1
INTRODUZIONE
La storia dell‟uomo sulla Terra è, in sostanza, la storia del suo problematico
rapporto con la natura del pianeta. Dapprima e per lungo tempo, l‟uomo stesso
non è stato che un elemento come tanti, inserito pienamente nei cicli naturali; in
qualità di cacciatore e di raccoglitore di prodotti selvatici, egli non aveva più
influenza di quanta ne potessero avere gli animali predatori o frugivori. Con
l‟avanzare del processo evolutivo, però, egli cominciò ad introdurre nel suo
rapporto con l‟ambiente naturale delle sottili ma fondamentali differenze.
L‟acquisizione della stazione eretta, la liberazione degli arti superiori per
svolgere funzioni diverse dalla deambulazione, lo sviluppo del cervello e
dell‟intelligenza, l‟organizzazione sociale con la divisione dei compiti tra i sessi,
e, dal punto di vista tecnologico, la scoperta e l‟uso del fuoco, la concezione e
la fabbricazione di armi e utensili, le tecniche per rendere abitabili caverne e
capanne, ecc…, situarono ben presto l‟umanità in una diversa area di sviluppo
adattativo che già ne rendeva l‟impatto sull‟ambiente, se pur ancora nell‟ambito
di un‟economia di caccia e raccolta, ben più effettivo e pesante rispetto a quello
di tutti gli altri esseri viventi.
Il vero salto qualitativo e quantitativo si realizzò qualche migliaio di anni fa,
(intorno al 10.000 a.C.), con la cosiddetta “neolitizzazione”, con la quale l‟uomo
apprese a non dipendere più da ciò che la natura spontaneamente offriva, e a
provvedere invece direttamente, mediante l‟agricoltura e l‟allevamento del
bestiame, alle proprie necessità alimentari e di vita. Con questo passaggio
epocale, l‟umanità si affranca definitivamente dai condizionamenti e dai limiti
imposti dall‟ambiente, e comincia anzi a modificarlo, in modo sempre più
incisivo, a seconda delle proprie esigenze. Abbandonando progressivamente il
nomadismo, l‟uomo si sedentarizza sempre di più e, nel frattempo, il suo
impatto sull‟ambiente comincia a farsi sentire in modo marcato e continuo.
Questo passaggio è di capitale importanza, perché è proprio in tale fase che
l‟uomo intrprende quel percorso di sviluppo che da qui in avanti lo differenzierà
da tutte le altre creature: egli “fuoriesce dai cicli della natura”, cominciando a
modificarla e a distruggerla, seppur su scala ancora ridotta e geograficamente
2
limitata. La terza fase, cioè la svolta successiva e decisiva, è molto più vicina a
noi, e coincide sostanzialmente con l‟avvento delle nuove conoscenze e delle
nuove tecnologie proprie dell'età moderna, in particolare con
l‟industrializzazione del XIX secolo e con tutti i mutamenti da questa introdotti:
urbanizzazione, crescita demografica esponenziale, ricerca continua di nuove
terre e di nuove risorse, conquista e “antropizzazione” totali del pianeta.
Contemporaneamente incominciano anche ad evidenziarsi tutti i problemi e i
risvolti negativi derivanti da tali processi: l‟inquinamento nelle sue varie forme, il
problema dei rifiuti e delle scorie, la diminuzione delle risorse naturali, l‟effetto
serra, ecc…. La cosa preoccupante è costituita dal fatto che, da quando questo
processo si è messo in moto, (appena un paio di secoli fa, un tempo
recentissimo storicamente parlando), esso si è sempre più allargato e
velocizzato, senza che si fosse contemporaneamente fatta strada, se non
proprio una qualche cultura ambientale degna di questo nome (fino a tempi
recenti neppure concepibile), almeno la consapevolezza degli effetti che tutto
ciò andava causando all‟ambiente naturale, e quindi, di ritorno, all‟umanità
medesima.
L‟idea che l‟ambiente avesse e ponesse dei limiti, e la cognizione che tutti gli
esseri viventi fossero interdipendenti tra loro, sono emerse solo molto
recentemente nella cultura umana. La stessa parola “ecologia” fu infatti coniata
dopo la metà dell‟Ottocento, (precisamente nel 1866), dal tedesco Ernst
Haeckel, e il primo parco naturale, (quello di Yellowstone), venne istituito nel
1872. Prima non si ponevano né si intravedevano problematiche ambientali di
sorta!
In fondo il mondo non poteva nemmeno dirsi completamente esplorato, ed
appariva anzi come un‟illimitata terra di conquista per il mondo occidentale, il
quale presumeva di potere e dovere esportare ovunque, nel caso anche con la
forza, la propria cultura e i propri modelli di vita. Prevalevano, e prevalgono
ancor oggi, radicate visioni ottimiste difficili da scalzare: piena fiducia nella
scienza e nella tecnica, viste con assoluto affidamento nelle loro presunte
capacità di risolvere ogni problema, crescita illimitata per tutti, aspettative di un
mondo più ricco, più moderno, più vivibile. Ma è davvero così? Fino a che punto
3
possiamo spingere il nostro attuale paradigma di sviluppo senza che questo,
anziché incrementare il nostro benessere, si ritorca contro di noi? La nostra
pressione sulla natura e sulle risorse e la crescente produzione di scarti ci
fanno pensare che molto probabilmente abbiamo già sorpassato i limiti naturali;
in questo quadro, gli scenari di incremento dei consumi che si stanno profilando
non possono non far aumentare le già forti preoccupazioni per il nostro futuro.
Sono poco più di 6 miliardi le persone che, dal 1999 (secondo stime ONU),
vivono sulla Terra, e che premono sulle sue risorse in maniera molto
differenziata: si calcola che un quinto della popolazione mondiale dispone dell‟
85% delle risorse. Se la totalità della popolazione avesse livelli di consumo e di
tenore di vita pari a quelli che fino ad ora sono stati propri soltanto dei Paesi più
ricchi, il pianeta non reggerebbe. Da ciò emerge un altro punto importante da
considerare, e che fino ad ora ha costituito uno dei maggiori ostacoli alle
iniziative di salvaguardia dell‟ambiente e delle risorse naturali a livello mondiale:
si tratta dell‟impossibiltà di separare i problemi ecologici da quelli legati
all‟ingiustizia sociale, agli squilibri di mercato, alle sperequazioni nei livelli di
reddito; per non parlare del muro cieco costituito da coloro i quali, purtroppo,
non vedono al di là dell‟immediato profitto, del successo personale, e non
sentono ragioni se non quelle del potere e della ricchezza. Costoro non hanno a
cuore il vero benessere che è quello del pianeta intero, nella totalità di tutti gli
esseri viventi che lo abitano, uomo compreso. Come sostiene giustamente
Lester Brown, direttore del Worldwatch Institute, “la salute degli abitanti della
Terra è inscindibile da quella del pianeta stesso”, ed inoltre, la salute di ciascun
essere vivente della Terra è strettamente dipendente da quella di tutti gli altri
esseri viventi, nonché dall‟armonia tra le parti del grande “ecosistema mondo”
nel loro complesso, ivi compresi gli elementi non viventi o sfera abiotica.
(Worldwatch Institute, Lester R. Brown e Altri, State of the world ’00, stato del
pianeta e sostenibilità: rapporto annuale, Milano, Edizioni Ambiente, 2000).
Un‟ulteriore considerazione: siamo ormai talmente abituati a dare come per
scontati sia le nostre abitudini di vita quotidiana, sia i paesaggi quasi totalmente
urbanizzati che ci circondano, che rischiamo di dimenticare che un ambiente
naturale sano e non deturpato è indispensabile, oltre che per il nostro
4
sostentamento (in quanto fonte di risorse), anche per il nostro benessere
psicofisico. Ciò si è reso evidente soprattutto nell‟ultimo ventennio, da quando,
cioè, la vita nelle grandi città è divenuta insostenibile, da quando anche molti
centri medio-piccoli si sono trasformati in agglomerati caotici, e la gente sente il
bisogno sempre maggiore di recuperare il contatto con la natura. Ecco quindi
un motivo in più per proteggere l'ambiente; fermo restando il fatto che esso è un
bene inestimabile che ha valore in sé, in quanto tale, e perciò va tutelato,
indipendentemente da ogni suo eventuale utilizzo.
Quanto detto non significa che lo scopo di questa tesi sia quello di demonizzare
il progresso umano in generale e tutto ciò che di positivo esso produce: non
avrebbe alcun senso, infatti, rinnegare la giusta e innata vocazione dell‟uomo
verso la scoperta e l‟invenzione tese al miglioramento della propria vita.
L‟intenzione è invece quella di dimostrare, attraverso esempi concreti, che
progresso e benessere non sono necessariamente in contrasto con la tutela
ambientale; bisogna solo operare nella giusta direzione, e soprattutto fare in
modo che il buon lavoro svolto da alcuni non venga vanificato dal cattivo
comportamento di altri. Bisogna trovare una “terza via”, ossia un paradigma
economico-politico che non ostacoli il progresso e che nel contempo non sia
distruttivo nei confronti dell‟ambiente: in altri termini, l‟ambiente non deve
essere visto né solamente come risorsa inesauribile da sfruttare come ci pare e
piace, né come un qualche cosa di avulso dalla reltà quotidiana, da proteggere
da tutto e da tutti, da mettere per così dire “sotto vuoto”, in quanto non
costituisce un ostacolo al progresso, bensì un‟opportunità: esso ci mette a
disposizione una gran quantità di risorse e di possibilità, e sta a noi scegliere
l‟opzione giusta.
La mia tesi vuole essere prima di tutto un invito a riflettere sulla situazione
attuale del nostro pianeta, sul modello di sviluppo che abbiamo adottato, sulle
scelte effettuate in vari campi, valutando gli effetti positivi e negativi delle
stesse, e , dove necessario, a mettere in discussione e a ripensare l‟operato
svolto finora. Dopo aver tracciato un quadro generale sul rapporto uomo-
ambiente e un sintetico bilancio sulla situazione delle risorse del pianeta, mi
concentrerò sulla nascita della “coscienza ecologica” e sull‟origine della
5
corrente di pensiero che, a partire dal XIX secolo, ha dato l‟impulso decisivo per
la creazione di parchi e aree protette in tutto il mondo. La mia attenzione sarà
rivolta proprio ai parchi naturali ed alle aree protette in quanto strumenti
previlegiati della tutela ambientale; infatti, le iniziative, i modelli di vita e i sistemi
produttivi, adottati all‟interno di un sempre crescente numero di parchi, fanno sì
che queste aree costituiscano degli ottimi esempi di perfetta e tutt‟altro che
impossibile convivenza armoniosa tra sviluppo e ambiente. Qui, interagendo nel
reciproco rispetto, uomo e natura traggono il meglio l‟uno dall‟altra e insieme
realizzano un modello di “società sostenibile ed eco-compatibile” che sarebbe
auspicabile allargare a contesti sempre più vasti anche al di fuori dei parchi.
Analizzerò la realtà degli Stati Uniti d‟America, che sono stati i primi a muoversi
in questa direzione, fin dal XIX secolo, destinando buona parte delle energie e
delle entrate statali proprio alla salvaguardia di luoghi di particolare interesse
naturalistico e paesaggistico; qui nacquero, nella seconda metà dell‟Ottocento,
il cosiddetto “movimento conservazionista ecologico” e i primi parchi naturali. I
risultati sono stati eccellenti, non soltanto perché si è riusciti a preservare dal
degrado e dalla distruzione vaste aree, tramite la pronta istituzione di parchi
naturali, ma anche perché, grazie ad una efficiente gestione, essi sono divenuti
meta di milioni di turisti provenienti da ogni parte del mondo: si pensi che il
numero di persone che ogni anno visitano i parchi degli Stati Uniti, supera il
numero degli stessi cittadini statunitensi. I parchi statunitensi, infatti, sono dotati
di ottime strutture ricettive, di percorsi di visita mirati e finalizzati alla migliore
fruizione da parte del pubblico, nonché di sistemi di trasporto interno non
inquinanti e non lesivi dell‟ambiente; inoltre, trattandosi di territori molto vasti,
quasi sempre al loro interno sono compresi anche centri e cittadine di un certo
rilievo, i cui abitanti riescono ad essere perfettamente in sintonia con la natura
del luogo e con gli ecosistemi presenti, svolgendo attività economiche
compatibili. Riguardo all‟Europa, ed anche all‟Italia, se fino a pochi anni fa la
situazione poteva dirsi in fase di stallo, ora si sta compiendo qualche timido
passo in avanti. Tratterò in modo particolare la gestione dei parchi istituiti in
zone umide, in quanto tali zone, ospitando ecosistemi rari e delicatissimi,
costituiscono la sfida più ardua dal punto di vista della compatibilità con l‟uomo.
6
Le aree di cui farò menzione sono: Delta del Rodano (Camargue), Delta del
Guadalquivir (Donana), Delta del Reno, e Delta del Danubio, come esempi
europei; Delta del Po e relativo Parco, come maggior esempio italiano e come
realtà regionale viva e varia, promotrice e sperimentatrice di iniziative miranti a
conciliare attività umane e protezione degli ecosistemi locali. La ricerca
scientifica sta fornendo preziosi contributi a questi tentativi di integrazione;
inoltre, sono sempre più numerosi sia le amministrazioni locali che i singoli
disposti ad impegnarsi a questo proposito. La strada da percorrere è ancora
lunga, molti errori sono stati commessi, e a molti di essi non si può più porre
rimedio; ma, come ho ricordato in precedenza, il futuro è una possibilità aperta
e le premesse per una inversione a di tendenza non mancano: sta a noi
cogliere questa opportunità.
7
CAPITOLO I
IL RAPPORTO UOMO-AMBIENTE
8
1. IL NEOLITICO E L’AGRICOLTURA
“Il rapporto tra l‟uomo e l‟ambiente è uno degli oggetti fondamentali di studio
della geografia…sotto termini invarianti si sono celati, oggi e nel passato, una
varietà di atteggiamenti difformi, una molteplicità di posizioni ideologiche e di
metodo, una gamma di livelli di interesse, talvolta acuto, talvolta negato, nelle
ricerche concretamente condotte dai geografi” (Tinacci Mossello M., Geografia
e geonomia: nuovi problemi del rapporto uomo-ambiente, in: Bollettino della
Società geografica Italiana, n° 10-12-1987, Roma Società Geografica Italiana,
1987, pag. 433).
L‟analisi da me svolta sul rapporto uomo-ambiente segue contemporaneamente
due diversi punti di vista che sono complementari l‟uno all‟altro e indispensabili
per la comprensione di questo argomento. Si metterà di volta in volta in
evidenza:
- come l‟uomo agisce sull‟ambiente e lo modifica attraverso lo svolgimento
quotidiano delle proprie attività (costruendo centri abitati e strade,
procacciandosi il cibo, coltivando i campi, abbattendo boschi, ecc…), e
come egli trasforma la natura a seconda delle proprie esigenze;
- come l‟uomo percepisce l‟ambiente e come considera la natura “selvaggia”
non ancora modificata dalla propria azione.
La cosiddetta “rivoluzione neolitica” o “neolitizzazione” ha segnato l‟inizio
dell‟impatto umano sull‟ambiente. Questo si verificò all‟incirca 10.000 anni fa in
Medio Oriente e in Cina, e probabilmente qualche migliaio di anni più tardi in
America, in quel periodo che è chiamato Neolitico o “tarda età della Pietra”:
l‟uomo abbandonò la vita nomade basata sulla caccia e sulla raccolta, ed ebbe
inizio quella che oggi viene definita “Rivoluzione Agricola”, con lo sviluppo di
insediamenti stabili e con il primo utilizzo di recipienti in terracotta per la cottura
e la conservazione dei cibi. Ciò non significa che la raccolta di frutti spontanei
non fosse più praticata in assoluto, ma solo che questa attività divenne
secondaria rispetto all‟agricoltura, la quale garantiva la maggior parte del cibo.
Così come l‟agricoltura prevalse sulla raccolta, l‟allevamento prevalse sulla
caccia degli animali selvatici e sulla pesca. Allevando gli animali, l‟uomo poteva
9
disporre di una riserva di cibo praticamente sicura e garantita in ogni periodo
dell‟anno e inoltre aveva la possibilità di controllarne il numero facendoli
riprodurre in cattività. Poteva anche operare una selezione conveniente degli
animali da uccidere: ad esempio, evitando di uccidere le femmine gravide o gli
esemplari troppo giovani, cosa che non era possibile fare cacciando. Anche la
coltivazione forniva notevoli vantaggi rispetto alla raccolta: si poteva
concentrare il cibo in un determinato territorio a seconda di quanto risultava
conveniente in quel momento; si aveva inoltre la possibilità di operare una
selezione delle varietà da mettere a coltura e si poteva preventivare un surplus
di prodotto da mettere da parte come riserva in caso di necessità.
La nuova condizione stimolò l‟ingegno dell‟uomo il quale sfruttò le conoscenze
pregresse per un cambio radicale di stile di vita. Con l‟agricoltura e con
l‟allevamento, l‟uomo sfuggì, per così dire, ai limiti imposti dall‟ambiente e fu
allora che smise di vivere in armonia con la natura e secondo i ritmi da essa
imposti. L‟uomo iniziò ben presto a trasformare a proprio piacimento l‟ambiente:
eliminò la vegetazione per dare spazio alle coltivazioni, denudò intere regioni
per procurarsi legname da ardere, ecc… e incominciò a sfruttare ogni risorsa in
modo sempre più intensivo. Incominciò in questo periodo anche lo sterminio
(sebbene su scala ancora molto ridotta rispetto all‟attuale) degli animali selvatici
i quali erano divenuti dannosi e nocivi poiché distruggevano i campi coltivati e a
volte predavano gli animali domestici. (www.pianetascuola.it)
Nel corso dei millenni successivi alle prime attuazioni dell‟agricoltura, l‟uomo
apportò altre innovazioni a questa pratica e perfezionò le conoscenze acquisite.
Mentre progrediva con lo sviluppo di nuove tecniche, l‟uomo imparò ad
organizzare il proprio lavoro, a dividere i compiti e a strutturare i vari ruoli
sociali, cambiando non solo il rapporto con l‟ambiente in cui viveva, ma anche il
suo atteggiamento culturale nei confronti della natura. L‟aggregazione nelle
città, luoghi così differenti dall‟ambiente che aveva ospitato l‟uomo nei primi
tempi della sua esistenza, non poteva non creare un senso di profondo distacco
da quella natura che egli incominciava a sentire “estranea” e pericolosa. Quanto
più l‟uomo percepiva l‟ambiente come selvaggio e indomabile, oltre che
indomato, pericoloso e alieno, tanto più si sentiva non solo in grado di plasmare
10
la natura, ma in diritto e in obbligo di farlo. Il concetto di natura “estranea” e
“inferiore” all‟uomo, che ne è il dominatore, si ritrova quindi già in tempi molto
antichi, e fece presa soprattutto nella cultura greca prima e romana poi.
11
2. L’EVO ANTICO
Fin dalla sua comparsa sulla Terra, l‟uomo ha dovuto confrontarsi
costantemente con l‟ambiente e ciò non era per niente facile. Infatti, operazioni
che ai nostri occhi potrebbero apparire semplici, quali procacciarsi il cibo,
raccogliere frutti selvatici in un bosco, procurarsi il materiale per costruire un
rifugio o la legna per accendere un fuoco, costituivano in realtà fonti di
innumerevoli pericoli. L‟ambiente era, per i primi uomini e per le prime civiltà,
oltre che il fornitore di tutte le risorse indispensabili alla vita, anche e soprattutto
un elemento incontrollabile, pieno di insidie, una sorta di “selva” dantesca da
sfidare quotidianamente per garantirsi la sopravvivenza. I fenomeni che da
sempre terrorizzano l‟uomo, al pari di tutti gli altri esseri viventi, sono i fenomeni
atmosferici caratterizzati da particolare violenza o spettacolarità e i cataclismi.
Prima che la scienza potesse dare spiegazioni razionali e concrete di tali
fenomeni, e prima che se ne potessero limitare le eventuali conseguenze,
anche un semplice temporale o un‟eclisse avevano un forte impatto psicologico.
Per questo motivo, fin dai tempi più remoti, gli uomini, volendo trovare una
spiegazione per così dire “logica” a tali avvenimenti, incominciarono ad
attribuire ad ognuno una ben precisa entità celeste o divinità, la quale era la
sola a poterli controllare e che spesso si identificava con essi costituendone
una vera e propria personificazione; l‟ambiente pertanto suscitava nell‟uomo
paura e nel contempo rispetto. Nacque il sentimento religioso, ossia, quel
sentimento di timore misto a riverenza, nei confronti delle più disparate
manifestazioni naturali, e ogni cosa era considerata come pervasa da un‟aura di
sacralità. Le prime entità a venire adorate in tal senso furono gli astri, in primis il
Sole, poi la Terra (vista come “Grande Madre”), la Luna, e i diversi elementi
presenti sul nostro pianeta come acqua, aria, fuoco, vento, ecc…,nonché tutti i
fenomeni atmosferici; ogni divinità aveva proprie caratteristiche, (era ad
esempio maschile o femminile), e una propria valenza, (positiva o negativa);
alcune potevano poi avere duplice valenza a seconda dei casi e dei contesti in
cui manifestavano il proprio potere. Quanto detto vale per la quasi totalità delle
civiltà antiche da noi conosciute, e in diverse parti del mondo: infatti, il culto di
12
elementi naturali e cosmici, è riscontrabile un po‟ ovunque; cambiano
naturalmente i nomi e i simboli assegnati a ciascuna divinità, ma le entità ed i
fenomeni oggetto di culto restano i medesimi. Giusto per citare alcuni tra i
popoli maggiormente noti, ricordiamo gli Egizi, i Greci e i Romani, gli Etruschi e
gli altri popoli dell‟Italia preromana, infine i vari popoli dell‟America
precolombiana come Aztechi, Maya, Inca, ecc…, per non parlare delle
numerose tribù che ancor oggi praticano culti animisti legati ai cicli delle stagioni
e alla fertilità.
Per fare un‟analisi più dettagliata del rapporto uomo-ambiente, ritengo
opportuno partire dal mondo classico, la cui eredità culturale è stata, ed è
tuttora, preponderante e fondamentale soprattutto in Europa. Per quanto
riguarda il mondo greco prima, e il mondo romano poi, valgono le
considerazioni precedenti, ma se ne possono aggiungere altre. L‟indagine va
indirizzata verso due filoni ben distinti, i quali evidenziano altrettante
problematiche: l‟influenza dell‟ uomo sull‟ambiente, e l‟influenza dell‟ambiente
sull‟uomo, e proprio quest‟ultimo era l‟aspetto previlegiato dagli antichi Greci, i
quali se ne servivano per poter giustificare una attiva propaganda politica e
sociale tesa a dimostrare la superiorità del popolo greco sugli altri. A questo
proposito, infatti, era molto diffusa soprattutto nel V secolo a.C., la teoria del
cosiddetto “determinismo ambientale”, secondo la quale l‟ambiente naturale e il
clima hanno la capacità di predeterminare le caratteristiche fisiche e culturali
della popolazione. Tale teoria era promossa, per esempio, da Ippocrate, da
Erodoto , e da Aristotele il quale, nella sua opera dal titolo Politica, sosteneva
che i Greci, vivendo in una zona temperata compresa tra la fredda Europa e la
calda Asia, possedevano caratteristiche ottime e ispirate ad un perfetto
equilibrio psicofisico, proprio grazie alla posizione geografica che ha il merito di
attenuare ed equilibrare i fattori estremi presenti invece presso gli europei e gli
asiatici. (J. D. Huges, Ecology in ancient civilisations, Albuquerque, 1975).
Decisamente più scarsa era, come in parte anticipato, l‟attenzione dedicata
all‟influenza dell‟uomo sull‟ambiente, ma anche a questo proposito si possono
fare alcune importanti considerazioni. Il disboscamento veniva diffusamente
praticato, allo scopo di ricavare terreni coltivabili e pascoli, e all‟uomo veniva
13
riconosciuto il diritto di trasformare l‟ambiente naturale a proprio vantaggio; il
pensiero greco, infatti, distingueva tra lo spazio antropizzato, nobile e di alta
qualità, e lo spazio ancora incolto, selvaggio, sul quale era non solamente
legittimo, ma anzi auspicabile e positivo, attuare ogni forma di modifica e di
utilizzo intensivo da parte dell‟uomo. Aristotele, sempre nella Politica, delineava
chiaramente una vera e propria scala di valori: “Le piante esistono in vista degli
animali, e gli animali in vista dell‟uomo”.
Non mancavano naturalmente voci discordi, che restarono però isolate, come
quella di Teofrasto, scrittore e poeta discepolo di Aristotele, il quale sosteneva
che la natura ha un valore ed una dignità in quanto tale, e che essa non esiste
per essere arbitrariamente sfruttata e dominata dall‟uomo.
Facevano eccezione, a questa pressochè unanime legittimazione dello
sfruttamento, i luoghi sacri, ossia quei luoghi in cui si riteneva che una
particolare divinità si manifestasse con maggior forza; solitamente questi spazi
si trovavano presso sorgenti o grotte, ma potevano essere costituiti anche da
intere montagne, da boschi, o da fiumi, e sulla loro superficie non era consentito
alcun intervento umano: il profanarli sarebbe stato atto di grave oltraggio a cui
sarebbe seguita la vendetta della divinità.
Il mondo romano ereditò, nel complesso, le posizioni greche: come i Greci,
infatti, i Romani credevano nella teoria determinista e, distinguendo
accuratamente lo spazio antropizzato dallo spazio selvaggio, considerano
qualitativamente superiore il primo. I Romani dimostrarono una precoce e
singolare capacità di trasformare il paesaggio, e il loro contributo in tal senso è
ben visibile ancor oggi nelle numerose ed imponenti infrastrutture da essi
realizzate, nelle opere di bonifica, nella rete viaria e nei centri urbani. I luoghi
selvaggi, da essi chiamati saltus, solitudines o silvae, erano quelli abitati dai
cosiddetti “barbari”, i quali venivano ovviamente ritenuti culturalmente inferiori.
Sempre molto forte è il culto dei luoghi sacri, soprattutto quelli legati alla
presenza di acqua come sorgenti e fiumi; si sa per certo, grazie al ritrovamento
di un capitello del I secolo a.C. presso S. Lorenzo di Pegognaga (Mantova), che
il fiume Po era oggetto di culto da parte dei Romani, almeno in questo periodo;
l‟iscrizione di dedica incisa sul basamento recita infatti: “Pado Patri”, ovvero: “al
14
Padre Po”. (AA.VV., Un Po di terra, a cura di Ferrari C. e Gambi L., Reggio
Emilia, Diabasis, 2000).
Il fatto che gli antichi Romani, così come i Greci, si preoccupassero poco
dell‟impatto umano sull‟ambiente e delle relative problematiche, non significa
che non ci fossero anche all‟epoca forme di inquinamento, o che nessuno se ne
accorgesse. Come sappiamo, durante il periodo augusteo, Roma raggiunse il
massimo splendore e il massimo sviluppo, ma nel contempo la grande quantità
di persone, (residenti e non), che ogni giorno si concentrava nelle vie e nei
locali, causava diversi disagi; come in una città odierna, vi erano problemi di
sovraffollamento, di traffico, di rumore, di smaltimento dei rifiuti, problemi
igienico-sanitari, e via discorrendo. Non è un caso, infatti, che proprio questo
periodo storico abbia visto proliferare opere letterarie che esaltavano la vita
tranquilla dei campi, le lente e pacate attività dei pastori e degli agricoltori, con
la famosa idealizzazione, di stampo virgiliano, della campagna come locus
amoenus. (J. D. Huges, Ecology in ancient civilisations, Albuquerque, 1975).