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Introduzione
Una volta usavo dire che le persone che mi piace-
vano erano quelle intelligenti e con il senso
dell‟umorismo. Poi ci ho ripensato e ora dico che
mi basta abbiano il senso dell‟umorismo.
Perché, in fondo, cos‟è il sense of humour se non
intelligenza, cioè la capacità di distinguere fra ciò
“che è” e ciò che “dovrebbe essere”, saper coglie-
re l‟incongruità di un comportamento in un certo
contesto, stupefarsi per le esagerazioni, le incapa-
cità, le inadeguatezze?
Qui si farà più riferimento all‟umorismo anglosas-
sone dell‟ironia, dell‟understatement e
dell‟assurdo, più difficile, ma che dà più soddisfa-
zioni. Per persone intelligenti.
Franco Nervo, scrittore
1
.
“Il lato “B” della pubblicità” è un titolo che viene scelto per parlare di un ar-
gomento fortemente dibattuto negli ultimi decenni da studiosi di pubblicità e
1
http://www.bluestyle.org/umorismo.htm
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non solo: si tratta dello humour come modo di reinventare un annuncio pubblici-
tario che cerca di coinvolgere il proprio interlocutore (meglio se facente parte
del target di riferimento del prodotto pubblicizzato) e che non ha come unico
scopo la persuasione all‟acquisto ma in particolar modo cerca di creare, attorno
al prodotto/azienda, un‟aura di positività, migliorando certamente la comunica-
zione tra azienda e target prescelto.
Quale miglior titolo, quindi, che uno che utilizza la stessa tecnica di cui si parle-
rà in questa tesi? Non è del resto anche la tesi di laurea un “prodotto” che do-
vrebbe invitare alla lettura piuttosto che essere mera riproduzione di frasi e re-
toriche già esposte da altri? E come prodotto va perciò “pubblicizzato” nella
maniera più opportuna, a partire proprio dal titolo, che vuole per l‟appunto es-
sere l’Headline nell‟annuncio del mio prodotto.
Parlando di linguaggio pubblicitario, oltre che far riferimento alla complessa
terminologia specialistica utilizzata e riconosciuta da un particolare universo di
professionisti del settore, si intende inoltre qualificare quell‟insieme di strumen-
ti e strategie di cui i professionisti di questo settore si avvalgono allo scopo di
persuadere e di convincere un pubblico, il più vasto possibile a diventare acqui-
rente dei prodotti che quel linguaggio propone alla sua attenzione, puntando sul-
la condivisione delle proprie enunciazioni da parte del pubblico a cui si rivolgo-
no.
Dal momento che lo strumento principale della pubblicità è la lingua, il lavoro
dei pubblicitari consiste sostanzialmente nell‟utilizzare, manipolare, plasmare e
piegare questa alle strategie della persuasione. Ma, quando qualcuno prova a
persuadere è perché sa bene di non essere in grado di obbligare. E per convince-
re qualcuno a decidere di fare qualcosa, se non possiamo obbligarlo, dobbiamo
prima intervenire sulle opinioni che l'altro ha a proposito dell'avere quell'opinio-
ne che vorremmo condividesse, del fare quella cosa che vorremmo facesse.
A tale scopo il riconoscimento di un modello linguistico che sia condiviso,
compreso e accettato dal pubblico al quale si rivolge è di fondamentale impor-
tanza per creare un rapporto di familiarità con lo stesso: che poi tale familiarità
venga stimolata e lusingata o al contrario capovolta e negata dipende dal tipo di
strategia adottata, dal genere del prodotto pubblicizzato, dal livello culturale
dei destinatari che si intende raggiungere, ecc.
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Capire perché funziona la comunicazione persuasiva vuol dire capire cosa in-
fluisce sul funzionamento della nostra mente quando giudica in base al contesto
culturale, alle emozioni, agli affetti, ai valori. Il concetto appena espresso fa ri-
ferimento a quello che Umberto Eco chiama Enciclopedia
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, ovvero quell‟insieme
di attitudini interpretative che una comunità ha acquisito nel corso del tempo,
nell‟ambito della vita all‟interno di una determinata cultura e di determinate
abitudini interpretative. Del resto, dice sempre lo stesso Eco
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, il parlante è an-
che dotato di una competenza narrativa che gli permette di penetrare i profondi
significati delle varie esperienze che gli si propongono: il parlante avrebbe
un‟esperienza culturale che via via lo aiuterebbe ad interpretare tutte le succes-
sive esperienze narrative (testi) di fronte a cui si viene a trovare. Detto in altre
parole: quando interpretiamo qualcosa attiviamo virtualmente tutta la nostra
cultura inerente quel qualcosa.
Questo, ovviamente, accade anche durante l‟interpretazione (più o meno con-
sapevole) delle pubblicità da parte del pubblico.
Mi sembra interessante studiare tale fenomeno alla luce delle nuove dimensio-
ni che il linguaggio pubblicitario sta assumendo, dove per “nuove dimensioni” in-
tendo dire il nuovo modo di consegnare senso agli spettatori (o telespettatori se
si trattasse di uno spot televisivo). Non è raro infatti che molte agenzie pubblici-
tarie si facciano oggi affiancare in questo loro compito da linguisti e semiologi,
che, in quanto professionisti del linguaggio, possiedono gli strumenti ideali per
capire in anticipo se una certa parola collocata in un certo contesto potrà fare la
fortuna di un certo prodotto.
Questo dimostra che, nonostante l'importanza delle componenti di musica e
immagine nel messaggio pubblicitario sia andata sempre aumentando negli ulti-
mi anni, l'attenzione alla lingua rimane viva tra i pubblicitari. Non basta più in-
formare e ora non basta più nemmeno enfatizzare, crogiolarsi in uno spreco di
superlativi e termini come “nuovo”, “il primo”, “il mago di”, “una rivoluzione
nel campo di” (anche se la tecnica dell'iperbole non è stata di certo abbandona-
ta dai copywriter). La novità di cui si sente fortemente il bisogno è sapersi ade-
2
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Harvard University, Norton Lectures, 1992-1993, Milano, Ta-
scabili Bompiani, 2007. Originally published under the title: Six Walks in the Fictional Woods.
3
U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino, 1984. Citazione della Prof.ssa Zaganelli durante
una lezione di Teorie e Tecniche della Narrazione, a.a. 2010/11.
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guare al pubblico di oggi, più consapevole ed evoluto, che non si accontenta di
essere semplicemente informato o stupito, ma vuole essere sedotto. Il consuma-
tore è diventato sempre più critico, selettivo e preparato. Conosce bene (o al-
meno ha la presunzione di conoscere) tutti i meccanismi (che è un tempo si rite-
nevano occulti) che muovono la macchina pubblicitaria e per questo non la de-
monizzata più, come in passato. Anzi la accetta, ma pretende che, perlomeno,
gli sappia parlare in modo intelligente.
I pubblicitari se ne rendono conto: rinunciano sempre di più all'enfasi, all'iper-
bole; introducono forme di understatement, di ironia, di straniamento; abban-
donano la manipolazione linguistica vistosa (quella che deforma la parola, o in-
staura il neologismo, per esempio); affidano il messaggio a parole non marcate,
magari sfruttandone la polisemia, o utilizzano figure retoriche raffinate, come la
metafora, la metonimia, la sineddoche; alla filastrocca, allo slogan in rima, pre-
feriscono soluzioni ritmiche meno vistose e più sofisticate, sottili suggestioni al-
litteranti.
Insomma, i pubblicitari migliori puntano sempre di più sulla dignità artistica
del prodotto e sul coinvolgimento estetico-emotivo dello spettatore che deve es-
sere sedotto visivamente e acusticamente attraverso spot dove dietro
l‟apparente associazione di valori negativi al prodotto si cela, ovviamente, la so-
lita promessa di trasgressione, anche grazie al visual dell‟annuncio.
Nel corso di questa mia analisi, come già anticipato, entreranno in gioco diver-
si termini come ironia, understatement e humour per l‟appunto, termini di cui
cercherò di dare le corrette definizioni ricorrendo anche alle dovute differenzia-
zioni, facendo riferimento alla letteratura sull‟argomento . Vedremo come nono-
stante certuni pensino che ironia e humour possano essere considerati sinonimi
per indicare uno stesso stato delle cose, in realtà sono solo termini “imparenta-
ti” (primo capitolo).
Nel secondo capitolo entreremo nel vivo dell‟argomentazione distinguendo i
vari tipi di humour che sono stati individuati dagli studiosi del settore e per o-
gnuno si tenterà di capirne la messa in atto. Vedremo come l‟uso dello humour
sembri scaturire da una dicotomia che è sì condizione necessaria, ma tuttavia
non sufficiente affinché l‟attenzione dello spettatore sia convogliata sul prodot-
to (o come dicevamo, su di una più positiva visione della marca/azienda). La
condizione per cui tutto questo si realizzerà sarà la risoluzione di tale dicotomia
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grazie ad un processo interno allo spettatore stesso, poiché incaricato dallo spot
di risolvere questa contraddizione: proprio in questa risoluzione sembra infatti
risiedere la manifestazione dello humour. Un breve accenno verrà qui fatto an-
che ai rischi che si corrono con l‟uso dello humour in pubblicità. Alla fine del ca-
pitolo si metteranno in evidenza le differenze della pubblicità italiana rispetto a
quella straniera per quanto riguarda l‟uso dell‟ironia.
Al fine di comprendere quali obiettivi comunicativi sono più probabilmente
raggiungibili attraverso l‟uso dell‟ironia e dell‟understatement (che altro non è
poi che una “pacata” forma d‟ironia), si farà una breve considerazione sulla ca-
pacità dello humour di suscitare un'emozione, classificando eventualmente le
differenti situazioni emozionali che ne possono scaturire: riso, pena, stupore,
tristezza, ecc.. Ovvero si tenterà di capire come un determinato stimolo sia ca-
pace di suscitare una specifica risposta nell‟interlocutore, un‟emozione. (terzo
capitolo).
Nel quarto capitolo verranno presentati due casi di strategia creativa che uti-
lizzano understatement e humour: Volkswagen per l‟understatement (ad opera
di quel genio creativo che rivoluzionò la storia della comunicazione, nonché
dell‟impianto del reparto creativo in agenzia poiché fu il primo a mettere insie-
me un copy e un art nella stessa scrivania che fu William Bernbach, detto Bill),
Diesel di Renzo Rosso per lo humour.
Infine nel quinto capitolo proporrò una brave riflessione sull‟uso di ironia e
humour nella pubblicità sociale, presentando, per concludere, uno storyboard di
mia creazione.
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CAPITOLO 1. L‟essenza delle cose.
Lo humour in pubblicità rende il prodotto accatti-
vante per l'audience. Una delle cose peggiori in
pubblicità è dire al consumatore ciò che deve fare.
Lo humour dipinge invece la verità coinvolgendo
l'individuo.
Ritengo che la pubblicità permeata di sense of
humour venda. Se si vendono le cose col sorriso la
gente ha infatti meno difficoltà a separarsi dal de-
naro. Ma non credo che la pubblicità venda cose.
Penso invece che costruisca relazioni. Il nostro la-
voro consiste nel creare relazioni tra il prodotto e
il pubblico
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(Tim Delaney)
Dare definizioni non è mai una cosa semplice. Primo perché si rischia inevita-
bilmente di appropriarsi di spiegazioni che altri già hanno dato rispetto ad un
concetto, quindi mancare di originalità. Il secondo rischio del voler aggiungere
qualcosa di nuovo ai termini è che o ci si allontana dal circoscritto campo se-
mantico iniziale, oppure si potrebbe rischiare che certuni pensino che il signifi-
cato di certi termini possa non essere mai esaurito se c‟è qualcuno che continua
a trovarne un nuovo senso. È un po‟ quello che accade con le metafore: signifi-
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Vaske H., Standing on the Shoulders of Giants. Hermann Vaske’s Conversations with the Masters of Adver-
tising, Berlin, Medialis Offset, 2001.