2
proponendo una concezione market-oriented, in cui il film viene pensato in funzione
del pubblico cui esso si rivolge.
Laddove l’industria statunitense è volta al profitto, anche nelle sue produzioni più
“europeizzate”, con un’attenzione minuziosa alle risposte del mercato, l’industria
europea, in generale, italiana in particolare, si orienta verso un approccio product-
oriented. Viene privilegiato, cioè, il prodotto e viene data totale centralità, in fase
ideativa, all’autore, senza nessuna preventiva verifica di mercato o visione pubblica
prima dell’ultimo taglio del negativo.
Oltre ad adottare strategie di marketing per lo più rinunciatarie, le imprese italiane si
caratterizzano per i bassi investimenti, usufruendo di sovvenzioni statali come i premi
di qualità o gli aiuti al progetto. Anche la politica delle sovvenzioni all’industria
cinematografica, realizzata per lo più come vedremo dai paesi europei, rientra in una
concezione “autoriale” di cinema: se esso fosse concepito esclusivamente come un
profitto, sicuramente non sarebbe così tanto sostenuto dalle politiche governative.
Da questa sostanziale differenza di approccio derivano due catene o filiere
organizzative profondamente diverse, che sembrano esclusivamente incontrarsi nella
fase finale di commercializzazione del prodotto, dove l’Italia, da qualche hanno, mira
ad investire un po’ più di budget, adottando qua e là tecniche di marketing di stampo
statunitense.
3
All’attuale crisi strutturale, normativa e, spesso, contenutistica della realtà
cinematografica italiana, è dedicato l’ultimo capitolo di questa trattazione in cui, oltre
ad uno studio dei soggetti in campo, dei prodotti e dei processi di finanziamento,
verranno illustrate le varie proposte di soluzione attuali.
Per rendere più comprensibile l’approccio al film ed agli investimenti di questo
secondo sistema industriale, presenteremo un’analisi sulla produzione di un film
italiano indipendente, La parola amore esiste, grazie alla gentile collaborazione
offertaci da Donatella Botti della casa di produzione BIANCAFILM.
Servendoci degli spunti di dibattito sociologico che di seguito affrontiamo,
abbiamo volutamente analizzato il cinema come un’attività economica del tutto
speciale: da un lato produce beni ad alta valenza culturale, non valutabili con gli
stessi parametri di una qualsiasi altra merce; dall’altro questi beni, pur con le loro
caratteristiche peculiari, fanno comunque riferimento ad una mercato e obbediscono
alle leggi di quest’ultimo. Resta tuttavia da chiarire fino a che punto la caratteristica
di culturale investa tutti i prodotti oppure designi una tipologia ben precisa di
prodotti, e fino a che punto in nome della dimensione “culturale” si possano
introdurre delle eccezioni oppure non si debba considerare il cinema come un
servizio di intrattenimento il cui valore è deciso dal mercato e non da pochi esperti.
In ogni caso, e alla base di ogni divisione di campo, sarà insita la riflessione
che da sempre, nel cinema, l’espressione dell’arte e del mercato, della cultura e
dell’economia, si combinano tra loro.
4
Il lavoro proposto avrà la finalità implicita di comprendere quali strategie dovrebbe
adottare il nostro cinema per riconquistare le fette di mercato, anche internazionale
ovvero: se promuoversi attraverso un cinema di qualità, secondo la tradizione
neorealista, come auspicano molti attuali sostenitori di “francofortiana” memoria;
oppure mirare ad una ristrutturazione del proprio assetto, sullo stampo statunitense,
per sviluppare una politica di differenziazione dei propri prodotti, magari attraverso
la ri-proposizione di un prodotto medio, nazional-popolare, lo stesso che rese il
cinema italiano famoso in tutto il mondo.
5
Capitolo primo
Per una comprensione del dibattito
Sin dall’immediato dopoguerra si è imposto nel mondo della ricerca
sociologica un interesse per gli aspetti socio-economici del cinema.
L’avvio è indicativo non soltanto perché produce una forte eco tuttora, ma soprattutto
perché ha diviso, e divide, i pensatori all’interno di due grandi categorie: chi
percepisce il cinema come pura arte, e chi, al contrario, lo percepisce come una
qualsiasi merce avente esclusivamente un valore d’uso.
Le ripercussioni di questo tradizionale dibattito, (che in molti casi non ha investito
solo il cinema, ma tutta l’industria culturale), spesso si ripropongono nell’ambito di
una attuale accusa nei confronti del cinema statunitense in cui “trionfa lo
schematismo, come macchina perfezionata e funzionale e, muore l’opera, come luogo
dell’autenticità e verità”
1
Per semplicità di trattazione, ci soffermeremo sui primissimi contributi di questo
dibattito, particolarmente meritevoli visto che hanno esaminato, senza complessi di
inferiorità e con un taglio esplicitamente disciplinare, una realtà che rischiava di
restare sullo sfondo. E’ esplicita la consapevolezza che l’ambito di studi, interessi ed
opinioni è certamente più articolato.
1
HORKHEIMER M. – ADORNO T. W., Dialektik der Aufklarung, Amsterdam, Querido Verlag, 1947. – tr. it.
Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966- p.148.
6
1.1 L’industria culturale come morte dell’arte
La linea di riflessione trova nel dopoguerra il suo primo avvio in un famoso
capitolo di Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno
2
, solo che il cinema è
riportato ad un ambito che lo include e lo determina, quello dell’industria culturale.
Il primo tratto che colpisce nell’industria culturale –secondo gli autori- è la sua
compattezza. Da un lato infatti essa allinea prodotti fortemente omogenei o che,
comunque, risultano “invasi da un’aria di somiglianza”
3
. Dall’altro collega tutti i suoi
comparti, venendo a costituire un sistema, in cui ogni settore (film, radio e
settimanali) è armonizzato in sé e tutti fra loro. La cosa viene spiegata da qualcuno in
termini puramente pratici: la diffusione di massa impone prodotti uniformi e
fenomeni di concentrazione. Ma questa spiegazione, scambierebbe per causa quel che
è un effetto: il consumo di massa è una conseguenza dei nuovi assetti industriali e dei
nuovi tipi di prodotto più che esserne la radice; “la costituzione del pubblico….fa
parte del sistema, e non lo scusa”
4
. Le ragioni della compattezza dell’industria
culturale sono allora altrove, in particolare: nella comune determinazione dei capi
esecutivi di non produrre o ammettere nulla che non somigli alle loro tavole, al loro
concetto di consumatore e , soprattutto, a “loro stessi”
5
e nella dimensione economica
che permea l’industria stessa.
E’ infatti per motivi economici che nascono le gamme di prodotti: secondo gli autori,
le distinzioni enfatiche come quella tra film di tipo A e B, non sono tanto fondate
2
HORKHEIMER M. – ADORNO T. W., Dialektik der Aufklarung, Amsterdam, Querido Verlag, 1947.
3
HORKHEIMER M. – ADORNO T. W., Op. cit., -p.130.
4
Ibid.
5
Ibid.
7
nella realtà, quanto piuttosto servono a classificare e organizzare i consumatori, ad
impadronirsi saldamente di loro. Il sistema sarebbe costruito in modo che per tutti è
previsto qualcosa, perché nessuno possa sfuggire.
Ciò su cui si soffermano i pensatori della scuola di Francoforte è soprattutto la stretta
omogeneità dei prodotti dietro la loro apparente diversità: “Che le differenze tra la
serie Chrysler e quella della General Motors siano sostanzialmente illusorie, lo sanno
anche i bambini che impazziscono per esse…le cose non vanno diversamente per le
produzioni della Warner Brothers e della Metro Goldwin Mayer”
6
. Questa
omogeneità è il frutto di una debordante standardizzazione: i modelli produttivi
dettano le formule fisse. Ciò porta alla tendenziale scomparsa di ogni contenuto che,
per tali motivi, diventa solo una “pallida facciata” subordinata alla successione
automatica di operazioni regolate. Proprio per questo, secondo Horkheimer e Adorno,
si può capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o
dimenticato, in quanto l’opera, che una volta portava in sé l’idea, è stata liquidata con
essa.
Ecco il punto: l’industria culturale segna la morte dell’arte e questa morte si
manifesta nel fatto che al consumatore culturale odierno è sottratta ogni possibilità di
partecipazione ed intervento. Egli subisce l’atrofia dell’immaginazione e della
spontaneità a causa di un prodotto che prescrive ogni reazione. La morte dell’arte si
manifesta anche come trasformazione della creatività in semplice padronanza tecnica
o in virtuosismo linguistico: i produttori varano e impongono gerghi con sfumature
6
Ibid.
8
così sottili da raggiungere quasi la raffinatezza di mezzi di un’opera d’avanguardia,
senza tuttavia impegnarsi in una corrispondente ricerca della verità.
Dunque morte dell’arte e sua equiparazione a merce.
Gli autori pur rinnegando la constatazione di fatto, mettono in risalto come la
resistenza alla confluenza di arte e merce sia vana. Il problema semmai è che una
totale identificazione tra i due termini rischia di togliere ogni spazio di manovra.
Infatti, l’arte, anche se merce, dovrebbe garantire l’inutile nel regno dell’utilità.
Ma in quanto merce, l’arte mostra anche di possedere una sua utilità: da una parte è
un “bene” che serve per far fronte al bisogno di svago e di distensione; dall’altra è un
“bene” che serve a far guadagnare prestigio o a far sentire al corrente. Questa
funzionalità dell’arte non rappresenta solo una nuova “schiavitù”
7
, ma, quanto più è
portata avanti, tanto più finisce per sottrarre all’arte stessa la sua identità residua.
Confusa allora tra gli strumenti di divertimento o di promozione, l’arte scompare
perfino come specifica merce: lo scopo (oltretutto non qualificato) ne divora la
consistenza oggettiva; la finalità (pronta a diventare obbligo sociale) ne divora il
corpo.
Ancora di più, emerge la denuncia verso la natura totalitaria dell’industria culturale:
una realtà volta al controllo, all’eliminazione del diverso, al demanio. L’oggetto
estetico è come uno slogan; e quel che comunica è l’assenza di una vera prospettiva.
7
Secondo gli autori, adeguandosi totalmente al bisogno, l’opera d’arte defrauda in anticipo gli uomini dalla liberazione
– che dovrebbe procurare- dal principio di utilità. Cfr. HORKHEIMER – ADORNO, Op. cit., -p.170.
9
1.2 Il cinema come industria
Quello sulla morte dell’arte e sulla sua equiparazione a merce, è uno dei discorsi
più densi e più complessi che si siano sviluppati intorno e dentro la nostra epoca.
Non pretendiamo certo, con qualche citazione e qualche rinvio sintomatico, di avere
restituito appieno il tessuto della lezione francofortese, ma almeno alcuni spunti
dovrebbero essere chiari ed utili per le finalità della nostra trattazione.
In particolare, merita attenzione la decisione di rapportare il cinema non tanto ad
un’industria specifica, quanto alla macchina dell’intera industria culturale; così come
la decisione di mettere in luce alcune linee di tendenza generali di cui il cinema è il
massimo testimone :omogeneità, standardizzazione e mercificazione.
La percezione è che, forse, risulta sfalsante distinguere tra arte e industria,
componenti estetiche e componenti sociali, perché i due termini si sono ormai fusi, e
il primo ha rinunciato alla sua autonomia trasformando nell’incontro con l’altro la
propria natura.
E’ proprio partendo da questa considerazione, che possiamo introdurre il
contributo apportato da Peter Bachlin nel suo studio Der Film als Ware, risalente
sempre all’immediato dopoguerra.
La riflessione di Bachlin è soprattutto una constatazione sull’impossibile scissione fra
cinema e industria. All’interno di un’economia capitalistica, infatti, un film in quanto
produzione intellettuale, ha tutti i requisiti per essere un’opera d’arte, ma è
necessariamente anche una merce a causa delle diverse operazioni industriali e
commerciali richieste dalla sua produzione e dal suo consumo.
10
Al contrario di altre produzioni intellettuali, esistenti nella nostra epoca, nelle quali la
commercializzazione appare solo nella diffusione (opere letterarie, pitture,
composizioni musicali), nel cinema –secondo Bachlin- ogni lavoro di creazione è
commercializzato, dalla sceneggiatura fino alla consegna delle copie agli esercenti
8
.
Ciò è dovuto anche al tipo di evoluzione del medium: mentre i progressi tecnici sono
stati continui, i problemi artistici e intellettuali posti dalla produzione filmica sono
stati sempre più spinti in secondo piano sotto la pressione di considerazioni
commerciali.
Bachlin, in proposito, esamina l’organizzazione dell’impresa cinematografica,
mettendo a fuoco le diverse fasi del processo industriale, le mansioni coinvolte,
l’assetto finanziario corrispondente. Su questi temi si innesta un’ampia riflessione a
proposito dei “rischi” cui va incontro il cinema, divisi in rischi di produzione
9
, e in
rischi di consumo
10
. La presenza di questi rischi, osserva Bachlin, spinge
ulteriormente il prodotto cinematografico verso lo statuto di merce: quanto più
bisogna tutelarsi, ad esempio a causa dell’ampiezza dei capitali investiti, tanto più i
bisogni intellettuali ed estetici si trovano a “cedere il passo a considerazioni di ordine
finanziario”
11
. Dunque, sia da un punto di vista strutturale, sia da un punto di vista
storico, appare chiaro come la dimensione mercantile conviva con quella artistica, ed
anzi come spesso prenda il sopravvento.
8
BACHLIN P., Der Film als Ware, Basel, Burg, Verlag, 1945. (tr. it. Il cinema come industria, Feltrinelli, Milano 1958
–p.182.
9
Il riferimento è alla possibilità di interrompere la lavorazione di un film, la scarsa modificabilità del risultato, o il
rendimento alterno dei collaboratori artistici o tecnici. Ibidem, p.114
10
“i rischi inerenti al mercato”. Ibidem
11
Ibidem, p.116
11
Ulteriormente l’autore ripercorre i rapporti tra produzione, distribuzione e consumo,
affermando che la natura di un film è quella di essere prodotto di massa. Il fatto, poi,
che sia un bene di cui si paga solo la fruizione anziché il possesso (Bachlin scrive
quando non ci sono ancora le videocassette), o che esistano più tipi di sale (divise in
prima, seconda, terza e ulteriori visioni), o che il biglietto abbia un prezzo contenuto
(i cinema costano meno dei teatri), sono tutti elementi che ribadiscono la dimensione
di massa del cinema.
Gli spunti riportati dalla breve rassegna sull’opera di Bachlin, fanno intravedere un
quadro che ribadisce la tradizionale distinzione fra arte e merce, ma all’interno di un
approccio molto meno polemico e più analitico rispetto al precedente.
Altri autori come Mercillon
12
o studi storici, come quello di Bizzarri e Solaroli
13
o di
Quaglietti
14
, tendono a riprodurre più o meno esplicitamente l’impianto teorico di
Bachlin, attraverso una valorizzazione degli aspetti economico – industriali, ma
anche la loro ghettizzazione.
12
MERCILLON H., Cinéma et monopoles, Paris, Colin 1953. (tr. it. Cinema e monopoli, Bocca, Roma, 1956 –p.17 e
sgg.
13
BIZZARRI L. – SOLAROLI L., L’industria cinematografica italiana, Parenti, Firenze 1958.
14
QUAGLIETTI L., Storia economico- politica del cinema italiano. 1945-1980, Editori Riuniti, Roma 1980.
12
1.3 Un’idea contrastante: il cinema come spettacolo popolare
In posizione di netto contrasto, rispetto alle idee riportate da Horkheimer e
Adorno sull’industria culturale e da Bachlin, è Panofsky
15
.
Il suo contributo è molto interessante, in primo luogo perché pur proponendosi
cronologicamente parallelo agli studiosi della scuola di Francoforte, se ne discosta
completamente; e, secondariamente, perché a negare la natura artistica del cinema è
proprio uno studioso che nasce e resta uno storico dell’arte.
All’interno di un dibattito così strutturato, Panofsky viene ad affermare che l’origine
del cinema è quella di spettacolo popolare, non certamente d’“arte colta”. Insieme al
disegno industriale, il cinema è uno dei mezzi di espressione che ha ristabilito, nel
Novecento, il contatto dinamico tra produzione artistica e suo consumo. E’ giusto,
dunque, considerarne anche gli aspetti “commerciali”, soprattutto in quanto è
piuttosto l’arte (nata solo per soddisfare le esigenze creative del suo autore, e non
quelle di “un patrono o di un pubblico”), ad essere l’eccezione, tra l’altro recente e
non sempre felice, mentre, dell’arte commerciale, hanno fatto parte ad esempio, nei
secoli passati, le incisioni di Durer e il teatro di Shakespeare.
15
Le opere di Panofsky sono tutte di carattere storico-artistico, sia più tradizionalmente monografiche, come i libri su
Tiziano e Durer, sia metodologiche quali La prospettiva come forma simbolica, Milano, 1961, o Il significato delle arti
visive, Torino 1998. L’unico scritto riguardante il cinema, in origine testo di una conferenza tenuta a Princeton, poi
rielaborato e pubblicato nel ’47, s’intitola Style and Medium in the Moving Pictures, recentemente ripubblicato in Tre
saggi sullo stile. Il Barocco, il Cinema e la Rolls Royce, Milano 1996.
13
1.4 Dibattiti recenti sull’invadenza dei fattori economici
In quanto “merce culturale”, e proprio come tutti gli oggetti culturali, il cinema
non può non subire il peso del mercato: libera concorrenza, politica dei consumi,
processi di formazione del gusto e di determinazione della domanda, potere
coercitivo-formativo dell’offerta, potere della persuasione pubblicitaria, etc..
Coloro che amano il cinema come fatto artistico, non possono che prendere atto in
modo doloroso dei costringimenti finanziari in cui il cinema stesso viene a trovarsi.
Ma nel contrasto tra il mondo del cinema-arte e il mondo del cinema-industria, sono
anche i produttori, che adoperano un capitale perché frutti il più possibile, a
lamentarsi perché il cinema non è un’industria in senso assoluto come tutte le altre.
La III Settimana Cinematografica dei Cattolici, tenutasi ad Assisi dal 18 al 24
Settembre 1967 per svolgere il tema “Cinema e Libertà”, in una vivace tavola rotonda
introdotta e diretta dal prof. Viscidi dell’Università di Padova, ha messo a confronto
produttori e registi, per comprendere l’invasione degli interessi economici nella
libertà d’espressione degli autori
16
.
Durante il dibattito si è potuto notare quanto i dialoghi tra i componenti dei due
aspetti principali del mondo cinematografico fossero contrastanti e, addirittura,
quanto le loro parole assomigliassero a discorsi fra sordi.
16
SERRA M., Lo spettatore e il cinema, Feltrinelli, Milano, 1984- p.10
14
I produttori
17
pur concedendo che il cinema possa essere anche arte, difendevano
soprattutto la loro posizione di industriali, per cui impegnavano i loro capitali solo in
quei generi di film che le ricerche di mercato indicavano come capaci di restituire i
soldi investiti assieme ad una larga percentuale di guadagno. Secondo questi ultimi,
gli scrittori, i registi, i soggettisti, i musicisti, gli attori, non devono pretendere di
vivere in un loro mondo, quello dell’arte, svincolato dagli interessi economici, ma
devono mettere le loro capacità artistiche a disposizione, per un sempre maggior
profitto.
Durante il dibattito di Assisi, le timide parole di risposta dell’altro settore, non hanno
che confermato il clima di disagio in cui da sempre gli artisti si muovono, in un
mondo che si sostiene sul denaro e che limita la possibilità di portare sullo schermo,
con affinata sensibilità, idee e problemi di degno livello umano, se non ricorrendo a
trucchi ed azioni sotterranee per evadere dal controllo del produttore, sempre pronto a
dire di no alle realizzazioni nelle quali non vede un suo tornaconto economico.
Bisogna fare i conti il più delle volte con una società consumistica in cui è la vendita
che determina la produzione e non viceversa.
L’affermazione dei produttori ad Assisi, è solo un esempio di come le “leggi di
mercato” presentate come spontanee, siano in realtà controllate e dirette da chi ha il
potere e l’interesse di farlo.
L’aspetto forse più grave, emerso dal convegno riportato, è che le necessità materiali
in ultima analisi non possono non influire negativamente sul contenuto delle opere
17
“Fra gli altri, Eitel Monaco, presidente dell’ANICA e il dr Luigi De Laurentis, presidente dell’Unione Nazionale
Industrie Tecniche Cinematografiche” .SERRA M., Ibidem.
15
cinematografiche, soprattutto perché il cinema dipende dal mondo economico non
solo per la diffusione del film, ma anche per quel che riguarda il lavoro di creazione.
Il cinema americano, che in molte occasioni fa testo, ha creato dei metodi di
produzione che possono benissimo trovare dei paralleli nei metodi industriali. Sono
metodi che cercano di contenere la spesa di produzione e che hanno lo scopo di
standardizzare il prodotto.
Andrew Matthes della New Line Cinema Corporation, durante un seminario
organizzato dall’Anica nel 1997
18
, in proposito afferma:
“Negli Stati Uniti il progetto cinematografico è anzitutto il risultato di una
valutazione economica, del suo potenziale di generare profitti. Lo scopo ultimo della
società di produzione è quello di massimizzare i profitti dei propri azionisti. Per
questo motivo l’elemento creativo e quello finanziario debbono restare intimamente e
continuamente collegati nel corso dell’attività di sviluppo. Ma la generazione di un
prodotto audiovisivo capace di imporsi sul mercato internazionale non è certo il
risultato di un semplice calcolo matematico: al contrario, è il frutto di una
combinazione tra gli elementi che garantiscono l’omogeneità creativa del prodotto-
sceneggiatura, attori, regista- strategicamente “assemblati” durante la fase di sviluppo
mentre già si immagina lo scenario internazionale dello sfruttamento, le possibili
ripercussioni del prodotto sui diversi mercati. Un mosaico perfetto reso possibile da
un processo organizzativo dove nulla viene lasciato al caso”.
18
Europa e Stati Uniti a confronto, seminario organizzato dall’Anica in collaborazione con UNITED MEDIA
ASSOCIATES, “Cinecorriere”, rivista mensile illustrata d’informazioni cinematografiche e audiovisive, marzo-aprile
1997, n.3/4, Roma- p.3.