Introduzione
Quando si ascolta un disco o un concerto di musica d'improvvisazione, come il
jazz e specialmente quel suo filone cosiddetto delle avanguardie che lascia
notevole spazio all'improvvisazione momentanea, cosa accade nella mente e nel
corpo dei musicisti? Come si articolano i processi di costruzione del linguaggio
musicale e i sensi o significati che si vengono a creare attraverso di esso?
I musicisti "entrano in un certo rapporto dialettico fatto di suoni simile a
una vera e propria conversazione"
1
e come in ogni dialogo anche nel fenomeno
improvvisativo sono in gioco coinvolgimenti emotivi, movimenti corporei,
particolari fattori legati alla cultura e alla società e specifiche competenze
tecniche.
In questo scritto si cercherà di delineare ed approfondire alcuni aspetti
dell’improvvisazione musicale che riguardano la pratica della musica
afroamericana e delle sue derivanti europee, prendendo in esame testi che
affrontano questa tematica da punti di vista eterogenei : sociologici, filosofici,
psicologici, antropologici e soprattutto musicali, tenendo presente l'evoluzione
degli stili jazzistici che vanno dall'avvento del be-bop alle espressioni
contemporanee.
Partiamo innanzitutto dalla convinzione che per affrontare il tema
dell’improvvisazione senza impoverirlo sia necessario abbracciare
comparativamente più tradizioni culturali, sia nell’asse sincronico sia in quello
diacronico: la cultura afro-americana, le culture tradizionali non occidentali e la
musica d’arte di tradizione europea. Non solo: un’analisi del fenomeno
improvvisativo richiede l’estensione dell’indagine a fenomeni non musicali,
1
1
come ad esempio l’azione sociale, le dinamiche della conversazione,
l’interazione quotidiana degli individui.
Non è un caso che due dei contributi italiani più significativi e più recenti
sull’improvvisazione in quanto fenomeno complesso, come quelli di Davide
Sparti e di Vincenzo Caporaletti, abbiano rispettivamente accentuato un
approccio globale interno alle esperienze musicali (Caporaletti), ed un approccio
estensivo alle pratiche non musicali che sfrutti l’apporto di discipline
apparentemente estranee alla musica, come la sociologia, la filosofia del
linguaggio, la psicologia (Sparti).
La complessità e l’estrema ricchezza del fenomeno improvvisativo ha
fatto sorgere molti problemi già sul piano di un suo primo tentativo di
definizione. Possiamo tuttavia dire che sia rintracciabile, nei vari tentativi di
afferrare la natura dell’improvvisazione, una sostanziale convergenza.
Caporaletti nota che quasi tutte le definizioni ruotano intorno ad una tripolarità
costituita dai seguenti concetti 2
:
1. Processo : attività poietica, creativa che si svolge in un flusso
temporale.
2. Prodotto : il risultato della creazione depositato in una forma sensibile.
3. Regole sistematiche : la presenza di norme strutturanti che
rappresentano il vincolo della creazione.
Riportiamo a titolo di esempio alcuni tentativi di definizione del
fenomeno improvvisativo che, secondo Caporaletti, attestano questa
convergenza. “Interpretazione di una musica al tempo stesso della sua
concezione” (Simha Arom); “intenzione di creare uno specifico enunciato
musicale nel corso della performance” (John Baily); “produzione di una musica
che non preesiste alla propria esecuzione, la cui elaborazione si riferisce ad un
2
Caporaletti, V., I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale , LIM, Lucca 2005, p. 6.
2
quadro, ad un modello, ad un insieme di regole prestabilite” (Monique
Brandily); “composizione in tempo reale come creazione in movimento opposta
alla creazione in riposo della composizione” (Riccardo Canzio); “realizzazione
(o il risultato) di un procedimento di variazione in rapporto ad un modello dato,
in cui regole di variazione sottoposte ad una logica sistematica interna al
modello sono coniugate con una strategia creatrice basata su fattori esterni”
(Francesco Giannattasio)
3
.
Nel corso del presente lavoro cercheremo di far emergere e di spiegare i
concetti chiave che possono desumersi da tali definizioni, tenendo conto del
fatto che il jazz è stato quasi sempre l’oggetto privilegiato anche se non
esclusivo dell’attenzione.
Il jazz è musica che coinvolge l'essere umano nella sua interezza, corpo
e mente devono essere all'erta, pronti ad affrontare qualsiasi situazione di
cambiamento melodico armonico o ritmico; è come se tutti i musicisti in
un’operazione alchemica si fondessero in un solo corpo, diventando ognuno un
organo vitale che permette a questo nuovo essere di vivere e svilupparsi nel
miglior modo possibile.
L'evento musicale diventa vivo, parla il suo linguaggio e comunica sensi
relativi alla sua cultura, all'individualità di ogni singolo musicista, permettendo
la coesione degli individui e l'appartenenza a determinati gruppi, riti,
comportamenti; ispira e infonde a colui che ascolta l’esigenza di evadere dal
quotidiano per poi ritornarci con la forza di chi percorre un viaggio purificante
nell'interiorità, come disse Debussy: “ esprime l’inesprimibile all’infinito” .
Proprio questa espressione sopraccitata riporta al senso insito nella
pratica dell'improvvisazione jazzistica, che vede il jazzman impegnato con tutto
il suo essere ad esprimere "liberamente" ed "infinitamente" ciò che non si può
3
Queste definizioni si trovano in Lortat-Jacob, B. (a cura di), L’improvisation dans les musiques de tradition
orale , Selaf, Paris 1987.
3
comunicare con il linguaggio verbale e che permea l'esistenza dell'uomo.
William Parker afferma, (esponente del free jazz contemporaneo) in un articolo
pubblicato su “Musica jazz” del dicembre 2004:
il musicista è una specie di messaggero, uno strumento conduttore in grado di trasmettere lo
spirito della luce. E' come un tubo che devi tenere pulito: se vuoi che la luce risplenda non
devi riempirlo ma devi far sì che tutto possa scorrere in maniera fluida ...La musica è come
una barca a vela che usi il motore solo quando non c'è vento; studi per raggiungere il livello di
conoscenza pratica e teorica che ti consente di viaggiare con il vento, di abbandonarti al
flusso.
4
In questa intervista credo che sia racchiuso molto del senso dell'agire
musicale del musicista di jazz, sia da un punto di vista simbolico e filosofico,
che da un punto di vista pratico. Ciò che il musicista esprime è sia parte del suo
universo interiore conscio e inconscio legato al rapporto dell'uomo col mondo e
con l'infinito, sia una radicata dimestichezza con le tecniche e con le espressività
musicali. Il jazzista è un uomo che ha dentro di sé la propensione ad esprimere
con i suoni tutto ciò che lo affligge, che lo fa gioire, tutto ciò che il suo corpo e
la sua mente conoscono per vie che sono a tutti comuni ed esprimono in modo
non comune e creativo; egli vuole tirar fuori tutto ciò in modo sempre nuovo,
come sempre nuovi sono gli accadimenti; tutti i sensi sono convogliati in questo
lavoro di sintonizzazione tra l'essere umano e la musica.
Ma tutto ciò avviene in modo spontaneo, come qualcuno è stato portato
a pensare? Si nasce con questa capacità o la si acquisisce col tempo?
Sicuramente qualcosa di innato e spontaneo all'interno di coloro che
improvvisano esiste in misura notevolmente maggiore che in altri individui, è
probabilmente vero che si nasce con una spiccata sensibilità che porta
4
Parker W., articolo in “Musica Jazz”, Luglio 2004, Rusconi.
4
all'incontro con le forme d'arte e in questo caso con la musica, ma è anche vero
che tale sensibilità ha bisogno di essere canalizzata con l'ausilio di determinate
pratiche, che sono verosimilmente utilizzate da coloro che entrano in rapporto
con l'arte e con forme di studio. Tali pratiche incrementano la propensione e
raffinano la sensibilità.
Il mezzo principale per il jazzista per entrare in comunicazione o per
meglio dire in "comunione" con il mondo dei suoni è l'improvvisazione. Fin da
quando il jazzista prende per la prima volta in mano il suo strumento e ne sente
la sua consistenza e la sua forza ispiratrice, compie il primo atto di contatto con
il mondo e la comunità del jazz e di tutta la memoria collettiva di cui è pregno
questo universo sonoro.
Per la stragrande maggioranza dei casi, non si parte come nel caso della
musica classica o cosiddetta colta occidentale con l'attitudine ad approfondire le
proprie conoscenze delle partiture, con l'armonia e la teoria, ma con delle
pratiche culturalmente e socialmente accettate dall'intera comunità dei jazzisti: i
brani eseguiti e consolidatisi nel corso della tradizione (i cosiddetti standards), i
comportamenti ritualizzati che costituiscono la comunità (vedi le jam session,
l'imitazione di modelli significativi che siano personaggi musicali o musiche
particolari) la padronanza eccezionale e specialmente personale con lo strumento
e con lo stile che ogni musicista riesce ad esprimere ai componenti del proprio
gruppo di appartenenza e del pubblico ascoltatore. Infatti non basta essere
padroni del proprio strumento, ma bisogna far venir fuori insieme alle note tutta
la sensibilità nei confronti dei suoni e compiere dei gesti musicali che siano
veramente significativi e accettati dal gruppo .
L'improvvisazione non è come alcuni pensano, un atto quasi divino che
nasce spontaneo nel musicista, ma è il frutto dell'abnegazione nella pratica di
determinati atti musicali ben precisi che sono comuni a tutti coloro che
esercitano tale competenza. Ogni musicista deve avere la capacità di interagire
5
con determinati giri armonici, determinate scale e i gradi che compongono i vari
accordi, specifiche posizioni sullo strumento (che molto spesso deviano dalle
consuetudini che esistono nella tecnica della musica colta per sfociare in posture
del tutto originali create dal musicista stesso) e in oltre deve mostrare non solo
per la musica ma anche per le dinamiche di interazione tra i musicisti che si
trovano a partecipare all'evento sonoro; quindi oltre alle capacità puramente
tecniche si attivano nei performers particolari movimenti corporei, gesti,
occhiate, urla di estasi che portano ad una comunione di intenti e di strade da
percorrere e contribuiscono notevolmente all'accadere dell'improvvisazione e
della dinamica della performance.
Tutto ciò accade in un particolare contesto socio-culturale in cui si
trovano inseriti i musicisti. Sappiamo che il jazz nasce intorno ai primi anni del
Novecento (al 1917 risale la prima registrazione) e vede coinvolti per lo più
musicisti afroamericani, anche se i musicisti bianchi hanno dato un notevole
contributo alla nascita e allo sviluppo di tale genere musicale. I pionieri del jazz
suonavano nelle bande e nelle orchestrine di New Orleans e col passare di alcuni
anni invasero le sale da ballo con le grandi orchestre: ricordiamo le più famose
come l'orchestra di Duke Ellington , Count Basie e molte altre. Ed è proprio in
queste grandi orchestre che si formano i più grandi e pioneristici improvvisatori
dell'epoca. Nelle compagini di tali formazioni iniziarono a distinguersi i primi
grandi solisti, che ben presto avranno molto di più da dire e da comunicare oltre
la capacità di eseguire il lavoro di orchestrali che si lasciavano prendere da
qualche improvvisazione preordinata e prearrangiata relegata a piccole parti. I
musicisti dopo le serate passate ad esibirsi con le orchestre si ritrovavano nei
piccoli club dei sobborghi delle metropoli americane per dare sfogo alle loro
abilità improvvisative e compositive. E' in questo contesto che nascono le prime
piccole formazioni di jazz in cui si svilupperà il nuovo linguaggio jazzistico,
visto dai cosiddetti conservatori con cattivo occhio come una degenerazione del
6