stesso tempo anche la società si insinua nell’ambiente mediatizzato
influenzandone il linguaggio, le scelte, la realtà. Obiettivo del testo è analizzare
questa bilaterale influenza, questo continuo scambio tra realtà sociale e realtà
mediatizzata ; valutare cioè in che misura il linguaggio televisivo e il modo di fare
televisione sia cambiato per meglio adattarsi ai cambiamenti e alle evoluzioni
della società, e quanto invece la stessa società abbia subìto l’influenza della
televisione e sia stata indotta ad accelerare determinati meccanismi di evoluzione.
Il mio studio parte dal processo comunicativo e dalla scienza del linguaggio in
quanto la televisione instaura un processo comunicativo con i telespettatori
usando un linguaggio fatto di parole, segni e immagini. Sulle immagini,
caratteristica distintiva della tv, mi soffermerò sia nel quarto paragrafo del primo
capitolo, dedicato alla comunicazione non verbale, che nel primo paragrafo del
terzo capitolo. Ho ritenuto opportuno esaminare brevemente i caratteri distintivi
dei tre media per eccellenza: tv, radio e carta stampata, per spiegare anche i motivi
che mi hanno indotta a scegliere come oggetto di studio proprio la televisione. Nel
secondo capitolo considero la televisione dal punto di vista economico e
tecnologico, soffermandomi sui concetti di palinsesto, pay tv, pay-per-view, video
on demande, alta definizione, televisione digitale e I-tv. I capitoli terzo e quarto
sono dedicati all’esplorazione delle caratteristiche generali (cap. III) e particolari
(cap. IV) del linguaggio televisivo. Il capitolo terzo mira ad evidenziare le
caratteristiche generali che inevitabilmente si ritrovano in quasi tutti i prodotti
televisivi: sentimentalismo, spettacolarizzazione, violenza. Il capitolo quarto è un
viaggio attraverso le trasmissioni televisive italiane cercando di estrapolare da
ognuna caratteristiche comuni e differenze che fanno di ogni linguaggio usato un
linguaggio unico. Infine, come già accennato in precedenza, porrò l’accento sui
cambiamenti e le evoluzioni che ha subìto la società italiana dal momento in cui la
televisione ha fatto la sua comparsa, e sull’influenza che la società ha esercitato
sul linguaggio televisivo, portandolo a cambiamenti più o meno considerevoli. La
seconda parte di quest’ultimo capitolo è dedicata alle tesi che Meyrowitz ha
delineato su questo argomento, spostando l’oggetto di studio dalla società
americana di M., alla società italiana, cercando analogie e differenze. Ho scelto gli
studi di J. Meyrowitz perché li trovo sorprendentemente attuali e riconducibili in
maniera quasi perfetta non solo all’esperienza italiana, ma a quella di tutte le
società mediatizzate. Le novità auspicate da M. nel 1984 (anno in cui il testo è
stato divulgato) si sono realizzate anche in Italia seppur in circostanze e tempi
diversi rispetto all’America. La tesi si conclude con due appendici che ritenevo
necessarie: la prima è una sorta di mini dizionario dei nuovi termini che i media,
soprattutto la televisione, hanno contribuito a diffondere; la seconda è una
cronistoria degli avvenimenti, delle novità e delle trasmissioni che hanno colorato
il panorama televisivo italiano. Il testo nel suo complesso analizza aspetti
generali, contenuti e impatto sociale della televisione italiana dal 1954 ad oggi; le
novità tecnologiche, le trasmissioni più indicative, quelle che adottano stili e
schemi nuovi (tanto da essere classificate fra le trasmissioni della new television),
i personaggi, le situazioni, gli eventi condiscono il tutto. Il testo si ferma all’anno
2000, precisamente 14 settembre 2000; in questi casi la data esatta è importante
perché in materia di televisione le cose possono cambiare da un momento
all’altro; cambiano gli scenari tecnologici, cambiano i personaggi, cambia il
pubblico e non si può mai bene indovinare che cosa ci riserverà il futuro. Forse ci
stancheremo tutti un giorno e rimetteremo su quel mobiletto di legno di nuovo la
brava, vecchia radio; proprio come l’anziana signora umbra che morì
abbracciando la sua radiolina avvolta da un rosario; non aveva mai voluto
acquistare un televisore perché non poteva sopportare tutti quei rumori, vestiti e
colori in casa sua…e pensare che quasi nessuno riesce più a farne a meno!
CAP I . IL LINGUAGGIO
1. Il processo comunicativo
Comunicare altro non vuol dire che rendere trasmissibile un’idea, una conoscenza,
una notizia di un evento. Definiamo allora un processo comunicativo come il
passaggio di un segnale da una fonte, attraverso un trasmettitore, lungo un canale,
ad un destinatario (o punto di destinazione). Seguendo questa definizione di
Umberto Eco, possiamo individuare il modello elementare del processo
comunicativo che, schematizzato, prevede cinque elementi: emittente, canale,
codice, messaggio, destinatario. Il modello elementare di un processo
comunicativo prevede una fonte o sorgente di eventi possibili dalla quale,
mediante un apparato trasmittente, viene emesso un segale che, viaggiando lungo
un canale, arriva ad un apparato ricettore il quale lo presenta, sotto forma di
messaggio ad un destinatario
1
. La risposta del destinatario è resa possibile dal
fatto che sia esso che la trasmittente emettono e ricevono i segnali convenzionati
sulla base di un codice. La decodifica è un momento molto importante, è un
processo complesso in cui giocano le disposizioni del destinatario, la circostanza
in cui riceve il messaggio, il contesto in cui esso si inserisce, il sistema di attese
culturali e psicologiche che determina la scelta di un codice. A questo punto,
1
Gianni Faustini, Le tecniche del linguaggio giornalistico, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995
facendo riferimento ai diagrammi dello Schramm, distinguiamo due tipi di
comunicazione che si alternano e si ripetono nella vita quotidiana dell’uomo
contemporaneo: a) i rapporti di comunicazione interpersonali o di gruppo; b) i
rapporti di comunicazione in presenza dei mass media. Il primo diagramma,
relativo alla comunicazione interpersonale o di gruppo, prevede che l’emittente
esprima l’intenzione di dare inizio ad un rapporto di comunicazione, strutturando
un messaggio cercando cioè di rendere trasmissibile l’idea attraverso un codice ed
un canale. Per canale s’intende un mezzo di propagazione di natura fisiologica,
tecnologica o fisiologica e tecnologica insieme, che consenta al messaggio di
passare dal momento ideativo o conoscitivo (informazione) al momento
espressivo (comunicazione)
2
. Si intende, invece, per codice quel complesso di
segni, convenzionalmente stabilito, che consente ad un messaggio di
rappresentarsi come identità espressiva nel rapporto fra emittente e ricevente: in
altri termini, il linguaggio. Per definire compiuto uno schema di comunicazione
sociale, però, è necessario che si verifichi il feedback, o messaggio di ritorno, che
si manifesta allorché il ricevente, dopo aver decodificato ed interpretato il
messaggio ricevuto fornisce la propria risposta. Il secondo diagramma riportato
dallo Schramm è riferito ad un processo comunicativo che non vede più soltanto
interazione fra due o più persone, ma che coinvolge il gruppo facendogli assumere
un ruolo. I ricettori dei messaggi sono considerati nella loro veste di lettori,
ascoltatori, telespettatori, cinespettatori e così via. Tralasciamo i canali e i codici
2
Gianni Faustini, Le tecniche del linguaggio giornalistico, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995
di questo tipo di comunicazione, per soffermarci sul feedback. Attualmente si
parla molto di televisione interattiva, ma in realtà è più una fantasia che una realtà.
Gli unici momenti di scambio fra emittente e ricevente (nel caso della
comunicazione di massa) restano i sondaggi, le rilevazioni statistiche, le ricerche
di mercato, la corrispondenza dei lettori e le telefonate degli ascoltatori. Anche
perché alla fin fine anche la comunicazione televisiva che simula un dialogo
grazie alla presenza in studio o in teatro del pubblico, non garantisce un feedback
vero e proprio.
2. La scienza del linguaggio: la semiotica
La scienza che studia l’evoluzione dei linguaggi è la semiotica, il cui ambito di
ricerca è il segno, ogni cosa cioè che possa essere assunta come simbolo di
qualcos’altro. La parola semiotica deriva dal greco semeion che ha diverse
accezioni, vari significati: segnale, indizio, traccia, segno premonitore di qualcosa,
insegna, arma, confine fisico, sintomo (dal linguaggio medico), presagio,
miracolo, prova, testimonianza, argomento. Sono accezioni ancora correnti e
dimostrano che il significato della parola segno è ricco di sfaccettature
3
. Da
semeion, dal verbo semeiò, da semeiosis che vuol dire segnalazione,
dall’aggettivo semeioticos che significa relativo ai segni, deriva la parola
semiotiché ossia semiotica. Di solito si distingue fra semeiotica e semiotica, due
3
F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979.
parole che, pur provenendo dalla stessa base, hanno accezioni e ambiti diversi. La
semeiotica appartiene al campo medico e si occupa di diagnosticare malattie in
base a segni, in base a sintomi; la semiotica, invece, si occupa di sistemi di segni
culturali (segni che hanno luogo entro processi culturali), dove per cultura
intendiamo tutto quello che non compare nel nostro codice genetico e quindi non
dipende dalla base biologica ma che ha radici nella storia ed è costruito dalla
società. Secondo alcuni studiosi la semiotica si interessa anche di sistemi
comunicativi all’interno del nostro codice genetico, ma noi ci occuperemo della
semiotica in ambito culturale. Spesso si trova la parola semiotica in alternativa
alla parola semiologia (logos dal greco).Alcuni distinguono fra questi due termini,
ma in italiano si considerano sinonimi. La parola semiotica viene rispolverata in
un periodo preciso della cultura occidentale, nella seconda metà del seicento,
quando due filosofi, G.W. Leibniz e J. Locke, introducono e teorizzano un
processo della conoscenza in ambito semiotico. Leibniz scrisse intorno al
problema del linguaggio, interessandosi allo studio di lingue diverse, di dialetti, di
etimologia, di informatica, dimostrando una passione sviscerata per tutto ciò che
era segno. In alcune sue pagine troviamo la prima teorizzazione sul modo di
pensare semiotica, elencò sistemi di scrittura, lingue segrete, cifrate, ecc.
affermando che tutti questi sistemi sono imparentati perché appartengono alla
stessa definizione di segno (ciò che sta per qualcos’altro per qualcuno in certe
circostanze)
4
. A Leibniz dobbiamo l’intuizione che si poteva applicare la parola
4
Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975.
segno ad una moltitudine di significati. Lo studio di Locke, invece fu tutto
incentrato sul linguaggio che è visto non semplicemente come strumento del
pensiero, ma come elemento essenziale, indispensabile; in altre parole senza il
linguaggio i meccanismi del pensiero non si mettono in moto. Il terzo libro della
sua opera in quattro volumi, Saggio sull’intelletto umano, è dedicato al
linguaggio. Introduce il termine semiotichè che definisce “dottrina dei segni”,
sostenendo che poiché la parte più consistente di essa è costituita da parole, la
provenienza della gran parte delle operazioni dei pensieri è da attribuire alla
semiotichè. Negli anni sessanta e settanta dell’ottocento, due pensatori Peirce e
Saussure, attuano una svolta decisiva; essi sono i fondatori della semiotica così
come noi la intendiamo oggi. Peirce è un filosofo che si inserisce nel pragmatico,
attribuendo un valore d’azione ai processi intellettualizza semiotica che parte da
Peirce risente di questa impronta: tutto ciò che vedo, ogni processo comunicativo,
è sottoposto ad un processo interpretativo. Secondo P. un segno è qualcosa che sta
per qualcuno al posto di qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità. Saussure,
invece, era un linguista, un glottologo di formazione. Insegnava linguistica, ma
sentiva che la materia gli si rimodellava fra le mani, così decise di dedicare gli
ultimi anni della sua vita a lezioni in cui erano inserite le sue ricerche. Nel
paragrafo trentatré del suo libro “Corso di linguistica generale” , scritto da due
suoi allievi, troviamo l’annuncio di una nuova scienza: “Si può dunque concepire
una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe
formare una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia
generale; noi la chiameremo semiologia. Essa potrebbe dirci in che consistono i
segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora non possiamo dire che
cosa sarà; essa ha tuttavia il diritto di esistere e il suo posto è determinato in
partenza. La linguistica è solo una parte di questa scienza generale, le leggi
scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla linguistica e questa si troverà
collegata ad un dominio ben definito nell’insieme dei fatti umani”. La semiologia
è una scienza ampia che ha per oggetto tutti i sistemi di segni e la linguistica ne è
solo una parte, così come lo è la prossemica. La semiotica è la cornice di varie
discipline, è il lavoro di un gruppo, di una équipe. Dobbiamo a Saussure l’aver
identificato questa disciplina “cornice”. Terzo momento saliente nella storia della
semiologia, è un’opera pubblicata nel 1938 da Morris, intitolata “Fondamenti
della teoria dei segni” , facente parte di una collana per il movimento dell’unità
della scienza. Morris scinde la semiotica in tre grandi campi: a) la sintattica; b) la
semantica; c) la pragmatica. La sintattica studia le combinazioni possibili fra i
segni, i diversi modi in cui essi possono significare combinandosi l’uno con
l’altro. In sintesi si occupa dei rapporti che i segni contraggono fra di loro. La
semantica si occupa del significato vero e proprio dei segni e dei rapporti fra il
segno e l’oggetto al quale rinvia. Si occupa dei segni e dei loro significati. La
pragmatica studia l’uso sociale dei segni e i modi in cui essi vengono
concretamente usati, magari indipendentemente e contraddittoriamente rispetto al
loro significato originario; si pensi all’uso del dito alzato contro il cielo: se questo
segno è usato da un sacerdote è evidente il richiamo a Dio, ha significato di
vittoria se usato da un calciatore su un campo da gioco. I tre campi della semiotica
distinti da Morris rappresentano tre modi complementari per addentrarsi nei
sistemi dei segni; il valore di un segno dipende dal gioco complementare di questi
tre campi, distinzione quindi enormemente fruttuosa. A partire dagli anni sessanta
si formarono due scuole: quella di Umberto Eco che si rifà più a Peirce e quella di
Tullio De Mauro che, avendo una matrice più linguistica, si ispira
prevalentemente a Saussure.
3. Linguaggio verbale e non verbale
Per linguaggi non verbali si intendono quei sistemi e mezzi della comunicazione
diversi dal sistema linguistico-verbale, ovvero che utilizzano la lingua e la parola
quale parte, non esclusiva, del processo comunicativo. Tra i sistemi di segni non
verbali rientrano principalmente quelli che utilizzano i segni iconici, i mezzi
espressivi dell’immagine. Rientrano nel campo dei linguaggi non verbali
numerosi sistemi comunicativi, con una più o meno forte accentuazione
tecnologica. Dalla grafica alla pittura, all’illustrazione, al cinema, al fumetto, alla
tv, alla computer graphic, videografica o infografica. Insomma, il mondo intero
comunica con le parole e non solo, attraverso vari segnali: movimenti del corpo,
gesti, espressioni, atteggiamenti; i cosiddetti fenomeni paralinguistici, voce, pause
e silenzi, suoni non verbali come ridere, sbadigliare, borbottare; la posizione nello
spazio, la cosiddetta prossemica, cioè lo studio delle distanze che si tengono fra le
persone a seconda del tipo di conversazione e del grado di intimità; gli odori,
studiati dall’olfattorica; il modo in cui l’umanità maschera il corpo, vestiti,
pettinature, piercing, tatuaggi: linguaggi a tutti gli effetti. Fulcro della
comunicazione non verbale è dunque il corpo. In generale è corretto affermare che
il linguaggio non verbale è protagonista nei rapporti fra le persone e
principalmente nelle comunicazioni “faccia a faccia”. Quando interagiamo con
qualcuno, senza neppure rendercene conto la nostra sensibilità reagisce ai segnali
trasmessi dal comportamento dell’altro. Nei rapporti interpersonali ci basiamo più
di quel che non crediamo su questo tipo di impressioni che provengono
dall’espressività non verbale, volontaria o involontaria. La televisione dà grande
visibilità all’espressività involontaria attraverso i primi piani, i dettagli, la regia, il
montaggio; tutto concorre a mettere in evidenza i segnali espressivi. Da questo
punto di vista, la televisione risulta essere il più potente media proprio perché si
avvale delle immagini veicolo essenziale per attivare una comunicazione non
verbale. Sul tema dell’immagine, della forza delle immagini televisive, mi
soffermerò nel capitolo terzo analizzando le caratteristiche peculiari del
linguaggio televisivo. Tornando al linguaggio non verbale, è bene ricordare che
solo la televisione è in grado di trasmettere i segnali espressivi di tutto il corpo
coinvolgendo udito e vista contemporaneamente. Come diremo meglio nel
prossimo paragrafo, in cui si descriveranno in dettaglio le differenze fra i
principali mezzi di comunicazione di massa, la radio e la stampa non possono
mettere in evidenza tutti i segnali espressivi; la radio ci dà notizie sui toni della
voce, sulle inflessioni dialettali, ma non sull’immagine, niente ci dice sulla
postura, sul modo di vestire o gesticolare dello speaker; per quanto ne sappiamo in
una trasmissione radiofonica potrebbero essere tutti in pigiama o senza trucco,
cosa che non potrebbe mai accadere in televisione dove l’immagine è persino più
importante di ciò che si comunica con le parole. Attraverso la stampa i segnali
della comunicazione non verbale non passano affatto. Addirittura Joshua
Meyrowitz afferma che dopo un minuto di televisione riesce a sapere di uno
scrittore come persona più che se avesse letto tutti i libri che ha scritto. In realtà,
più che per i contenuti concettuali, la televisione ha una grande predilezione per la
sfera privata e personale di chi parla: trasmette le sue emozioni, le ritrosie, gli
imbarazzi, cioè fa diventare il personaggio pubblico una persona in carne e ossa.
Proviamo ora ad esaminare in dettaglio i vari canali attraverso cui si snoda la
comunicazione non verbale: la prossemica, la mimica facciale, la gestualità,
l’abbigliamento, la voce e la scelta delle parole.
3.1 La prossemica
Edward T. Hall, l’antropologo della prossemica, ha misurato le distanze che si
stabiliscono fra le persone riuscendo ad individuare quattro zone ben distinte: la
zona intima, la zona personale, la zona sociale ed infine la zona pubblica
5
. La
prima va dallo 0 ai 45 centimetri, una distanza particolarmente ravvicinata che
5
Pietro D’Acunto, Espressione e comunicazione visiva, Morano, Napoli 1991
caratterizza quei rapporti interpersonali particolarmente intimi. La zona personale
è uno spazio compreso fra i 45 e i 120 centimetri e oltrepassarla crea nervosismo e
aggressività. Si pensi alla classica situazione e al classico luogo in cui vediamo
violati i nostri spazi personali, appunto la nostra zona personale, da perfetti
sconosciuti: un autobus affollato. La zona sociale va da un metro e 20 a tre metri e
sessantacinque centimetri che rappresenta la distanza dei rapporti di lavoro e
infine la zona pubblica, infinitamente più vasta che è quella delle conferenze,
degli spettacoli, dei concerti, eccetera. La prossemica, è importante dunque per
stabilire e riconoscere il tipo di rapporto che si instaura con ogni persona
quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, ma è fondamentale anche e soprattutto
in televisione, o durante un’intervista alla radio perché anche se queste distanze
non sono visibili all’ascoltatore radiofonico, sono una realtà per lo speaker e
l’intervistato. Dobbiamo, infatti, ricordare che studi psicosociologici dimostrano
che il tono della conversazione, la scelta di un certo tipo di linguaggio, il
contenuto stesso di un discorso sono fortemente influenzati dalla vicinanza o dalla
distanza degli interlocutori coinvolti nella discussione. Se analizziamo
dettagliatamente, ma non troppo la prossemica adottata da alcuni personaggi
televisivi ci rendiamo immediatamente conto che ognuno di loro, attraverso le
distanze e le vicinanze instaura un diverso tipo di rapporto più o meno
confidenziale con il pubblico a casa e in studio, o nel caso di interviste, con
l’ospite di turno. Santoro ad esempio adotta un atteggiamento di distacco con gli
ospiti e soprattutto con il personaggio centrale delle sue trasmissioni, mandando
un messaggio ben preciso, quello di non voler avere contatti e di volersi quasi
distaccare da ciò che si dice in studio. Funari invece ha un comportamento
opposto, si muove continuamente ed è sempre vicinissimo alla telecamera quasi
per voler a tutti i costi avvicinarsi il più possibile ai telespettatori. Maurizio
Costanzo sposta continuamente il suo sgabello per poter, di volta in volta, essere
fisicamente vicino all’ospite che in quel momento ha preso la parola. La distanza
fra i corpi, dunque, non è un elemento da sottovalutare sia per il telespettatore sia
per chi fa televisione, anzi forse è l’elemento primario che influenza tutta la
visione da casa e la conversazione in studio.
3.2 La mimica facciale
Il volto è uno dei canali più importanti della comunicazione non verbale sia dal
punto di vista puramente fisico sia da quello della mimica facciale. Partiamo
subito dalle caratteristiche fisiche. Non è difficile ammettere che un viso curato,
ben rasato o ben truccato, ci disponga meglio ad una conversazione o all’ascolto
di una conversazione rispetto ad un viso trascurato, magari non proprio
bellissimo. Il telespettatore preferisce guardare persone piacevoli dal punto di
vista fisico e questo non perché la bellezza sia l’unica cosa che conti in
televisione, ma semplicemente perché anche nella vita di tutti i giorni il nostro
corpo rappresenta il primo biglietto da visita, il nostro primo contatto con gli altri.
Attenzione però, bellezza non intesa come perfezione dei tratti somatici, più
precisamente ci risulta bella una persona piacevole, curata, con un sorriso
coinvolgente, con un viso solare. E qui finalmente entra in gioco la mimica
facciale. Le espressioni sono il mezzo attraverso cui comunichiamo stati d’animo,
sensazioni, ed è grazie alle espressioni che anche qualcosa che volevamo celare,
ad esempio una preoccupazione, salta agli occhi di chi ci osserva
6
. Ma se questo
avviene quotidianamente, cosa succede se ci scruta l’occhio attento di una
telecamera? La televisione amplifica le espressioni che comunemente animano il
nostro volto attraverso i primi piani, ad esempio, oppure in fase di montaggio
facendo corrispondere ad una frase di un personaggio, un aggrottare di
sopracciglia di un altro. Leggere il linguaggio del volto non è semplice ma spesso
la televisione aiuta sottolineando delle espressioni e tralasciandone altre, il
difficile è capire se quelle espressioni, anche quelle che ci sembrano così naturali,
sono autentiche o sono frutto di uno studio meticoloso col sol scopo di
persuadere, avvicinare, coinvolgere gli spettatori.
6
Pietro D’acunto, Espressione e comunicazione visiva, Morano, Napoli 1991