2
una censura mossa dalla Comunità Europea, introducendo una
nuova e complessa procedura che si propone di risolvere il
problema dell’insolvenza della grande impresa, salvaguardando la
continuità produttiva ma senza ledere i diritti dei creditori.
Senza dubbio non è facilissimo armonizzare le due finalità, quella
conservativa e quella liquidativa, riuscire a tutelare i creditori e a
mantenere i livelli occupazionali.
Il decreto legislativo 8 luglio 1999, n° 270, è stato certamente un
tentativo in questo senso.
L’elaborato si occupa in particolare del contrasto che sorge
inevitabilmente tra le due finalità e cerca di verificare soprattutto
quali miglioramenti la nuova disciplina abbia introdotto per quel che
concerne la tutela del ceto creditorio.
3
La crisi economica degli anni Settanta e la legge 95 del 1979:
l’introduzione di una nuova disciplina
Le crisi che, in Italia, l’economia ha vissuto più o meno
periodicamente, hanno nel tempo fatto emergere esigenze nuove e
diverse rispetto a quelle considerate nella legge fallimentare.
Lo Stato ha finito con l’intervenire in modo sempre più rilevante,
cosa che ha comportato una sua sempre più diretta presenza nelle
vicende economiche.
Un momento particolarmente caratterizzato da tale tendenza si è
verificato con la recessione economica che ha investito il nostro
paese negli anni ’70, quando molte grandi imprese entrarono in crisi.
La crisi dell’impresa medio-grande provoca, infatti, riflessi negativi in
numerose direzioni, arrivando a produrre anche un rilevante allarme
sociale.
In questo contesto si venne sempre più affermando la necessità di
conservare i complessi produttivi e l’attività d’impresa, seppur
insolvente, accanto ed in contrapposizione con le tradizionali ragioni
di tutela esclusiva del ceto dei creditori.
Vennero in primo piano nuovi valori quali la salvaguardia degli
organismi produttivi e dei livelli occupazionali.
Naturalmente, per quanto riguarda le procedure concorsuali, non
poteva esserci divario maggiore tra il sistema concorsuale
tradizionale
1
e la realtà economica e sociale così profondamente
mutata.
Di qui gli sforzi della dottrina e della prassi, di forzare a livello
4
teorico e pratico gli istituti per costruire quello che è stato definito
comunemente uso alternativo delle procedure concorsuali.
2
Tali sforzi erano però anche accompagnati da reiterate proposte di
riforma di quelle procedure da parte degli studiosi, con particolare
riguardo all’amministrazione controllata.
3
Si resero necessari interventi dello stato per la tutela di ragioni
sociali, costituite dalla perdita del posto di lavoro, di ragioni
economiche, consistenti nella valutazione negativa derivante dalla
scomparsa di un’attività e dalla disgregazione dei mezzi di
produzione e questi interventi assunsero nel tempo le forme più
varie.
Si possono ricordare, solo per citare i più importanti, i crediti
speciali, i quali sostenevano l’attività imprenditoriale tramite il
finanziamento agevolato, la nazionalizzazione di attività
“strategiche”, l’istituzione dei consorzi bancari, volti a fornire i mezzi
per le ristrutturazioni e i risanamenti, le partecipazioni pubbliche e
l’istituzione di enti di gestione che assumevano partecipazioni nelle
imprese da salvare.
Sarebbe impossibile ripercorrere tutti i molteplici interventi legislativi
avvenuti dagli anni Settanta in poi nei più disparati settori
dell’economia: ogni qualvolta si è presentato un problema derivante
da situazioni di crisi della grande impresa, sono stati approntati
provvedimenti di salvataggio.
La categoria forse più interessante di questi interventi è
1
Tutto incentrato alla soddisfazione dei creditori senza attenzione alla conservazione del patrimonio
produttivo.
2
Per uso alternativo delle procedure minori, s’intende l’utilizzo, di dette procedure, a scopi diversi da
quelli indicati dalla ratio della legge. Cfr. Atti del Convegno di Verona 28-29 ottobre 1977, su “L’uso
alternativo delle procedure concorsuali” in Giur. Comm., 1979, I, pag. 223 ss.
5
rappresentata da quelli che ebbero una logica operativa sul piano
aziendale, imprenditoriale, di gestione o di partecipazione.
In questo quadro storico-economico si pose l’intervento legislativo,
che intese introdurre nell’ordinamento concorsuale la disciplina
dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Subito fu dichiarato che l’intento del nuovo strumento consisteva nel
dare vita ad una disciplina in cui potessero essere salvaguardati da
un lato gli organismi produttivi, dall’altro le ragioni dei creditori.
Il decreto legge 30 gennaio 1979, n° 26
4
, prima, e la legge di
conversione 3 aprile 1979, n°95, poi, introdussero nel nostro
ordinamento una nuova procedura concorsuale denominata
“amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”
sottraendo determinate imprese, le quali presentassero particolari
requisiti quali un certo numero di dipendenti e un’esposizione
debitoria notevole e qualificata,
al fallimento ed assoggettandole ad una procedura di carattere
amministrativo, sostanzialmente disciplinata secondo le regole della
liquidazione coatta amministrativa.
5
In pratica veniva previsto un potere di intervento della Pubblica
Amministrazione che sorgeva con la dichiarazione di insolvenza
senza preesistere ad essa.
Secondo l’interpretazione che fu subito data all’art. 1,
l’amministrazione straordinaria veniva disposta dal Ministro
3
La quale appariva come la più idonea a soddisfare le nuove esigenze.
4
Il d.l. 26/79 era stato preceduto dal d.l. 602/78 (c.d. decreto Donat Cattin) che coinvolgeva nel dissesto
tutte le società del gruppo, pur non insolventi. Serie critiche ne impedirono la conversione.
5
L’art. 1, co. 3, sancisce: “la procedura è disciplinata, in quanto non diversamente stabilito con il
presente d.l. dagli artt 195 e ss. e dall’art. 237 della legge fallimentare”.
6
dell’industria, in modo automatico, quando fosse stata accertata
giudizialmente l’insolvenza dell’impresa.
1.1 Lo scopo della procedura fallimentare così come
disegnata nel 1942
Il legislatore del 1942 aveva realizzato una legge fallimentare nella
quale sembrava fuori di dubbio che, alla dichiarazione di fallimento,
conseguisse immediatamente, salvo il caso eccezionale di
autorizzazione all’esercizio provvisorio, ex art. 90 l. fall., la
cessazione dell’attività d’impresa con l’inizio di una procedura
liquidatoria a carattere pubblicistico e incompatibile con un esercizio
attivo dell’impresa.
La tutela era (e lo è ancora per i soggetti sottoposti a fallimento)
concentrata sui creditori pregiudicati dalla crisi, ai quali si riteneva
che la continuazione dell’attività imprenditoriale non potesse che
recare ulteriore danno.
Si è osservato giustamente a tal proposito che alla base di tale
concezione vi era la coerenza dell’istituto fallimentare con un
sistema economico concorrenziale secondo il classico modello
liberale.
Si realizza l’interesse dei creditori insieme a quello generale della
collettività proprio perché il fallimento libera risorse male impiegate
per porle a disposizione di impieghi più efficienti e produttivi.
6
Il fine immediato del fallimento non è in conflitto ma coesiste con
quello superiore pubblicistico della soppressione dell’impresa
6
Sul punto si veda D’Alessandro, Politica della crisi d’impresa: risanamento o liquidazione
7
insolvente.
Infatti i due interessi sono legati da un rapporto di strumentalità in
quanto al fine ultimo della eliminazione dell’impresa insolvente si
perviene attraverso la liquidazione concorsuale che, in via diretta,
porta alla soddisfazione dei creditori nel rispetto della par condicio.
La normativa fallimentare è dunque fondata su una logica
“darwiniana” e su una logica liquidatoria, nonostante l’uso alternativo
delle procedure minori e i tentativi della giurisprudenza tesi a
valorizzare la sopravvivenza al fallimento della struttura aziendale
7
.
1.2 L’emersione di nuovi interessi meritevoli di tutela
La realtà socio-economica ha presentato nel tempo però, come
abbiamo già avuto modo di accennare, l’emergere di altri interessi
(conservazione del posto di lavoro, interessi dei consumatori o
dell’economia generale) che sembrano esigere soddisfazione
preferenziale rispetto a quelli dei creditori già pregiudicati dallo stato
d’insolvenza dell’imprenditore.
Soprattutto i lavoratori non sono più ricondotti all’ampia categoria
dei creditori, ma sono visti come soggetti portatori di un’autonoma
istanza di conservazione del complesso produttivo a garanzia del
mantenimento del posto di lavoro.
Tale nuovo stato di cose fa elaborare alla dottrina una diversa
sistematica, attraverso la quale si inquadra anche il fallimento nelle
gestioni sostitutive dell’imprenditore e si finisce col negare che il
dell’azienda?, in Il fallimento, 1980, p. 31.
7
Soprattutto la giurisprudenza del lavoro che ha optato per l’esclusione dell’estinzione automatica del
rapporto di lavoro per effetto del fallimento.
8
fallimento produca, come effetto immediato e peculiare, la
cessazione dell’impresa; non solo, ma si arriva a teorizzare la
persistenza dell’attività imprenditoriale in capo al fallito con la
sostituzione coattiva del curatore nella gestione.
8
La giurisprudenza, a sua volta, utilizza l’istituto dell’amministrazione
controllata per situazioni nelle quali sussiste uno stato di insolvenza
non particolarmente grave, arrivando a teorizzare il concetto di
insolvenza “reversibile” come presupposto della procedura minore.
9
Così accade che l’attività imprenditoriale non cessa pur in presenza
di una constatazione giudiziale dell’insolvenza.
1.2.1 Lo sbocco delle tendenze suddette
Nella legge 3 aprile 1979, n° 95 che disciplinò l’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in crisi, l’iter dottrinale e
giurisprudenziale, fin qui descritto, giunse alla sua logica
conclusione.
Infatti in tale disciplina l’esercizio dell’impresa nell’ambito di una
procedura concorsuale basata sullo stato di insolvenza si
manifestava, ancorché eventuale, in realtà come evento normale
10
tanto che il legislatore forniva, a tale procedura, una molteplicità di
strumenti tecnico-giuridici che la rendevano concretamente possibile
8
Cfr. Rivolta, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969 p. 232 ss.
9
Sul punto sono illuminanti le sentenze di: Pret. Genova, 16 dicembre 1975, in Giur. comm. 1976, II,
p.217; Pret. Bassano del Grappa, 16 gennaio 1976, ivi p. 231.
10
Dottrina e giurisprudenza erano concordi nel ritenere che – al di là del carattere puramente eventuale
attribuito al provvedimento dell’art. 2, comma 1, l. 95/79, mediante l’uso del verbo “può” – la
prosecuzione dell’attività imprenditoriale rappresentava una conseguenza normale dell’apertura della
procedura, a fronte delle finalità risanatrici che la connotavano (cfr., per tutti, Tarzia, I creditori
nell’amministrazione straordinaria, in Giur. comm. 1982, I, p. 730; in giurisprudenza, Cass., 14 luglio
1989, n° 3319, in Il fallimento, 1989, p. 1123).
9
ed anzi auspicabile.
11
2 I creditori nell’amministrazione straordinaria del 1979
così come integrata dai successivi interventi normativi
2.1 Gli articoli 2740 e 2741 del codice civile: i principi della
responsabilità patrimoniale del debitore e della par
condicio creditorum
Prima di cominciare a descrivere come è disciplinata la tutela dei
creditori nelle procedure concorsuali in generale e
nell’amministrazione straordinaria in particolare, può essere utile
dare una sommaria descrizione di quelli che sono i principi cardine
dell’ordinamento giuridico italiano riguardo alla responsabilità
patrimoniale e al trattamento dei creditori.
Il primo riferimento normativo da esaminare è senza dubbio l’articolo
2740 del codice civile in cui, al primo comma, si afferma che “il
debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi
beni presenti e futuri”.
Il criterio sistematico seguito dal legislatore del 1942 dimostra che la
concezione alla base del dettato normativo è appunto quella di
operare una scissione tra l’obbligo e la responsabilità nel senso che
la responsabilità del debitore e il corrispettivo potere del creditore di
agire sui beni del primo per la realizzazione del suo diritto
configurano una situazione giuridica autonoma rispetto all’originario
rapporto obbligatorio.
11
Sul punto Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della
disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Giur. comm., 1980, I, p. 559 ss.
10
La responsabilità patrimoniale è dunque configurata come un mezzo
di tutela del diritto del creditore, ossia come uno strumento volto alla
realizzazione coattiva di tale diritto; perciò, dal punto di vista
funzionale, si può parlare di una sanzione all’inadempimento
dell’obbligo.
12
Dal punto di vista strutturale, tale sanzione consiste in un tipico
strumento processuale; essa infatti si risolve dal alto attivo
nell’azione del creditore e dal lato passivo in uno stato di
soggezione del debitore.
Lo svolgimento fisiologico del rapporto importa che l’adempimento
del debitore da un lato attua il contenuto dell’obbligo, dall’altro
realizza il diritto del creditore.
Nel caso in cui il debitore non adempia spontaneamente,
l’ordinamento giuridico appresta una sorta di surrogato della
prestazione che ha per il creditore il medesimo valore di questa.
Tale surrogato è appunto la responsabilità patrimoniale, ossia la
soggezione dei beni, presenti e futuri, del debitore all’azione
esecutiva del creditore.
L’articolo 2741 del codice civile, invece, si occupa più
specificamente della gerarchia tra i creditori: “I creditori hanno
eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le
cause legittime di prelazione”.
La formula del codice dimostra anche qui l’intenzione del legislatore
di orientarsi verso una concezione che nega un diritto sostanziale
dei creditori sui beni del debitore.
12
Nicolò, Responsabilità patrimoniale, concorso dei creditori e clausole di prelazione, in Commentario
del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1955 pag. 12.
11
Il correlato della responsabilità patrimoniale del debitore è, coma
abbiamo appena detto, l’azione esecutiva che può colpire tutti i beni
del debitore.
Ma poiché tutti i creditori hanno il diritto di agire sui beni del debitore
per realizzare coattivamente il contenuto del loro diritto di credito,
13
la legge si preoccupa di risolvere il problema del concorso delle
varie azioni esecutive.
Il codice civile da una soluzione egualitaria al suddetto problema,
disponendo che l’azione esecutiva esercitata su un bene
determinato da un creditore non esclude la concorrente azione
esecutiva degli altri e che tutti hanno il diritto di concorrere,
proporzionalmente all’entità dei rispettivi diritti, sul ricavato
dell’esecuzione forzata.
Questo è, in altre parole, il principio della par condicio creditorum.
Accanto alla forma di esecuzione forzata individuale, nella quale il
principio dell’articolo 2741 è attuato attraverso l’intervento degli altri
creditori nel processo esecutivo, il nostro ordinamento regola
l’esecuzione collettiva nella quale quel principio deve trovare
integrale applicazione.
2.2 L’esecuzione collettiva
L’esecuzione collettiva produce il fatto che tutti i beni del debitore
sono destinati alla soddisfazione, in sede esecutiva, di tutti i creditori
ai quali perciò è inibito l’esercizio dell’azione esecutiva individuale.
Il modello tradizionale di esecuzione collettiva è rappresentato dal
13
E’ quindi possibile in concreto che più creditori esercitino sullo stesso bene la loro azione.
12
fallimento, sul quale poi si sono modellate le altre forme di
esecuzione collettiva che nella legislazione, anche recente, hanno
acquistato particolare rilievo.
Quel che interessa rilevare, per il momento , è che azione esecutiva
individuale e azione esecutiva collettiva sottostanno entrambe al
principio della par condicio creditorum contenuto nell’articolo 2741 dl
codice civile.
2.3 La responsabilità patrimoniale dell’imprenditore
commerciale
Quando si tratta di responsabilità patrimoniale riferita
all’imprenditore commerciale, che versa in quella particolare
situazione definita insolvenza, da intendere come dissesto
irreversibile, il principio di diritto comune assume connotati e
caratteristiche nuove e peculiari.
La responsabilità da generica diventa universale, interessando
l’intero patrimonio dell’imprenditore; lo strumento speciale di
realizzazione dei rapporti obbligatori insoddisfatti non è offerto ai
singoli creditori o ai più solerti, bensì alla generalità; il procedimento,
quindi, non può essere condizionato all’impulso dei soggetti
interessati ma viene gestito solo dagli organi che hanno il potere-
dovere di compiere tutti gli atti necessari per il suo svolgimento e per
il raggiungimento dell’obiettivo istituzionale fissato dal legislatore.
13
2.4 L’esecuzione collettiva nel fallimento
Il fallimento, anche se l’attività di amministrazione svolta dagli organi
concorsuali rappresenta il mezzo tecnico per consentire la
soddisfazione coattiva dei creditori, tenuta presente l’intera
disciplina dell’istituto, costituisce un processo di esecuzione.
Il fine della procedura fallimentare, cioè la soddisfazione delle
ragioni dei creditori attraverso l’esecuzione forzata su tutto il
patrimonio del debitore, con l’applicazione della par condicio, è
identico a quello del processo esecutivo ordinario, con la
particolarità, rispetto a quest’ultimo, che il fallimento è caratterizzato
dalla concorsualità ed universalità.
I mezzi attraverso i quali il fine satisfattivo viene raggiunto non
differiscono sostanzialmente da quelli del processo esecutivo
individuale: l’iniziativa per l’instaurazione della procedura
fallimentare spetta, innanzitutto, ai creditori, il cui potere di attivare
l’esecuzione ordinaria si trasforma, per effetto dello stato di
insolvenza, nel potere di chiedere l’esecuzione collettiva, ed in
secondo luogo al debitore, il quale, pertanto, ha un potere di azione
contro se stesso.
Si ha esercizio di giurisdizione anche nelle ipotesi previste
dall’articolo 6, legge fallimentare;
14
quando l’iniziativa è del Pubblico
Ministero e quando è d’ufficio solo temporaneamente non c’è azione
da parte dei privati, in quanto i creditori esercitano poi l’azione
stessa chiedendo l’accertamento del loro diritto nel procedimento di
verificazione del passivo fallimentare e partecipando al concorso.
14
Esperita l’istruttoria, si giunge anche nel processo di fallimento alla
formazione di un titolo esecutivo, ovviamente diverso nella struttura
e nel contenuto da quelli previsti dall’articolo 474 cod. proc. civ., che
è dato dalla sentenza dichiarativa di fallimento, la quale accerta
l’esistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla
legge e costituisce lo status di fallito, dando inizio all’esecuzione su
tutto il patrimonio del debitore.
15
Si può dunque tranquillamente escludere la natura amministrativa
della procedura concorsuale fallimentare e, quindi, dell’attività
espletata dagli organi fallimentari e ritenere che questa ha carattere
processuale essendo il fallimento un processo esecutivo di natura
contenziosa, visto che per giurisdizione contenziosa si deve
intendere quella in cui l’attività giurisdizionale si caratterizza come
attività posta in essere da un giudice: cioè da un soggetto che ai
sensi degli articoli 101 e ss. della costituzione è sottoposto
unicamente alla legge, essendo terzo rispetto agli interessi delle
parti, e indipendente rispetto a qualsiasi potere o soggezione.
16
Nel processo di esecuzione fallimentare i creditori sono parte
sostanziale attiva del processo, perché agiscono per tutelare e
consentire la soddisfazione di un proprio diritto di credito e sono
altresì parte formale in quanto forniti di facoltà poteri ed azioni che
possono esercitare nelle più diverse situazioni indicate dalla legge.
14
Ci riferiamo all’ultima parte dell’articolo 6, ove sono indicati gli ultimi due soggetti aventi il potere di
iniziativa inerente l’avvio della procedura fallimentare.
15
Così Pellegrino, L’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali, Padova, 1992. pag. 2.
16
Così Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996.