Questa parte generale comprende, oltre alla presente introduzione, una breve considerazione
circa il concetto di “conoscenza generale sul mondo” e, nel paragrafo 1.3. vengono sviluppati
gli aspetti tassonomici di derivazione neuropsicologica circa la memoria remota. Nell’ultimo
paragrafo (1.4.) vengono trattate ampiamente le varie patologie cerebrali in cui si riscontrano
danni della memoria remota.
Nella seconda parte, la parte sperimentale, viene descritta dettagliatamente la presente ricerca.
1.2. RICOGNIZIONE GENERALE SULLA “CONOSCENZA GENERALE DEL
MONDO” ED IN PARTICOLARE SULLA MEMORIA SEMANTICA
Circa la rappresentazione dei vari concetti a livello cerebrale, si può affermare, a differenza di
quanto sostenuto tradizionalmente, che non esistono rappresentazioni “pittoriche” permanenti
di oggetti o persone, bensì il cervello mantiene una registrazione non analogica dell’attività
che ha luogo nelle cortecce sensitiva e motoria durante l’interazione con un oggetto dato,
nonchè nelle circostanti aree associative per la registrazione delle informazioni sensitive e
sensoriali.
Le registrazioni sono configurazioni di connessioni sinaptiche in grado di ricreare i differenti
insiemi interattivi che definiscono un oggetto o un evento; ciascuna registrazione, inoltre, può
stimolarne altre ad essa correlate.
Oltre ad archiviare informazioni di esperienze relative a oggetti, il cervello sembra classificare
le informazioni in categorie, in modo che eventi e concetti tra loro connessi possano essere
riattivati insieme. In una simile rete di interazioni, l’attività cerebrale può ricostruire la
conoscenza, avendone la persona un’esperienza cosciente, oppure può attivare un sistema che
medi tra concetto e linguaggio, generando forme lessicali e strutture sintattiche.
Studiando i difetti di riconoscimento relativi alle categorie, si è notato che alcuni pazienti non
sono più in grado di riconoscere determinate classi di oggetti. Analogamente, è stato
dimostrato che la possibilità di accedere ai concetti, dipende da particolari sistemi neurali. Ad
esempio esistono pazienti non più in grado di recuperare concetti per entità uniche a loro
precedentemente familiari (una persona, un luogo o un evento) e/o che hanno perso i concetti
per entità non uniche di altre classi (gli animali possono risultare del tutto estranei mantenendo
però il livello concettuale che differenzia gli esseri viventi e animati).
Il mondo contiene un numero molto ampio di stimoli differenti e potenziali, dunque un
compito base degli organismi al fine della sopravvivenza è quello di segmentare l’ambiente in
classificazioni, nelle quali stimoli non identici possano essere trattati come tali ai fini di un
determinato compito. Per quanto riguarda gli aspetti strutturali delle categorie del mondo reale,
gli elaboratori categoriali assolvono a tre funzioni cognitive:
-possono giudicare la similarità tra gli stimoli;
-possono distinguere e processare gli attributi di uno stimolo;
-possono apprendere.
I vari autori analizzano differentemente le strutture delle categorie del mondo reale. Berlin
(1969), ad esempio, considera la natura delle classificazioni di piante ed animali, in quanto
alcune caratteristiche delle classificazioni etnobiologiche possono prestarsi a generalizzazioni
sulla struttura semantica, essendo applicabili alla comprensione di altre categorie naturali. Il
fatto che gli organismi siano raggruppati primariamente sulla base di similarità generali
percettive, contrasta con l’uomo preletterato, che nomina e classifica ciò che ha immediato
significato funzionale per la sua sopravvivenza. Berlin evidenzia la logica relazione di
inclusione di classe in quanto, a livello generico, sia piante che animali appaiono essere
precettivamente più distinte al classificatore umano e dunque tale livello generico potrebbe
costituire la base del processo di classificazione.
Rosch (1973) riprende ed amplia il discorso, proponendo due principi generali per la
formazione delle categorie: il primo afferma che il compito dei
sistemi categoriali è quello di provvedere alla massima informazione con il minimo sforzo
cognitivo (principio dell’economia cognitiva); il secondo riferisce che il mondo percepito è
tale in quanto informazione strutturata, non rappresentando una serie di attributi arbitrari ed
imprevedibili.
1.2.1. CATEGORIZZAZIONE
“Categorizzare uno stimolo” vuol dire considerarlo equivalente ad altri stimoli della stessa
categoria e differente da quelli facenti parte di altre categorie. Al primo principio si può
assolvere utilizzando delle tassonomie.
Poichè una tassonomia è un sistema attraverso il quale le categorie sono messe in relazione tra
loro per mezzo dell’inclusione di classe, maggiore è l’inclusività di una categoria all’interno di
una tassonomia e maggiore è il livello di astrazione che ne risulta. Per quanto riguarda il
secondo principio, non è detto che gli attributi di oggetti, animali e persone siano presenti
sempre allo stesso modo e grado. Inoltre si possono percepire determinati attributi, a seconda
della specie cui si appartiene, in quanto ognuna di esse ha bisogni funzionali e percezioni
differenti, a seconda del luogo in cui vive. In particolare Rosch et al. (1975), nella loro
struttura verticale di categorizzazione, considerano tre strutture principali:
-sovraordinata;
-livello base;
-subordinata.
Il livello maggiormente utilizzato è il livello base, che viene detreminato rifacendosi a due
teorie: la “cue validity” e la “somiglianza di categoria”.
Secondo Tversky (1985), due classi disgiunte tendono a combinarsi qualora il peso di aspetti
comuni aggiunti superi il peso degli aspetti distintivi. Oggetti di base sono posizionati al
livello base di maggior inclusione, nel quale sono presenti attributi per tutti o per la maggior
parte dei membri della categoria; salendo verticalmente nella gerarchia al livello
sovraordinato, si perdono attributi comuni, in quanto si astrae e si perdono conseguentemente
gli aspetti comuni; scendendo verticalmente di gerarchia al livello subordinato, invece, le varie
categorie presenteranno attributi che si andranno a sovrapporre ad altre categorie. Si può
affermare dunque che le categorie del livello base massimizzano la cue validity e la
somiglianza di categoria.
Le implicazioni sugli studi psicologici sono:
-Imagery: gli oggetti delle categorie del livello base sono quelle più facilmente rappresentabili
nella mente (isomorfismo rappresentazione-oggetto), per questo sarebbero le più inclusive;
-Perception: esiste un continum tra livello concreto ed astratto di percezione dell’oggetto,
percependolo dapprima come appartenente ad una certa categoria (categoria base) e
utilizzando solo successivamente processi addizionali di appartenenza ad una categoria
sovraordinata o subordinata al livello base stesso;
-Development: la categorizzazione di oggetti concreti al livello base sarebbe la prima operata
dai bambini;
-Language: anche gli adulti, pur conoscendo il nome di un oggetto appartenente ad una
categoria sovraordinata o subordinata, utilizzano più frequentemente il nome della categoria
del livello base.
Le categorizzazioni che utilizzano una struttura orizzontale, si riferiscono, invece, alla
segmentazione di categorie dello stesso livello di inclusività (il cane ed il gatto sono dei
mammiferi). Più si aumenta la distintività e la flessibilità delle categorie, più queste si
distinguono in “prototipi” o “esempi prototipici”, ossia casi esemplificativi di categorie,
contenenti gli attributi di items più rappresentativi all’interno e meno rappresentativi
all’esterno delle categorie stesse.
Poichè i confini tra categorie non sono definiti chiaramente, alcuni attributi possono essere
presenti in più categorie. Secondo il principio dell’economia cognitiva, le categorie devono
essere tra loro separate definendo criteri necessari e sufficienti, oppure definendo le categorie
continue in termini di casi evidenti piuttosto che in termini di confini.
Esistono due limiti al riguardo: da una parte, considerando la natura degli attributi percepiti,
l’ambiente limita le categorizzazioni, in quanto la conoscenza umana non può fornire struttura
correlazionale quando non esiste (grande può essere considerato attributo di un determinato
oggetto, ma lo sarà nei confronti di alcuni oggetti e non di altri); dall’altra gli attributi di un
oggetto sono tali solo se si possiedono conoscenze sociali al riguardo (ad es. “tu ci mangi
sopra” per un tavolo).
Dunque l’analisi degli oggetti in attributi può essere fatta solo dopo che i soggetti hanno
sviluppato sistemi di categorie.
E’ importante aggiungere che, sia il livello base che i prototipi, sono teorie circa il contesto. Il
livello base di astrazione è quel livello di astrazione appropriato per usare, pensare e nominare
un oggetto nella maggior parte delle situazioni in cui esso si presenta; se un contesto non viene
specificato, il soggetto provvede da sè e sceglie di solito il contesto considerato normale per la
presenza di tale oggetto.
1.2.2. EVENTI
Si è studiato se i principi di categorizzazione siano validi per dividere la continuità
dell’esperienza in eventi che sono unità temporali discrete e limitate. Lo si è fatto in psicologia
sociale ed ecologica, cercando di segmentare il comportamento in sequenze di eventi; nel
campo dell’intelligenza artificiale, costruendo simulatori che comprendano affermazioni
riguardanti sequenze di eventi semplici e culturalmente prevedibili.
Quando un soggetto deve descrivere sequenze di eventi accadutegli in una giornata qualsiasi
(recente o remota), egli non riferisce tutto ciò che ricorda, in quanto molto viene dato per
scontato, soprattutto quelle sequenze di eventi supportate da oggetti appartenenti al livello di
astrazione delle categorie subordinate (ad es. affermando “mi sono lavato i denti” è dato per
scontato che “ho svitato il tappo ed ho spremuto il tubetto sullo spazzolino”). La stessa cosa
potrebbe accadere per oggetti appartenenti al livello di astrazione delle categorie
sovraordinate, cioè questi non appaiono essere immaginabili a sè stanti ma come composti da
items individuali (ad es. i mobili).
1.2.3. RAPPRESENTAZIONI MENTALI DELLE CATEGORIE
Circa gli studi sulle rappresentazioni mentali delle categorie, valgono le seguenti
considerazioni.
Nei processi di comprensione delle frasi, i soggetti si basano su conoscenze del mondo che
vanno al di là del significato delle singole parole.
I concetti sono modi per categorizzare il mondo, per capirlo e poter comunicare con gli altri.
La maggior parte degli approcci della semantica assumono che tutto ciò che specifica un
particolare concetto, è una combinazione di caratteristiche semantiche.
Esistono due possibili approcci allo studio della relazione tra caratteristiche e concetti: la
teoria classica e la teoria del prototipo.
La teoria classica specifica che un elemento è un esempio di concetto solo se si applicano tutte
le caratteristiche definenti necessarie. Al contrario, un elemento che non ha tutte le
caratteristiche definenti, non sarà parte di quel concetto. Considerando le categorie naturali, le
cose sono più complesse, in quanto alcuni concetti sono utili ma difficilmente definibili in
modo chiaro.
La teoria del prototipo assume che le categorie naturali abbiano spesso dei confini indistinti. I
concetti sono caratterizzati in termini di esempi tipici o centrali, che tendono ad avere il
massimo delle caratteristiche in comune con altri membri della stessa categoria.
1.2.4. MEMORIA SEMANTICA
Da studi effettuati negli anni settanta è emerso che la memoria semantica contiene strutture
molto più ampie rispetto ai semplici concetti. Bartlett (1932) propose un’interpretazione della
memoria assumendo che le persone ricordano le nuove informazioni attraverso strutture già
esistenti, chiamate schemi. Una delle prime critiche fu che tale concetto era vago e generico.
Vi furono altri approcci al riguardo (Minsky, 1975; Rumelhart, 1985) che introdussero concetti
simili, quali il “frame” o lo “script”.
Questi concetti avevano comunque in comune i seguenti fattori: la presenza di variabili, il
rappresentare la conoscenza a qualsiasi livello di astrazione, il rappresentare conoscenze più
che definizioni, il fatto di essere sistemi di riconoscimento attivo e di potersi incastrare l’un
l’altro.
Data la possibile confusione nell’utilizzo del termine teoria generale della conoscenza o
memoria semantica, vengono introdotti i concetti di conoscenza pratica e conoscenza
lessicale. Per conoscenza pratica si intende quella conoscenza generale personale circa il
mondo e le cose che vi appartengono; per conoscenza lessicale si intende, invece, l’etichettare
un oggetto quale membro di una particolare categoria.
La conoscenza pratica è altrettanto diretta e immediata quanto quella lessicale; esse sono
strettamente legate dal punto di vista del linguaggio, tanto che una loro distinzione risulta
importante solo ai fini di fissare degli ambiti nella teoria linguistica.
Se prendiamo come esempio la parola tavolo, un soggetto avrà una conoscenza pratica di
questa parola, che in questo caso è la funzione che un tavolo svolge: è proprio questa
conoscenza pratica che viene invocata per interpretare un’estensione metaforica del significato
lessicale.
D’altronde si può dire che il lessico mentale include due significati correlati ma distinti di
tavolo: il significato letterale ed il significato figurativo, ovvero un senso più generale di
qualsiasi cosa assolva alla funzione di tavolo. E’ importante anche menzionare i criteri
percettivo e funzionale: esistono tavoli “letterali”, che soddisfano entrambi i criteri - di forma e
di funzione -, ed esistono tavoli “figurativi”, che soddisfano un solo criterio - o di forma o di
funzione -.
Quando vengono utilizzate le nostre conoscenze allo scopo di verificare se un qualcosa è
possibile, si va oltre la conoscenza lessicale: si parla di conoscenza pratica, in quanto il
possibile è derivato dal contesto e dall’esperienza.
Quando si desidera distinguere tra conoscenza pratica e conoscenza lessicale senza isolare il
meccanismo linguistico dal resto che una persona sa e fa, è necessario che la conoscenza
lessicale includa forma e funzione per molte definizioni, e quindi includa sia informazioni
circa la forma - che può essere vera o falsa- , sia informazioni circa la funzione - che può
essere possibile o non possibile -.
La teoria della decomposizione lessicale, considera le parole come rappresentate in una sorta
di vocabolario mentale. I significati verrebbero decomposti in componenti semantiche
primitive, distintive (componenti innate e “linguisticamente universali”). Ad esempio, sotto il
significato di “donna” vi sarebbero i concetti di “umano, femminile e adulto”.
Introduciamo adesso i postulati di significato: si tratta di assunzioni che limitano, all’interno di
una semantica basata sulla teoria dei modelli, l’insieme delle possibili interpretazioni di una
lingua. La comprensione consiste nella traduzione degli enunciati in un linguaggio mentale, in
cui la rappresentazione di una frase è affine alla sua forma superficiale (ogni fonema
corrisponderebbe ad un simbolo). Tale teoria ha due assunzioni di fondo: che non esistono
primitivi semantici in cui poter decomporre i significati delle parole e che, di conseguenza, non
vi sono voci di un dizionario mentale che rappresenti i significati delle parole. Queste esigono,
però, di analisi semantiche di tipo diverso, così che le teorie psicologiche che si rifanno ai
postulati di significato, forniscono analisi troppo potenti per i termini di genere naturale e
troppo deboli per i termini analitici. Inoltre i vari individui acquisiscono il loro vocabolario in
modo diverso. Da ciò emerge un principio generale: quanto più vicino è il significato di una
parola a nozioni semanticamente primitive, tanto più difficile sarà scomporne il significato in
pezzi e riesprimerlo in altre parole.
Per contro, quanto più complesso è il significato di una parola, tanto più facile dovrebbe
risultarne la definizione.
Il fatto che esistano sia parole definibili che parole indefinibili, suggerisce l’esistenza di
almeno due modi attraverso i quali apprendere le parole ed i relativi significati: in primo luogo,
incontrandole in un contesto - cosa che può avvenire con entrambi i tipi di parole - ; in secondo
luogo, ricevendone una definizione esplicita -cosa che può avvenire solo per parole definibili-.
1.2.5. RETI SEMANTICHE
Parliamo ora della teoria delle reti semantiche: esiste una rete gerarchicamente organizzata di
connessioni tra i concetti. Questi vengono rappresentati come “nodi della rete”, in cui ognuno
è associato ad un certo numero di proprietà, come per permettere ad un programma di
computer un rapido accesso alle informazioni -fra distanze variabili- ad ogni altro nodo o set di
nodi presenti nella rete (Quillian, 1969). I risultati di numerose ricerche avevano suggerito una
possibile concezione della memoria semantica come rete gerarchizzata cui si poteva accedere
in ogni punto con uguale facilità.
Secondo il modello dell’ “economia cognitiva”, le proprietà che si applicano ad un insieme di
concetti, vengono immagazzinate al più alto livello cui sono generalmente applicabili.
Una scoperta del tutto inaspettata, è stata quella per cui la vicinanza degli elementi nella rete
semantica, se da un lato facilita l’emissione di giudizi positivi (di riconoscimento o inclusivi)
sugli elementi stessi, dall’altro è di ostacolo all’emissione di giudizi negativi. Questa
differenza è stata più volte confermata: maggiore è la somiglianza tra i significati delle parole,
più facile è fornire giudizi positivi circa le relazioni semantiche, piuttosto che giudizi negativi.
Le maggiori perplessità circa la teoria delle reti semantiche, è che essa non riesce a prevedere
determinate differenze all’interno delle categorie, le quali tendono ad essere correlate con la
distanza semantica stimata tra esemplare e categoria (Ripps, Shoben e Smith, 1973), e con il
grado di tipicità di un esemplare rispetto alla categoria di appartenenza (Rosch, 1973).
Esiste infatti una difficoltà nello spiegare la tendenza marcata degli esempi prototipici di una
categoria ad essere verificati più rapidamente degli altri esempi. Concludendo, tale teoria non è
stata all’altezza della promessa iniziale quale adeguato dispositivo esplicativo per la ricerca
sulla categorizzazione.
Un problema che accomuna le varie teorie, è la questione di come il linguaggio si leghi al
mondo. Una proposizione può essere precisata solo facendo un’inferenza implicita in base alle
nostre conoscenze generali. Il senso di una parola non viene selezionato in base a vincoli
semantici fissi, ma in base ad inferenze implicite (priming) fatte a partire dal contesto e da
questioni di fatto.
Per quanto riguarda la comprensione, dovremo quindi considerare il fatto che la comprensione
superficiale di un enunciato darebbe luogo ad una rappresentazione proposizionale,
avvalendosi di un linguaggio mentale con un vocabolario molto ricco e che, d’altra parte, le
rappresentazioni proposizionali, insieme ad indici contestuali ed inferenze implicite basate
sulle conoscenze generali, porterebbero alla costruzione di un modello mentale con struttura
analoga allo stato di cose descritto dal discorso.
1.2.6. NEUROPSICOLOGIA DELLA MEMORIA SEMANTICA (MS)
Alcuni disturbi afasici ed agnosici riflettono disturbi verbali o percettivi relativamente
periferici, mentre altri sono il risultato di problemi di elaborazione semantica. Questi ultimi
forniscono utili indicazioni circa l’organizzazione della memoria semantica ed, in questo
senso, possono delimitare le caratteristiche dei modelli che sono stati proposti.
La MS non è un sistema unitario, ma piuttosto è costituita da molteplici sottocomponenti
associate alle modalità attraverso cui le informazioni raggiungono tale memoria e che
definiscono i livelli di conoscenza.
Esistono delle distinzioni: la prima basata sulla modalità dell’input e la seconda riguardante il
livello a cui il deficit si realizza, ossia se interessi la prima fase di elaborazione oppure il
magazzino semantico.
Considerando i casi di alterazione del magazzino semantico, la natura di questi deficit può
fornire suggerimenti utili circa la sua organizzazione.
Goodglass, Klein, Carey e Jones (1966) osservarono che i problemi di denominazione nei vari
pazienti afasici, differivano tra loro: alcuni soggetti trovavano particolarmente difficile la
denominazione di categorie di parole quali i colori e le parti del corpo; altri avevano difficoltà
nel denominare alimenti o accessori per la cucina.
Warrington e Shallice (1984) studiarono quattro pazienti colpiti da encefalite erpetica, che
diede origine ad un danno cerebrale molto grave, con alterazioni della memoria semantica.
Questi pazienti non erano in grado di comprendere parole che facevano riferimento ad esseri
viventi, mentre erano perfettamente in grado di elaborare parole riguardanti oggetti inanimati.
Successivi studi dimostrarono però che altri pazienti mostravano una tendenza opposta,
evidenziando l’esistenza di una doppia dissociazione.
I deficit categoria-specifici suggeriscono, allora, informazioni circa l’organizzazione stessa
della memoria semantica. De Renzi et al. (1987) affermarono che la memoria autobiografica e
le memorie ad essa correlate, possono essere immagazzinate in qualche dominio separato della
memoria a lungo termine. Dunque l’idea che la memoria semantica sia divisa in varie parti,
coincide con molti dati presenti in letteratura.
Collins et al (1972) distinguono da un lato una componente lessicale contenente i nomi delle
parole conosciute da un individuo (e le relative informazioni fonemiche ed ortografiche),
dall’altra una componente semantica che conterrebbe i significati di parole e concetti.
Un’informazione in entrata (ad esempio un nome) attiverebbe automaticamente il nodo
direttamente rappresentante di questa parola ed i concetti corrispondenti attiverebbero altri
nodi della rete, a loro volta connessa agli stessi. Gli elementi sarebbero in associazione in
quanto membri di una medesima categoria (pecora-capra) o per associazione di significato
(pecora-belare). L’intensità di propagazione ed attivazione tra un nodo e l’altro, sarebbe
variabile per il grado di affinità tra nodo originario e nodi connessi.
Il propagarsi dell’attivazione ai nodi vicini, permette un più facile e pronto accesso ai concetti
ivi rappresentati.
Numerose osservazioni suggeriscono che nelle diverse patologie neuropsicologiche, ed in
particolare nella malattia di Alzheimer, non sono compromessi in modo omogeneo tutti gli
aspetti della memoria semantica.
Sono stati perciò, di volta in volta, ipotizzati deficit per singole categorie lessicali (parti del
corpo, colori, animali, nomi propri, etc.) e per modalità di elaborazione, vale a dire che
pazienti diversi esibiscono danni con conseguenti dissociazioni a seconda delle modalità di
presentazione dei compiti con cui vengono testati (verbali piuttosto che visivi). Una
dissociazione tra le conoscenze attivate dalla presentazione di figure e quelle attivate dalla
presentazione dei rispettivi nomi, è stata interpretata da una parte come prova dell’esistenza di
depositi di memoria semantica concettuale visiva e verbale funzionalmente distinti (Shallice,
1970), dall’altra come prova dell’esistenza di un sistema semantico concettuale amodale con
più vie di accesso e modalità specifiche funzionalmente separate (Riddoch, Humphreys,
Coltheart e Funnel, 1988).
Ancora poco chiaro è, tuttavia, il livello psicolinguistico di questa compromissione, risultando
alcuni studi a favore di un primitivo degrado del contenuto della conoscenza semantica, altri di
un disturbo nell’accesso e manipolazione delle informazioni in essa contenute.
1. 3. ASPETTI TASSONOMICI DI DERIVAZIONE NEUROPSICOLOGICA CIRCA
LA MEMORIA REMOTA
La memoria è quella funzione cerebrale deputata alla ritenzione e fruibilità delle informazioni
e delle esperienze apprese.
La neuropsicologia della memoria è stata un’area costantemente ed attivamente studiata da
quasi 100 anni. Molte delle evidenze neuropsicologiche di cui oggi disponiamo, derivano dallo
studio di pazienti aventi disturbi di memoria conseguentemente a danni cerebrali. Inoltre, è
proprio dalla comprensione del normale funzionamento della memoria che è possibile un
approccio a potenziali strategie riabilitative.
Inizialmente la memoria non era considerata un sistema unico, bensì un gruppo di sottosistemi
tra loro correlati, in cui si distingueva una memoria a lungo termine, basata su un
rafforzamento delle sinapsi tra neuroni, ed una memoria a breve termine, dovuta, invece, a
transitorie attivazioni elettriche dei relativi neuroni. Atkinson e Shiffrin (1968), svilupparono
una visione più completa dei sottoinsiemi della memoria e proposero il “modal model” (figura
1.1), secondo il quale le informazioni provenienti dall’ambiente esterno entrano in una serie di
registri sensoriali che passeranno poi le informazioni ad un magazzino a breve termine.
Quest’ultimo gioca un ruolo essenziale, senza il quale le informazioni non possono essere
trasferite all’interno o all’esterno del magazzino a lungo termine, nel quale gli apprendimenti
avvengono per trasferimenti che sono funzione diretta del tempo in cui un’informazione
permane nel magazzino a breve termine. Questo modello è stato, però, presto criticato:
l’assunzione che soltanto il passaggio attraverso il sistema a breve termine garantisca
l’apprendimento, è difficile da sostenere (Craik & Watkins, 1973). Alcune evidenze
contrastavano con l’importanza del magazzino a breve termine quale punto cruciale del
modello.
Baddeley e Hitch nel 1974 abbandonarono l’assunto di un magazzino unitario di memoria a
breve termine e proposero una teoria (“working memory”) che tenesse conto della presenza di
diverse sottocomponenti tra loro interconnesse (Figura 1.2.). Una parte di questo sistema, il
central executive, forma una interfaccia tra memoria a lungo termine e sistemi da esso
dipendenti, i quali combinano le capacità di immagazzinamento transitorio di informazioni con
una parte attiva di registrazione intenzionale e mantenimento all’interno dei sottosistemi. Uno
di questi è deputato al mantenimento visuo-spaziale delle informazioni (visuo-spatial scratch
pad o sketch pad), mentre l’altro riguarda le informazioni verbali (phonological o articulatory
loop); essi corrispondono ai sistemi a breve termine visivo e verbale descritti da Vallar e
Papagno.
1.3.1 Memoria a lungo termine
A differenza della memoria a breve termine, che è limitata per tempi e contenuti ed è altamente
vulnerabile all’interferenza, la memoria a lungo termine, ha una durata che copre la maggior
parte della vita, ha una capacità molto ampia ed è resistente all’interferenza.
Si ritiene che essa sia custodita secondo due modalità: un’ipotesi, che non è la più probabile,
presuppone che le modificazioni dinamiche alla base della memoria a breve termine,
divengano persistenti, mentre l’altra considera la memoria a lungo termine in relazione a
modificazioni plastiche piuttosto che dinamiche con variazioni funzionali permanenti del
sistema nervoso e quindi modificazioni morfologiche che determinino lo sviluppo di nuove
connessioni sinaptiche e la sintesi di nuove proteine (Kandel, Schwartz, Jessel, 1991).
Da un punto di vista fenomenologico, possiamo suddividere le funzioni della memoria a lungo
termine, nei seguenti stadi:
-“encoding”, ossia registrazione dell’informazione e quindi capacità di aggiungere nuovo
materiale al magazzino della memoria; si verifica sia
attraverso un processo di apprendimento, durante il quale il meteriale viene presentato
ripetutamente, sia mediante registrazione sulla base di una presentazione unica;
-“storage”, ossia capacità di immagazzinare conoscenze che successivamente possono essere
portate alla coscienza, e quindi immagazzinamento vero e proprio;
-“retrieval” che implica, invece, l’accesso al ritrovamento delle informazioni e quindi il
ritorno alla coscienza del materiale immagazzinato; non fa strettamente parte del processo di
memoria, ma è ad esso intimamente connesso.
Malgrado questi tre stadi siano strettamente legati tra loro e risulti difficile vincolare un
fenomeno come comprendente in modo esclusivo uno solo di essi, tale suddivisione viene
spesso utilizzata per favorire la comprensione dei sistemi della memoria.
Immagazzinamento e rievocazione dei ricordi a lungo termine sono alterati nelle sindromi
amnesiche, le quali possono presentarsi sotto sfumature diverse, a seconda del tipo di patologia
e del luogo della lesione.
Gravi deficit della memoria retrograda si osservano dopo lesioni di strutture nervose facenti
parte del sistema limbico. Quest’ultimo si estende lungo la formazione ippocampale dei nuclei
dell’amigdala, i lobi temporali mediali, il fornice, i corpi mammillari fino ai nuclei anteriori e
dorso-mediali del talamo, al cingolo, all’area settale e alla superficie orbitale dei lobi frontali.
Si è visto, in particolare, che l’ippocampo destro e/o il lobo temporale destro, svolgono
funzioni di consolidamento per materiale spaziale, mentre l’ippocampo sinistro e/o il lobo
temporale sinistro, svolgono le stesse funzioni per materiale verbale.
Il substrato anatomico dell’apprendimento e della memoria comprende però, non solo le
strutture diencefalico-ippocampali, ma anche parti speciali della neocorteccia e della
formazione reticolare mesencefalica; esistono regioni limitate della corteccia temporale,
parietale ed occipitale che hanno relazioni privilegiate con le diverse “memorie speciali”.
Nelle varie patologie i deficit della memoria, possono comprendere, quindi, aspetti differenti.
Deficit della memoria semantica sembrano essere più frequentemente legati a lesioni del lobo
temporale e parietale sinistro, antero-inferiori o posteriori all’area di Wernicke (Adams &
Victor, 1989 ).
1.3.2 Distinzione tra amnesia anterograda e retrograda
Per amnesia anterograda si intende l’incapacità del paziente, a partire dall’insorgenza della
malattia, di apprendere nuove informazioni, che siano verbali o meno.
Danni della memoria (rievocazione) per eventi ed informazioni appresi precedentemente
l’inizio di un processo patologico vengono, invece, definiti con il termine di amnesia
retrograda (RA) che rappresenta pertanto l’incapacità, parziale o totale, di rievocare
informazioni apprese in un lontano o lontanissimo passato, recuperandole dalla memoria
remota.
Spesso questi tipi di amnesie possono coesistere. Kopelman nel 1985, studiando alcuni
pazienti con sindrome di Korsakoff, tramite test che valutavano la memoria remota, notò che
gran parte dei danni a questo livello erano riconducibili a deficit della memoria anterograda.
Anche Wilson, Kaszniak e Fox (1983), studiando i danni della memoria remota nei pazienti
con AD conclusero che, trattandosi di una malattia a lenta progressione, era possibile che la
perdita dei ricordi riguardanti le ultime decadi rappresentasse in realtà un deficit
nell’apprendimento anterogrado, che coinvolge tale patologia fin dagli stadi più precoci.
Una misurazione della memoria remota implica una serie di problemi, infatti spesso la capacità
di rispondere ai vari tests, è correlata al quoziente intellettivo ed al livello culturale e di
educazione del paziente, necessitando quindi a tal proposito di un riaggiustamento (Kopelman,
1985).
Una perdita della memoria remota viene messa in evidenza interrogando i pazienti su
personaggi ed eventi pubblici che persone a lui simili -per età ed ambiente socio-culturale-
certamente ricordano, o su episodi salienti della loro vita privata. In genere il ricordo è
maggiormente compromesso per gli eventi temporalmente più vicini all’insorgenza della
malattia piuttosto che per quelli di gran lunga precedenti, come ad esempio i ricordi della
fanciullezza.
Un approccio al paziente con alterazioni della memoria remota può consistere, ad es. nel
valutare risposte alle seguenti domande:
Qual’è il nome dei suoi figli e quali sono le loro date di nascita?
Quando si è sposato?
Come era il nome da nubile di sua madre?
Come si chiamava la sua prima insegnante di scuola?
Quali sono i lavori che ha fatto? (Adams & Victor, 1989 )
Warrington et al. (1971) cercarono per primi di sviluppare uno strumento di valutazione
dell’amnesia retrograda studiando inizialmente soggetti normali, giovani ed anziani, circa le
loro capacità di rievocazione e riconoscimento per eventi pubblici del passato ed, in generale,
constatarono che più vecchio era l’evento e meno era probabile che esso venisse ricordato.
Inoltre nell’anziano la capacità di ricordare questi eventi era minore rispetto a tutti i momenti
della vita. I pazienti amnesici mostravano una prestazione generalmente più bassa dei soggetti
normali ed alcuni di essi presentavano delle difficoltà più accentuate per gli eventi più recenti.
L’impossibilità di accedere alle vecchie tracce mnestiche, suggerisce che esse sono andate
distrutte o che sono ancora presenti, ma non sia possibile accedervi.
Questa interpretazione di difficoltà di recupero delle informazioni, è supportata
dall’osservazione che l’amnesia retrograda conseguente ad un trauma cranico a volte
diminuisce, e il paziente all’inizio è in grado rievocare solo eventi molto lontani, ma poi
recupera gradualmente fino ad arrivare a ricordarsi ogni cosa, fino a due secondi prima
dell’incidente.
Un esempio particolarmente chiaro di RA viene mostrato da uno studio di Squire e Choen
(1982) circa disturbi di memoria provocati da terapie elettroconvulsive (TEC) in cui si vede
chiaramente come il trattamento con TEC tenda a compromettere la memoria per i programmi
più recenti e non i ricordi più lontani.
Diversi altri studi sono stati effettuati al riguardo e, sebbene in tutti esistano problemi di tipo
metodologico, è possibile affermare che i pazienti amnestici tendono ad avere prestazioni
compromesse nei vari test ed alcuni di essi mostrano un gradiente che indica una
compromissione specialmente per i ricordi più recenti.
L’evidenza di questo gradiente è mostrata in modo particolare nello studio di Butters e Cermak
(1986), riguardante un paziente con sindrome di Korsakoff, ma esso verrà meglio evidenziato
nel paragrafo relativo a tale patologia.
Tornando al concetto di RA come deficit di recupero dell’informazione, Warrington e
McCarthy (1988) descrissero un caso di gravissima amnesia conseguente ad encefalite erpetica
(anche questo sviluppato nel paragrafo relativo), il quale permette di concludere che la
memoria remota non rappresenta una funzione unitaria e che ogni caso patologico può
coinvolgere determinate componenti di essa e non altre. Ad esempio, alcuni pazienti amnesici
mostrano deficit per la memoria episodica, ma hanno intatta quella procedurale, dissociazione
spesso interpretata come incapacità, da parte degli stessi, ad usare strategie cognitive coscienti
(Butters, 1985).
1.3.3 Apprendimento implicito ed esplicito
Ciò che era stato, quindi, inizialmente assunto come unitario, ha dimostrato di essere un
insieme di sottosistemi interconnessi, provenendo le principali evidenze circa tale
frazionamento proprio dalla neuropsicologia.
E’ importante menzionare la distinzione tra forme di memoria implicita ed esplicita (Graf and
Schacter, 1985; Schacter, 1987).
La memoria implicita si riferisce a recall non intenzionali, riguardanti esperienze precedenti;
non coinvolge la consapevolezza cosciente del soggetto ed è valutabile tramite tests che non
fanno esplicito riferimento a tali esperienze. La memoria esplicita, invece, si riferisce a ricordi
coscienti di esperienze precedenti; è tipicamente valutabile attraverso i tests standard di recall e
recognition, che richiedono retrieval intenzionale.
Più specificatamente, è stato evidenziato che i pazienti amnesici classici presentano forme di
apprendimento preservate, le quali fanno parte del cosidetto apprendimento implicito.