vuole essere un’ opera di ricerca storica ed assieme
naturalistica; il lavoro di un naturalista, quale il sottoscritto aspira a
diventare, su di un naturalista, quale era Vallisneri.
Questo lavoro non può e non vuole essere apprezzato tanto per la sua
originalità in confronto ad altre tesi, quanto piuttosto in base alla riuscita
dell’esito che si è prefissato: dimostrare l’efficacia della cooperazione tra
discipline che, a causa di una «differenziazione metodologica ed euristica»
che «rappresenta uno dei più gravi pregiudizi epistemologici della nostra
tradizione didattica» (Andrietti, Generali, 2002, p. 9), sono spesso ritenute
tra loro del tutto estranee: la storiografia e le scienze naturali.
Cooperazione che va intesa come un ritorno alla normalità, piuttosto che
come un’unione forzata fra due realtà per natura tra loro separate, questa sì
condizione anomala e controproducente.
F. L.
1
1 – Introduzione
2
1.1 – Il panorama scientifico in Italia
La guerra dei Trent’anni rappresentò l’evento geopolitico dominante del
XVII secolo in Europa.
Essa fu la drammatica fase finale della separazione che era venuta
formandosi tra due realtà ben differenti tra loro, anche se comunque
frammentate e disomogenee al loro interno: da una parte la società
influenzata dalla Riforma protestante e dal Calvinismo, coincidente
grossomodo con la parte settentrionale del continente; dall’altra il blocco
controriformista dell’alleanza Papato – Impero, che quindi riuniva sotto di
sé la Spagna, le province meridionali della Germania, gli stati italiani e le
terre dell’est europeo soggette agli Asburgo (Austria - Ungheria e parte dei
Balcani).
Strettamente correlato alle vicende storiche sopra considerate fu lo sviluppo
dell’attività scientifica nei diversi stati europei.
Nel XVII secolo, infatti, sorse e si affermò la scienza intesa nell’accezione
moderna del termine, in quanto dotata di caratteristiche che la separavano
qualitativamente dall’attività scientifica precedente; non tanto nel senso
dell’indagine razionale della realtà (che prese avvio fin dall’età classica),
quanto piuttosto per l’introduzione di un concetto di ricerca rivoluzionario
quale fu il metodo sperimentale.
La cultura filosofica e scientifica tradizionale, orientata da tempo sul
principio aristotelico del razionalismo qualitativo a sfondo finalistico, entrò
in crisi già a partire dal cinquecento.
Alla concezione generale per cui la realtà è indagata e studiata a livello
percettivo ben si adattava la dottrina aristotelica delle quattro cause
(materiale, efficiente, formale, finale).
La natura, secondo tale concezione, opera sulla forma di un oggetto in
funzione del fine verso cui esso è preposto; l’esplicazione scientifica,
dunque, tende a riprodurre l’atto creativo della natura (Micheli, 1970, pp.
325-326), e ad operare una distinzione fondamentale tra materia e forma,
quali parti costitutive e complementari di un oggetto.
Fu proprio dalla crisi di questa visione della realtà permeata di finalismo che
prese avvio la scienza moderna.
3
Partendo dal recupero della tradizione platonico – atomistica, che interpreta
la realtà sulla base di entità discrete (e dunque quantificabili), già a partire
dal rinascimento ebbe inizio un processo di revisione critica dell’indagine
aristotelica.
Ciò ad opera soprattutto dell’umanesimo, che – andando alla ricerca dei testi
classici originali e non mediati da interpretazioni successive – rivendicava
un atteggiamento di maggior concretezza nei confronti del sapere.
Si generò un forte desiderio di nuove vie di conoscenza, che trovò la sua più
immediata applicazione nel campo delle scienze descrittive e pratiche
(Micheli, 1970, pp. 326-328).
Il passaggio dal modello tradizionale del sapere alla nuova scienza
galileiana fu particolarmente travagliato e non avvenne in modo netto. Non
a caso in molti intellettuali del tempo (Cardano, Della Porta ...) l’indagine
scientifica interagiva e conviveva con la magia, che rappresentò a tutti gli
effetti un elemento di transizione tra la vecchia e la nuova filosofia della
natura.
Nello stesso Harvey – come sostenne Walter Pagel, il suo principale
biografo – tali aspetti erano inseparabili, e la sua concezione biologica, che
gettò «le fondamenta della moderna biologia e medicina scientifica», era
comprensibile solo alla luce della sua Philosophia naturalis e dello sforzo
che realizzò per «comprendere la struttura fondamentale che tiene insieme il
macrocosmo e il microcosmo» (Pagel, 1966, pp. 11-12).
Fu Francis Bacon colui che più d’ogni altro insistette sulla necessità di un
ritorno alla concretezza del sapere; egli introdusse e definì il concetto di
interpretazione razionale di un esperimento, ponendo le basi del metodo
sperimentale e di conseguenza fornendo quegli strumenti fondamentali che
avrebbero reso possibile il realizzarsi della ricerca scientifica.
Ciò a prescindere da una sua concezione della scienza ancora intesa come
semplice erudizione, ben lontana dall’omogeneità concettuale tipica
dell’indagine scientifica vera e propria (Micheli, 1970, pp.
328-331).
Queste tendenze al rifiuto dell’approccio aristotelico nei confronti della
realtà presero forma e si consolidarono in quella che fu la dottrina
dominante del diciassettesimo secolo.
4
Fu infatti con il meccanicismo che gli sforzi ed i tentativi di opporre una
valida alternativa all’ipse dixit si concretizzarono in un sistema ben definito
di indagine razionale della realtà.
In esso, più che in ogni altra filosofia, trova posto il tema della
matematizzazione della natura; in esso, pure, si realizza pienamente una
nuova concezione di attività scientifica, che rifiuta l’approccio di tipo
aristotelico alla realtà a favore del metodo sperimentale.
Nel meccanicismo tutto è esplicabile in termini di meccanica, e di
conseguenza i fenomeni naturali e gli esseri viventi vengono interpretati
come macchine che, per quanto complesse, possono essere ricondotte a
semplici sistemi di corpi in movimento, obbedienti alle medesime leggi
universali.
Se Galileo fu lo scienziato che maggiormente seppe mettere in atto il
procedimento meccanicistico, colui che legittimò filosoficamente il metodo
meccanico come strumento di indagine fu senza dubbio Cartesio.
Nella ricerca meccanicistica, e più generalmente in quella scientifica, il
punto cruciale dell’esplicazione diventa il momento della verifica
sperimentale; il controllo della veridicità delle proprie asserzioni e delle
proprie congetture permette infatti una selezione delle medesime, ed allo
stesso tempo stimola il ricercatore a migliorare le proprie teorie ed a
produrne di nuove, sulla base dell’attinenza alla realtà.
La necessità di modelli meccanici adeguati per l’interpretazione dei
fenomeni naturali diede un fondamentale impulso allo sviluppo della ricerca
sperimentale; l’esigenza di coerenza e rigore da parte dell’indagine
scientifica comportò l’adozione del linguaggio matematico quale strumento
descrittivo ed interpretativo della realtà il più possibile oggettivo.
Alla base della nuova filosofia meccanicista, infatti, stava la dottrina –
riconosciuta come centrale da tutti i grandi pensatori del tempo – della
soggettività delle qualità sensibili; ad esse, proprio in quanto limitate e
variabili, veniva negata l’oggettività, la coincidenza con il reale.
«Ciò che v’è di reale nel mondo naturale per lo scienziato secentesco è
pertanto la materia con la sua sola determinazione essenziale, il
movimento…Spiegare scientificamente vuol dire allora non solo descrivere
5
la realtà, ma interpretarla in modo operativo e non già essenzialistico»
(Micheli, 1970, p. 339).
Attraverso l’analisi o scomposizione degli elementi sensibili, la
semplificazione meccanicistica e l’interpretazione matematica (sulla base
del modello meccanico) la ricerca meccanicista provocò, inevitabilmente, la
scomparsa di ogni considerazione finalistica nell’analisi della natura; il fine
della realtà non veniva però cancellato, bensì trasferito e ricondotto alla
volontà di Dio, concepito come il meccanico per eccellenza, in quanto
costruttore e conduttore della natura.
Ciò che interessava al meccanicismo infatti era la coincidenza tra capacità
conoscitiva e costruttiva, concetto fondamentale della filosofia e della
scienza secentesca (Micheli, 1970, pp. 332-341).
Oltre ad un’esigenza operativa divenne fondamentale, nella dottrina
meccanicista, quella riduttiva; da essa, infatti, derivò una nuova concezione
di unità delle scienze, dato che l’interpretazione meccanicistica (quale
postulato razionale alla base del sistema scientifico) divenne la chiave di
interpretazione di tutto il reale, fisico e biologico.
L’evoluzione del pensiero meccanicista, con il passare del tempo, fu
condizionata dallo sviluppo della tecnica scientifica di cui esso stesso era
stato propulsore.
Negli ultimi decenni del XVII secolo si andò affermando la microscopia; la
scoperta, ad opera di Francesco Redi, che tutti gli animali si riproducono
tramite uova, determinò la scomparsa – non senza resistenze – della teoria
della generazione spontanea.
L’intera realtà biologica, anche presso le forme di vita considerate più
semplici ed elementari, apparve come un processo comunicantesi da
organismo ad organismo.
In concomitanza con queste fondamentali scoperte si svilupparono due
dottrine interpretative fra loro contrapposte.
L’ovismo, nato negli anni settanta del seicento, e che vide in Harvey,
Stenone, de Graaf e Van Horne i suoi massimi sostenitori, ipotizzava che
tutti gli animali – vivipari ed ovipari – si riproducessero tramite uova; la
scoperta nel 1677 degli spermatozoi da parte di Leeuwenhoek diede invece
vita allo spermatismo, che negava il ruolo esclusivo o prevalente delle uova
6
nel trasmettere la vita, attribuendolo piuttosto all’opera dei “vermicelli
spermatici” (Mondella, 1970, pp. 216-217).
Molti sostenitori di ambedue le dottrine condivisero la concezione della
teoria preformista; essa ipotizzava che nell’uovo (o nello spermatozoo) si
trovasse già precostituito in miniatura, con tutte le sue parti, l’animale
adulto.
Fra i più accesi sostenitori del preformismo vi fu Swammerdam, che nel suo
Miraculum Naturae (Swammerdam, 1672) negò una vera metamorfosi degli
insetti, sostenendo – come esempio esplicativo – che la farfalla fosse inclusa
interamente nella crisalide e prima ancora nel bruco, in esso inviluppata e
nascosta, con tutti gli organi già distinti e formati.
Swammerdam allargava questa caratteristica di preinclusione a tutte le
specie animali, compreso l’uomo; nelle ovaie di Eva, egli ipotizzava, erano
inscatolati uno dentro l’altro tutti gli individui della razza umana, il che rese
possibile il trasmettersi del peccato originale a tutta la sua discendenza.
Con questa estremizzazione della dottrina preformista, detta in seguito
inscatolamento, si sosteneva in sintesi la preesistenza – non soltanto la
preformazione – di tutti i germi dei diversi viventi fin dall’inizio del mondo;
se era così prerogativa della meccanica lo sviluppo dell’organismo, la causa
della sua esistenza rimaneva in questo modo esclusivo appannaggio
dell’intervento divino, attraverso un singolo ed universale atto di creazione.
Si riusciva in questo modo a conciliare la negazione della generazione
spontanea con il creazionismo.
Il costante sforzo nel tentativo di ricercare un ordine razionale e definito
all’interno del creato favorì lo sviluppo della teoria della scala naturae,
concetto caro allo stesso Vallisneri (Generali, 1987, pp. 145-164),
strettamente collegato all’idea di universo formulata da Leibniz ed assai
ricorrente nel pensiero filosofico – scientifico del XVIII secolo (Lovejoy,
1936).
Si sosteneva in essa la correlazione e la continuità di tutti gli esseri viventi e
non viventi, i quali potevano venire disposti – uno di seguito all’altro –
lungo gli innumerevoli gradini della scala del creato, secondo un criterio di
perfezione e complessità crescente, partendo dai minerali per poi passare ai
vegetali, agli animali sessili (i cosiddetti zoofiti), ai vermi, i molluschi, gli
7
insetti, i vertebrati e gli animali a sangue caldo, per giungere infine
all’uomo, anello terminale della scala naturae terrena e punto di
congiunzione tra quest’ultima e le gerarchie celesti.
Compito del naturalista era dunque quello di colmare gli spazi rimasti vuoti
nella catena degli esseri a causa dell’ignoranza umana e dell’imperfezione
della scienza; ciò attraverso l’esplorazione di tutti gli angoli della Terra, il
censimento delle creature rinvenute e la loro appropriata collocazione – pur
sempre passibile di successivi miglioramenti – nell’ordinata gerarchia del
creato.
Una tale concezione di gradazione ascendente degli esseri si prestò per tutto
il corso del Seicento e per parte del Settecento a numerose e divergenti
interpretazioni; da quelle che concepivano più propriamente la scala come
un’effettiva successione discreta di gradini, ognuno occupato da una
determinata specie, ad altre accezioni più prettamente leibniziane, che
attribuivano alle forme di vita (considerate di varietà infinita) la stessa
funzione degli infiniti punti formanti la continuità di una retta, intendendo
così il lavoro della filosofia naturale come un’eterna e sempre migliore
approssimazione verso il vero.
Anche la dottrina della scala naturae, per quanto fatta propria da gran parte
del meccanicismo creazionista, presentava comunque in sé alcuni aspetti
difficilmente conciliabili con quest’ultimo, contribuendo infine alla crisi
della concezione meccanicistica della natura che si verificò verso la fine del
XVII secolo (Mondella, 1970, p. 220).
All’interno di un contesto storico caratterizzato da una vera e propria
effervescenza intellettuale (e da grandi contrasti) quale fu il Seicento in
Europa, va collocata la realtà del panorama scientifico italiano, tema quanto
mai controverso ed ancora non del tutto chiarito.
Per quanto, infatti, appaia evidente l’importanza assunta dalla controriforma
cattolica nell’instaurarsi di un difficile rapporto tra attività scientifica e
cultura religiosa nel nostro paese, lo stato di arretratezza della scienza in
Italia a partire dal XVII secolo in avanti è un problema tuttora assai
dibattuto, sulle cui cause sono state avanzate più ipotesi fra loro divergenti.
Se infatti per Ben-David le ragioni della decadenza scientifica italiana
furono principalmente economiche e sociali, prima che ideologiche o