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PROLOGO
Alghero. Una cena d‟Agosto del 2008.
Gran Turismo:
“Aragosta alla catalana?”
“Noi due grazie.”
“Ecco a voi Signore.”Inspiro.“Vedo che il pane l‟avete.” Inspiro. “Vino pure.” Inspiro. “A voi
Signore..”e trattenendo il fiato contemplando con un certo automatismo misto sdegno l‟iridescente
portata sostenuta dal braccio nervoso ma esperto e rapido ad abbandonare al n° 9\bis con un
movimento semicircolare il vassoio argentato su cui giaceva l‟ormai esausta, per eccesso di
preliminari, aragosta alla catalana, augurò con un tono poco convincente:“Buon appetito”.
“Perché viene chiamata „alla catalana‟? Feci alla cameriera che si fermò all‟istante un po‟
infastidita e credo ufficialmente annoiata dalla trilionesima ed ennesima domanda da turista
inebetita sull‟origine dell‟aragosta.
“Alghero è una cittadina di origine catalana. Mosaltros parlem català.
1
”
E volò via. Sospesa come carta velina in una serata di Maestrale e credo temporaneamente sollevata
dalla fine dell‟impiccio lavorativo che le avevamo provocato con le nostre richieste ma che a breve
si sarebbe probabilmente ripetuto con altri clienti, imbrigliata contrattualmente o forse no fino alla
fine dell‟estate. L‟ennesima recita da l‟ennesima graziosa cameriera pensai, rivolgendo lo sguardo
alla mia amica Alessandra in visita fugace da Monza ad Alghero, sbalordita dal sedicente piatto che
pareva un centro tavola natalizio, tanto era stato addobbato il crostaceo, servito con
abbondantissime cipolle e pomodorini, accompagnato inoltre da croccantissime sfoglie di pane
1
Trad.it. ‟‟Noi altri parliamo catalano.‟‟ Per i testi di riferimento si veda la sezione dedicata alle „‟Trascrizioni‟‟.
5
carasau e vino maturo di provenienza rigorosamente sarda, come da „‟menù turistico‟‟ visibilmente
esposto all‟ingresso che portava nella sala interna del ristorante il quale non avevamo faticato a
trovare, non fece caso all‟ammorbante tramonto che dal nostro tavolo appartenente a uno degli
innumerevoli locali che si trovavano lungo „‟la muraglia‟‟ piantato di fronte a Capo Caccia, avrebbe
dovuto contemplare con più o meno devozione. Quella fresca sera di fine agosto mi sentì più una
turista che un‟antropologa in fieri, ignara delle origini di quelle apparentemente ricercate
leccornie.
2
In passato l‟utilizzo di cipolle nell‟attuale „‟aragosta alla catalana di Alghero‟‟era
necessario per coprire l‟odore di stantio che i crostacei – di dubbia origine catalana - una volta morti
a bordo, venivano consumati dai pescatori che restavano in mare per molti giorni. Oggi è un piatto
sostanzialmente costosissimo che contraddirebbe l‟idea secondo cui la predominante „‟visione‟‟ del
cibo bistratterebbe l‟olfatto nebulizzando „‟il puzzo‟‟ - in quel caso causato dalle anziane cipolle -
che mescolate ai pomodori si avvicinerebbero a quello che Matera (2002b, 2005)
3
definisce il
„‟nostro ideale olfattivo‟‟. L‟assenza di odore.
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La „‟visione‟‟ dell‟eccentrico piatto - più
un‟aragosta quella sera pareva un‟istallazione d‟arte contemporanea - avrebbe potuto e dovuto
coprire il „‟puzzore‟‟ della cipolla criminale colpevole dell‟omicidio dell‟aragosta dal gusto
delicato. Ma i ristoratori di Alghero a differenza dei pescatori di un tempo (e della graziosa
cameriera di quella sera) credo ne andassero orgogliosi. Il „‟puzzare‟‟ non più come Matera (2002b,
2
Michela. Murgia (2008) nel suo delizioso libro di viaggio ne parla con vivo interesse. Il pane carasau era invece
l‟unica possibilità per i pastori, lontano da casa per molti giorni, di mangiare pane che non fosse muffo e raffermo.
3
Le date riportate tra parentesi si riferiscono generalmente all‟ultima edizione. Là dove cito i testi, date e numeri di
pagina si riferiscono nuovamente all‟ultima edizione. Lo stesso vale per i testi tradotti in italiano. Naturalmente gli
errori che compaiono e che restano sono i miei. Infine la bibliografia cercherà di chiarire e ordinare nel miglior modo
possibile la presenta nota.
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Cito Matera (2005 : 118) :
„‟Un altro senso che nella nostra cultura di oggi è ampiamente bistrattato, sempre dalla vista, è l‟odorato: il
nostro ideale olfattivo è l‟assenza di odore; ciò è dovuto al predominio della „‟visione‟‟ (le immagini non
odorano) e all‟avanzamento tecnologico: le macchine, l‟acciaio, i computer non odorano; nel Settecento i
membri dell‟aristocrazia emanavano un caratteristico puzzo (di cui erano orgogliosi e che era segno distintivo
dell‟appartenenza di classe). Dopo la rivoluzione industriale, con l‟avvento delle macchine asettiche (e in seguito
all‟affermarsi di molte teorie mediche sull‟organismo, le abluzioni, l‟uso della cipria etc.), il „‟puzzore‟‟ divenne
tratto spregiativo attribuito dalle stesse classi dominanti – che ora vivevano in ambienti inodori - ai proletari -
che vivevano e lavoravano in condizioni tutt‟altro che inodori. Il puzzare diventò un chiaro segno di
discriminazione sociale. Possiamo da ciò ricavare un principio generale: la rielaborazione culturale di una
sensazione - in questo caso olfattiva - ne fa uno strumento per tracciare confini sociali. La classe dominante si
definisce „‟beneodorante‟‟ o „‟inodore‟‟ rispetto ad una classe dominante „‟puzzolente‟‟.
6
2005) definisce, „‟emblema di discriminazione sociale‟‟
5
, bensì - ipotizzo - servire pietanze
„‟puzzolenti‟‟ come segno distintivo di appartenenza e di orgoglio ad una comunità - algherese-
catalana - caratterizzata da ambivalenti contraddizioni e inizialmente impregnata - ipotizzo - di
„‟orgoglio linguistico‟‟(Cardona 2009).
Per lo meno quella sera, considerato il conto inodore ma salatissimo, eravamo, io più della mia
amica, invitate a pensarlo.
Nel mio caso potrei parlare di ri-rielaborazione culturale di una sensazione. Il „‟puzzo‟‟ in questo caso culinario, dato
dalle cipolle, elemento utile ai pescatori per confondere l‟odore stantio del pesce, oggi si rivela una „‟potente metafora
per esprimere e giustificare rapporti di forza e di dominazione fra gruppi e categorie identificati come socialmente
diversi‟‟ (Matera 2005 : 119).
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INTRODUZIONE
Riflessione autobiografica.
I soggetti delle etnografie sono sempre più interessanti dei loro autori.
(Smith 1990)
Di che cosa sto parlando?
Ripiego la mia ricerca su un‟isola, la Sardegna, in un angolo situato a nord-ovest, Alghero,
partendo volutamente come direbbe Remotti riferendosi a Geertz (1987: 32) da un‟incagliata
„‟stranezza‟‟. Un crostaceo. Un‟aragosta vestita e rivestita di un abito „‟puzzolente„‟ ma molto
suggestivo: alla catalana. Ammetto di esagerare correndo inoltre il rischio di cadere nella
trappola come direbbe Clifford (1993), Marcus e Fischer (1994) della „‟retorica del testo‟‟. Il
tutto senza dimenticare che i „‟soggetti delle etnografie sono sempre più interessanti dei loro
autori‟‟(Smith 1990: 369). Ma gli influssi che hanno determinato la mia vita come direbbe
Raymond Carver sono stati per lo più „‟forze-occasioni, personalità-irresistibili come maree‟‟
(Carver, 1997: V). E le emozioni credo siano state i veicoli fondanti dei mie influssi. Hanno
condizionato in gran parte le esperienze vissute sul campo e in tutte le fasi della ricerca. In
particolare mi sto riferendo al travagliato percorso di ricerca del mio oggetto di ricerca
6
, la
ricerca sul campo, la scrittura delle note e degli appunti prima confusi e poi leggibili – spero - in
un testo. La testualizzazione finale condotta fra Milano e Alghero rispettivamente luoghi
„‟fuori‟‟ dal e „‟dentro‟‟al campo ha ulteriormente complicato la relazione come sostiene
Malighetti fra lavoro sul campo e testualizzazione (Malighetti, 1991, 2000, 2004, 2008).
6
Il personale percorso di ricerca dell‟oggetto di ricerca ben delineato da Malighetti (2004) che nel suo testo fa intendere
attraverso una prospettiva autoriflessiva cos‟è l‟etnografia, è stato un lungo processo durato per lo più due anni
contestualmente all‟intero percorso universitario in Antropologia presso l‟università Milano Bicocca.
Un oggetto in viaggio con i suoi soggetti, esteso dal caso, prodotto dal dialogo con la letteratura dove l‟antropologo ha
il dovere di mostrarne l‟aspetto critico, la finzione, adottando una prospettiva relativista, costruendo rappresentazioni
dell‟alterità, ammettendo così come sostiene Fabietti (2004) di non scoprire pressoché nulla.
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Anolli (2010: 14) nel suo libro intitolato „‟La Vergogna‟‟ parla di emozione e azione nei
seguenti termini:
„‟(..) In questa prospettiva le emozioni sono dei processi utili per realizzare gli scopi, per salvaguardare gli
interessi, per rispondere alle aspettative di ognuno di noi, poiché ci spingono ad agire in una direzione piuttosto
che un‟altra. Le emozioni pertanto costituiscono una risposta di ogni individuo per modificare la priorità degli
scopi, in modo da far fronte alla complessità dell‟ambiente.„‟ (Anolli, 2010: 14)
L‟influsso più grande sulla mia vita, positivo e talvolta malefico sul mio lavoro di ricerca –
raccolta, analisi dati, note e più di tutti scrittura etnografica - (Duranti 2005; Matera 2004) è venuto
direttamente da mia figlia. A poco più di due anni e mezzo in un‟occasione non particolare mi
chiese che cosa stessi facendo e perché. Personalmente credo che i bambini siano i migliori
antropologi che esistano al mondo o per dirla alla Goffman (1971) i potenziali „‟sabotatori‟‟ della
vita sociale insieme a criminali, comici e coloro etichettati come pazzi. “Scrivo. Perché ne ho avuto
l‟occasione. Devo farlo.” Le risposi più o meno. Fu una risposta convincente, quasi da Supereroe.
Perché si rimise a giocare.
Letteratura e scrittura sono e saranno una parte centrale del „‟discorso‟‟
7
antropologico che
affronterò. Cercherò di avvalermi di „‟diverse tecniche complementari di documentazione e
rappresentazione‟‟ (Duranti 2007)
8
. E se una parte di Antropologia si è cautamente accostata
all‟ambito della letteratura dove l‟antropologo per dirla alla Geerzt (1988) è sempre più autore che
scrive e sempre meno osservatore che descrive:
7
Per „‟discorso‟‟ lo si intende alla maniera di Focault (1972) un‟area significante che viene esplicitata mediante
l‟impiego di enunciati che ne escludono altre e che si pretendono coerenti
8
Per diverse tecniche documentarie complementari di documentazione e rappresentazione intendo alla maniera di
Duranti (2007) ossia: osservazione diretta, scrittura, fotografia, registrazione del sonoro e videoregistrazioni oltre tre tipi
di metodi (complementari) che riassumono il concetto di etnopragmatica elaborato dall‟autore e che verrà ulteriormente
approfondito nel corso della mia ricerca. Ricordo che per i metodi complementari Duranti (2007 : 30) scrive:
1) Lavoro con parlanti nativi tipico dei linguisti interessati alla descrizione del sistema grammaticale di una
lingua; 2) l‟osservazione partecipante praticata nell‟etnografia di origine antropologica 3) la registrazione
audiovisiva di interazioni sociali spontanee
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Diventa molto importante l‟apporto che la letteratura vera e propria può offrire, essendo il punto di
riferimento essenziale della contemporaneità l‟individuo (e il repertorio culturale individuale) ed essendo la
letteratura da sempre tesa verso l‟individuo. (Matera, 2004 : 15).
La soddisfazione di aver fatto del mio meglio lavorando molto e duramente negli ultimi due anni
accademici, investita inoltre da un contagioso entusiasmo per la disciplina da parte di numerose
„‟personalità- irresistibili come maree‟‟, spero non rimanga solo un vivo ricordo come direbbe
Carver (1997)„‟da portarmi nella tomba‟‟.
Sfondo della Ricerca
(..)’’Bisogna vedere’’ disse Alice ‘’se lei può dare tanti significati diversi alle parole’’
‘’Bisogna vedere’’ disse Humpty Dumpty ‘’chi è che comanda.. è tutto qua’’
(L.Carroll)
Lo studio di due particolati eventi linguistici
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(Duranti, 2007) qui presentati con l‟utilizzo del
video - tape vorrebbe essere una prima sintesi di un lavoro in fase preliminare, principalmente
basato su dati raccolti nel corso di una ricerca varata nella primavera del 2010 condotta sul campo
di Alghero, città situata a Nord Ovest della Sardegna, fra Luglio e Dicembre 2010.
La fase preparatoria della ricerca è stata interamente dedicata alla lettura dei testi raccolti in
bibliografia e dalla raccolta dei dati sul campo; gli informatori sono stati individuati con l‟aiuto di
„‟locali‟‟ che si dichiaravano „‟esperti e profondi conoscitori del problema della lingua parlata ad
Alghero‟‟.
10
Quando arrivai per la mia ricerca sul campo ad Alghero muovevo da differenti interessi
teorici fondanti dell‟antropologia linguistica, forse troppi da un lato – quello antropologico – e
troppo pochi dall‟altro, - quello linguistico – ma tutti ricondotti a un tema comune: le parole
9
Duranti (2007) intende per evento linguistico una prospettiva di studio di chi studia un evento sociale dal punto di
vista dell‟interazione linguistica che esso ha luogo. Particolare attenzione verrà data a quei comportamenti verbali e non
verbali che sembrano accompagnare particolarità che accadono nell‟evento. In alcuni casi potremo trovare la chiave
d‟interpretazione di un evento piuttosto che un altro.
10
Per approfondimenti sugli informatori e interlocutori si rimanda al paragrafo: „‟Note metodologiche e spunti di
teoria‟‟ della presente ricerca p. 13-16
10
“fanno” le cose. Lo diceva il linguista Austin (1962), nel suo celebre saggio intitolato „‟Come fare
cose con le parole‟‟. Le parole sono dotate di una forza che ne determina l‟efficacia e che può
produrre conseguenze. Una forza che, come sostengono molti autori, antropologi linguisti e studiosi
della lingua, è sempre operante a diversi gradi di consapevolezza culturale e linguistica nella
coscienza dei parlanti (Berruto 2005; Cardona 2009, 2006, 1990; Duranti 1992 – 2007; Matera
2008, 2005, 2002a). La città di Alghero oltre ad essere un‟area „‟culturalmente mista‟‟ (Biscaldi
2004) per via degli innumerevoli influssi, incroci, ma anche soprusi, esodi e ripopolamenti a partire
da quello che gli studiosi e storici „‟locali‟‟ definiscono il „‟periodo catalano‟‟, (Caria 1988; Copello
1984; Toda 1888) potrebbe essere intesa una comunità linguistica (Labov 1973a; Berruto 2007;
Berruto 1974; Biscaldi 2004) formata da un gruppo di parlanti che condivide in parte nei confronti
della lingua un insieme di atteggiamenti sociali (Labov 1973b) una percezione comune più che
un‟evidenza oggettiva di parlare la stessa lingua (Biscaldi 2004), nel caso specifico trattasi della
lingua catalana? Il concetto di comunità linguistica è un concetto ampio, equivoco che rimanda a
molte questioni da cui non mi è possibile tracciare la genealogia. Credo sia ragionevole ritenere che
se dal punto di vista del parlante „‟comune‟‟ una varietà di lingua è data dal modo in cui si parla in
date situazioni (Berruto 2007), allora parlare la stessa lingua sarebbe il riconoscimento di un modo
comune di „‟usare‟‟ un linguaggio e di porsi nei confronti della lingua. Ma quale lingua? La
questione non è facile da riassumere anche perché i dati a disposizione sono esigui e possono dirci
molto poco sulla situazione sociolinguistica attuale ad Alghero. Dalle prime indagini preliminari
posso provare a formulare la prima ipotesi: ad Alghero si parla italiano, una variante della lingua
catalana denominata in ambito accademico e amministrativo „‟Català de l‟Alguer‟‟ e l‟Algueres
percepito dai parlanti di Alghero e dalle stesse amministrazioni locali come un dialetto. E se la
differenza fra lingua e dialetto è di carattere sociolinguistico, vale a dire sta nella coscienza dei
parlanti e dal loro uso presso la comunità parlante (Berruto 2005), allora uno degli obiettivi che
cercherò di proporre in questa ricerca sarà cercare di capire come funziona la comunicazione fra i
parlanti di Alghero e cosa fanno. In altri termini, cosa provocano le parole? Per farlo cercherò di
11
osservare il modo in cui le persone usano gli strumenti che hanno a disposizione per comunicare
nella vita sociale (Biscaldi 2004; Cardona 2009, 2006, 1985a, 1985b; Duranti 2007; 2005; 1992a;
Matera 2008). In accordo con l‟idea secondo cui “non si abita un paese, si abita una lingua. Una
patria è questo e niente altro‟‟(Cardona 2009: 26), o, come afferma Dell Hymes (1984), un gruppo
può avere una lingua e essere una lingua
11
, particolare attenzione verrà data all‟uso del linguaggio
dei parlanti di Alghero immersi a fare cose concrete e per fare cose concrete‟‟ (Matera 2008: 39),
con la volontà di appartenere ad una comunità linguistica non solo basata su conoscenze o abilità
linguistiche dei parlanti, bensì su fattori storici e sociali, in altre parole identitari (Biscaldi 2004;
Fabietti 1995; Dell‟Aquila Iannàccaro 2009, Matera 2005, 2008).
In questa ricerca mi soffermo sui comportamenti comunicativi verbali e non verbali, tentando di
mostrare e rivestire „‟l‟oralità‟‟nella sua forza molteplice adottando l‟idea secondo cui il linguaggio
è contestuale, multisensoriale, emotivo e sensibile alle molteplici dimensioni dell‟esperienza umana
(Duranti 2007; Finnengan 2010; Matera 2002b; Tedlock 2002; Goody 1972, 1989, 2002b). Si tratta
di un campo di studi estremamente complesso, che rimanda a questioni ampiamente affrontate
dall‟antropologia contemporanea e sintetizzate da termini chiave come comunicazione, cultura
identità – che rimandano ad ambiti molto problematici e fortemente interconnessi. Col presente
lavoro ho provato a delineare due linee interpretative degli eventi analizzati in alcuni episodi, linee
che si intrecceranno e si sovrapporranno a una terza che ho definito „‟storica‟‟. Le due linee
principali scaturiscono da due punti:
1) Orgoglio linguistico (Cardona 2009);
2) Manifestazione della vergogna linguistica (Anolli 2010; Cardona 2009).
Proverò ad articolare un discorso attorno ai concetti di orgoglio e manifestazione della vergogna
linguistica. Per farlo partirò da un principio di base dell‟antropologia linguistica:
11
Testo originale ‟‟A group can have a language and also be a language‟‟.Per i testi si rimanda alla bibliografia.
12
„‟Comunicare significa costruire e mettere in scena una rappresentazione di se stessi (..). La comunicazione
non è mai neutra ma implica un forte significato culturale e ha ricadute in termini di identità. Alla luce di una
prospettiva antropologica, comunicare non è tanto trasmettere e scambiare informazioni, quanto costruire,
negoziandola con altri, un‟immagine di noi stessi. Al di là della funzione referenziale (trasmettere informazioni o
descrivere la realtà), in ogni processo comunicativo assume una particolare rilevanza la funzione indessicale
(Matera 2008: 24).
Se la nozione di indessicalità (Silverstein 1992: 55)
12
intende evidenziare la lingua come risorsa
attraverso la quale si organizza una realtà socioculturale (Duranti 2005; 1997-2003), i concetti di
partecipazione (Philips 1972; Goffman 1979; C. Goodwin 1981, 1984; M.H. Goodwin 1990;
Levinson 1988)
13
e agentività (Duranti 2004a, 2004b, 2007)
14
riproducono una concezione
dinamica dell‟interazione comunicativa, all‟interno della quale i soggetti sono delle figure attive e
intenzionalmente capaci, attraverso delle pratiche umane, di costruire e creare quotidianamente il
mondo sociale. (Duranti 2005; Matera 2008). E attraverso la nozione di performatività (Matera
2008, Biscaldi 2004; Tedlock 2002, Duranti 1997 - 2003 Goodwin 2004; Palmer, Jankowiak 1996;
12
Cito l‟autore (Silverstein 1992: 55)„‟Utilizzando una metafora topologica, si può definire l‟indessicalità come un
concetto radiale o incentrato su coordinate polari e relativo a dei rapporti semiotici: i veicoli segnici indessicali, perciò,
sono dei puntatori, che muovono da un‟origine creata dal, col, e „‟all‟atto‟‟ della loro occorrenza sotto forma di
„‟centro‟‟- una sorta di „‟cocca‟‟ di un‟immaginaria freccia semiotica. All‟estremità opposta del percorso radiale, vale a
dire alla punta della freccia, si trova il loro oggetto indessicale – quali che siano le dimensioni o proprietà percettive o
concettuali degli oggetti indicati. Proprio in virtù di questa semiosi indessicale, lo „‟spazio‟‟ che circonda il veicolo
segnico indessicale si configura come illimitatamente ampio (o ristretto), è caratterizzabile in modi infinitamente diversi
e la sua dimensione indessicale (nel momento stesso in cui è posta in essere) è riformulabile quasi senza limiti‟‟(
Silverstein 1992: 55)
13
La nozione di „‟partecipazione‟‟ o meglio „‟participation framework’’, individua di volta in volta l‟assetto
comunicativo che unisce e esclude tra loro i presenti e può invocare persone o unità assenti, definendo l‟unità sociale
cui va la responsabilità delle parole pronunciate e quindi la parte di responsabilità che il parlante (o animatore) prende
su se stesso e quella che distribuisce nel suo uditorio (Hill, Irvine 1993)
14
La nozione di agency o agentività è una nozione complessa e anche controversa che in linea molto generale, rinvia
alla relazione tra cultura linguaggio e società nella prospettiva dell‟interazione umana, tanto come prodotto di varie
forme di intenzionalità, quanto come frutto dei limiti sociali e culturali entro cui tale intenzionalità può attuarsi. Nella
presenta ricerca farò riferimento alla nozione di agency formulata da Duranti (2004a; 2007). Duranti definisce
l‟agentività primaria (2007) quella forma di affermazione di sé e di presenza scaturita dall‟atto di parola in quanto tale.
In un processo di comunicazione è l‟altro a essere costituito come persona sociale in quanto destinatario dell‟atto
comunicativo (es. saluti samoani). La nozione di responsabilità è centrale nella nozione di agency in quanto implica la
capacità di rispondere e di riconoscere l‟altro come partecipante dinamico, attivo e presente all‟interazione. Nella
definizione di agency di Duranti (2004a) rientrano la capacità di controllo sulle proprie azioni e l‟essere soggetti a
valutazione, aspetti che investono la conoscenza del parlante sull‟origine delle sue informazioni e sulla validità dei
contenuti espressi.