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Introduzione
Una delle premesse al funzionamento di qualsiasi sistema democratico che
meriti tale definizione è la presenza e l‟attività di una stampa (e di un sistema
d‟informazione in generale) autonoma e indipendente. Tale attività consiste
essenzialmente nell‟informare i cittadini, i quali fanno affidamento su tali mezzi
d‟informazione per separare la realtà tangibile e “oggettiva” (concetto di non facile
definizione, come vedremo) dalle supposizioni, dalle opinioni, dalle sempre più
sofisticate strategie di public relations e spin doctoring messe in atto dalle fonti ed
essere così in grado di formarsi un‟opinione critica e autonoma. E‟ proprio questa la
base del rapporto fiduciario che costituisce l‟essenza del giornalismo in senso
generale, da quello della carta stampata, a quello televisivo, ai media on-line: esso
fornisce i modelli interpretativi che ci permettono di organizzare e dare un senso alla
realtà che viviamo quotidianamente. Parallelamente a questa funzione, o meglio in
conseguenza imprescindibile di essa, il giornalismo e i mezzi di informazione sono
stati storicamente considerati i depositari di quel “quarto potere” che garantisca un
controllo attivo e critico sull‟operato dell‟elite al potere e tuteli così il funzionamento
della democrazia, garantendo lo svilupparsi all‟interno della società di un dibattito
reale, razionale e il più pluralistico possibile (Grandi 2008).
Nel sistema americano in maniera particolare, tale funzione di watchdog svolta
dai mezzi d‟informazione è da sempre ritenuta fondamentale e tenuta nella massima
considerazione, prevista dagli stessi Padri Fondatori e celebrata nelle spesso citate
parole di Thomas Jefferson in una lettera all‟amico Edward Carrington (citato in
Sharp e Kiyan 2007, 1):
The basis of our governments, being the opinion of the people, the very first object should be to keep it
right, and were it left to me to decide whether we should have a government without newspapers or
newspapers without government, I should not hesitate a moment to prefer the latter.
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Negli Stati Uniti, l‟informazione indipendente ed imparziale è infatti considerata
uno dei cardini del sistema dei checks and balances sul quale è imperniata la
democrazia della principale superpotenza del mondo contemporaneo, il cui sistema si
è tanto spesso autoproclamato guida e modello da prendere ad esempio. Diventa
quindi cruciale il rapporto tra gli attori politici e i newsmakers, tra la sfera politica e
la sfera dell‟informazione, specialmente in situazioni di conflitto internazionale,
quando la necessità di avere il consenso e l‟appoggio dell‟opinione pubblica è tale da
spingere per il suo conseguimento all‟uso di mezzi definibili quantomeno al limite
del lecito. Da sempre infatti, chi è al potere e decide di impegnarsi in una guerra sente
la necessità di giustificarla con motivazioni il più possibile plausibili ed accettabili
agli occhi dell‟opinione pubblica (Grandi 2008). La guerra diventa pertanto un vero e
proprio “prodotto”, vendibile attraverso tecniche e metodi mutuati dal marketing.
Vedremo come, in particolare dopo gli attentati dell‟11 Settembre 2001 a New York
con la conseguente proclamazione della “guerra al terrorismo” da parte
dell‟Amministrazione Bush, il Governo degli Stati Uniti abbia adottato tecniche di
“marketing della guerra” sempre più spregiudicate e spesso ai limiti della legalità,
arrivando all‟uso deliberato e consapevole di informazioni false (ibidem).
Ecco quindi che il ruolo di “cane da guardia” dell‟informazione diventa, in un
mondo dove le tecniche delle public relations, del news management e dello spin
doctoring (fenomeni che esamineremo meglio in seguito) sono in continua
evoluzione, ancora più indispensabile per permettere al cittadino di orientarsi e
formarsi un‟opinione autonoma e consapevole.
In queste pagine, analizzerò in particolare quello che è ormai possibile
considerare come uno dei più grandi fallimenti dell‟informazione statunitense
(concentrandomi in particolare sulla stampa) nel suo ruolo di watchdog della
democrazia: la copertura che le due principali testate americane, «The New York
Times» e «The Washington Post», hanno effettuato a riguardo dell‟issue che ha
dominato il dibattito politico internazionale tra l‟autunno del 2002 e la primavera del
2003: il possesso da parte dell‟Iraq di Saddam Hussein di armi di distruzione di
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massa e la conseguente necessità di un intervento armato per rimuovere tale
minaccia. Ho parlato senza mezzi termini di “fallimento” degli organi d‟informazione
citati in quanto sia «The New York Times» che «The Washington Post» hanno
pubblicato (rispettivamente in data 26 Maggio e 12 Agosto 2004) due editoriali che
recitano una sorta di mea culpa scusandosi con i lettori per il proprio operato: in
sostanza, per non aver sufficientemente verificato le informazioni che venivano
fornite dalle fonti (per la stragrande maggioranza dalla stessa Casa Bianca), per aver
praticamente ignorato le voci (numerose come vedremo) in qualche maniera
discordanti con la versione ufficiale dell‟Amministrazione lasciando che questa
rimanesse pressoché incontestata, per esser in ultima analisi venuti meno al proprio
fondamentale compito di garantire un‟informazione pluralista e il più “obiettiva”
possibile (concetto, come vedremo, estremamente dibattuto e contestato). «The
Washington Post» definisce il proprio operato «strikingly one sided at times»
1
,
mentre «The New York Times» dichiara «Looking back, we wish we had been more
aggressive in re-examining the claims as new evidence emerged – or failed to
emerge»
2
. Tali articoli, che esamineremo più dettagliatamente in seguito, vengono
pubblicati quando diventa effettivamente difficile continuare a credere nelle verità
della Casa Bianca riguardanti il presunto arsenale iracheno e anche l‟opinione
pubblica sembra “risvegliarsi” dall‟accettazione pressoché incondizionata della
versione e dell‟“inquadramento” della vicenda fornito dall‟Amministrazione Bush.
Torneremo in conclusione su questo aspetto, per ora basti ricordare che secondo un
sondaggio Gallup
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del Febbraio 2002 ben l‟82% degli americani definiva l‟Iraq
«malvagio».
L‟obiettivo di questa analisi è quello di comprendere le motivazioni sottostanti
all‟operato così apertamente negligente e di parte (per loro stessa ammissione) dei
due quotidiani leader degli Stati Uniti, due simboli della carta stampata presi spesso
come modello, riferimento e fonte da altre testate sia americane che internazionali.
1
The Post on WMD‟s: An Inside Story, «The Washington Post» 12 Agosto 2004.
2
The Times and Iraq, «The New York Times», 30 Maggio 2004.
3
Integralmente consultabile su www.gallup.com .
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Dopo una prima parte dedicata ad esaminare il cruciale rapporto tra il
giornalista, le sue fonti, il pubblico destinatario e il complesso processo di
newsmaking, verranno analizzate le modalità con le quali i due giornali in esame
hanno riportato e inquadrato le dichiarazioni dell‟Amministrazione Bush a riguardo
della presenza di armi di distruzione di massa in suolo iracheno, i frames che sono
stati utilizzati nel descrivere il dibattito, lo spazio e la rilevanza concessi o meno a
punti di vista esterni e alternativi. Verranno trattati tutti gli aspetti della questione e le
possibili spiegazioni: l‟eccessivo affidamento a fonti ufficiali, i rapporti tra la Casa
Bianca e i giornalisti, l‟uso di leaks (soffiate) e fonti anonime, le esigenze produttive
e le necessità commerciali dei newsmakers (mai dimenticare che una notizia è in ogni
caso un prodotto da vendere), la ricerca del sensazionalismo, le pressioni
dell‟Amministrazione, la paura dei giornalisti di venire etichettati come antipatriottici
o di vedersi negare l‟accesso. Cercherò di mettere in luce i motivi che hanno spinto
questi organi di informazione ad accettare passivamente la versione ufficiale della
vicenda e a farle eco durante tutti i mesi preparatori al conflitto, riproponendola in
maniera continua e acritica.
Ciò di cui stiamo parlando è, in ultima analisi, l‟obiettività e il perseguimento di
essa. L‟obiettività, fondamento dell‟etica del giornalismo fin dalle sue origini, porta
con sé un rischio potenzialmente devastante, come sottolinea Brent Cunningham
(2003) nel suo articolo Re-thinking Objectivity: quello di rendere i giornalisti semplici
riceventi di notizie, piuttosto che investigatori disposti a scomodarsi per la ricerca
della verità. L‟attaccamento all‟obiettività indurrebbe una sorta di pigrizia
nell‟operato del giornalista, a scapito ovviamente dell‟effettiva analisi e
comprensione di ciò che viene riportato. L‟operato degli organi d‟informazione
americani nell‟autunno del 2002 e nei primi mesi del 2003 può apparire più come una
collezione di dichiarazioni ufficiali che come un‟indagine approfondita e critica delle
informazioni “seminate” dalle fonti. Diventa quindi necessaria una sorta di nuova
definizione del concetto di obiettività, incentrata sulla nozione di competenza del
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giornalista, tale che non gli impedisca di adempiere al fondamentale compito di tutela
e salvaguardia della libertà d‟informazione di ogni cittadino.
L‟importanza di tale dibattito è cruciale, così come sono vitali le modalità con le
quali il mondo del giornalismo saprà rispondere o meno alle domande e alle critiche
che esso evidenzia. In palio c‟è la credibilità, la fonte di quel patto di fiducia con il
pubblico che rende il giornalismo unico e insostituibile come forza sociale in grado di
costruire l‟identità di una comunità (Sorrentino 2002).
Dal punto di vista metodologico, il mio lavoro è basato su un analisi quantitativa
e qualitativa degli articoli pubblicati da «The New York Times» e «The Washington
Post» in un periodo che va dal Settembre 2002 al Maggio 2003, recuperati
elettronicamente tramite l‟archivio LexisNexis Academic.
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1. Il giornalismo: la ricostruzione della realtà
Dal momento in cui l‟analisi che verrà proposta in queste pagine è basata
sostanzialmente su un esame di articoli di giornale, vale a dire di un prodotto finito
del processo giornalistico, mi sembra importante innanzitutto dare uno sguardo
panoramico alle caratteristiche, alle funzioni e alle modalità operative di ciò che
chiamiamo comunemente giornalismo.
Riprendendo la definizione che ne dà Sorrentino, possiamo descrivere il
giornalismo come un «prodotto culturale realizzato attraverso una fitta negoziazione
che avviene e si definisce in specifici contesti sociali» (Sorrentino 2002, 9). Tale
definizione evidenzia due caratteristiche fondamentali: la «trattativa» tra i diversi
attori che sta alla base del processo giornalistico e la funzione di «ricostruzione» della
società da esso operata, sulla base di un sistema di valori e concetti che sono
condivisi da tutti i membri di una data società. Intervenendo su una realtà già
costruita da altri attori, il giornalismo attua una sorta di «oggettivazione di secondo
grado» arrivando a ri-definire gli eventi costruendoli in funzione di una dimensione
pubblica e collettiva (ibidem, 22).
1.1 Un processo negoziale: attori, rapporti e dipendenze
Appare pertanto già evidente che pensare al giornalismo come ad un fedele
specchio della realtà è un approccio fuorviante: essendo un processo comunicativo, è
come prima cosa una semplificazione di essa, una sintesi resa necessaria in primo
luogo dal processo di selezione di fatti ed eventi (Sorrentino 2002). Tale selezione, al
contrario di ciò che si è portati a pensare, non è di esclusiva competenza e
responsabilità del giornalista: è il sistema sociale nella sua interezza infatti che
contribuisce a stabilire che cosa “fa notizia” e a definire le modalità con cui viene
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rappresentato (ibidem). E‟ proprio a questo proposito che si parla di giornalismo
come di un processo negoziale, i cui attori coinvolti sono:
Le fonti d‟informazione
I mediatori d‟informazione, cioè le organizzazioni giornalistiche
I riceventi, vale a dire la sfera pubblica
L‟ordine con cui ho elencato questi tre elementi non deve indurre a pensare ad
un processo di tipo lineare e univoco, al contrario, l‟interazione tra di essi è di tipo
circolare, data la presenza di numerosi elementi di feedback che li rendono legati e
dipendenti l‟uno dall‟altro. Tale processo di negoziazione è in continua evoluzione, e
il modo in cui rapidamente si ridefinisce non può fare a meno di condizionare il
comportamento di ogni attore, che agisce sempre tenendo conto del contesto in cui
opera (ibidem). Il complesso rapporto che lega questi tre attori seleziona e dà forma
ai contenuti che si vogliono esprimere con l‟atto comunicativo, tuttavia, dati i limiti
spazio temporali di ogni tipo di comunicazione, l‟esito di tale negoziazione non può
che produrre una ri-costruzione della realtà e non un suo fedele rispecchiamento
(ibidem).
1.1.1 Le fonti: ruoli e caratteristiche
Analizziamo più da vicino l‟elemento dal quale le organizzazioni di news
making dipendono per la loro ricerca di informazioni e notizie: le fonti. Per fonte
intendiamo qualsiasi attore sociale che, in qualità di membro e rappresentante di
gruppi o organizzazioni più ampie (o anche di settori della società) fornisce
informazioni (Sorrentino 2002). Nell‟ambito della negoziazione, ogni fonte è dotata
di un potere «contrattuale», e mette in campo strategie mirate ad aumentare tale
potere allo scopo di ottenere un maggiore e più agevole accesso ai media (ibidem).
Tale accesso è l‟obiettivo della strategia della fonte, inoltre, dato che ogni evento
assume un senso solo se inserito in un sistema sociale di valori condiviso dall‟intera
comunità, diventa fondamentale per le fonti saper costruire una propria identità a
partire dalla quale organizzare gli eventi che la riguardano in maniera coerente con
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essa (ibidem). Si tratta, in altre parole, di essere in grado di individuare quelle cornici
interpretative (i cosiddetti frames) che possono venire utilizzate per descrivere la
situazione e «calibrare» le informazioni da fornire ai mediatori in funzione della
propria identità e della propria strategia di comunicazione. Questo meccanismo
riguarda molto da vicino la mia analisi, in quanto vedremo come l‟uso dei sofisticati
meccanismi di public relations e spin doctoring da parte dell‟Amministrazione Bush
sia stato determinante nel permettere all‟elite governativa di inquadrare la questione
delle armi di distruzione di massa all‟interno dei frames che meglio rispondevano ai
propri scopi.
Una fonte può essere notevolmente facilitata nel promuovere la propria strategia
dallo “status” di cui gode presso le organizzazioni giornalistiche, che giudicano le
fonti in base a criteri ben precisi. In particolare, Gans (1979, in Sorrentino 2002, 127)
individua quattro criteri in base ai quali le fonti vengono valutate dai news media:
Autorevolezza: spesso, il grado d‟importanza di una notizia dipende
dall‟autorevolezza della fonte da cui proviene. Per fonti “autorevoli” si
intendono ovviamente quelle che ricoprono posizioni ufficiali d‟autorità e
responsabilità, è importante inoltre notare che tale valore è anch‟esso
continuamente negoziato dalla comunità in base alle trasformazioni politiche,
sociali e culturali che investono la società.
Produttività: la capacità di fornire informazioni in maniera costante e rapida è
un importante criterio che una fonte che aspira ad ottenere un certo grado di
visibilità deve soddisfare.
Attendibilità: se la fonte si dimostra attendibile, richiederà col tempo sempre
minori procedure di verifica diventando essa stessa una garanzia del lavoro del
giornalista.
Credibilità: le notizie devono essere presentate dalla fonte in maniera
“credibile”, nel senso che non devono venire esaltati solo determinati aspetti o
alcuni protagonisti della vicenda.