4
Introduzione
Il fenomeno della globalizzazione ha apportato numerosi benefici soprattutto in campo
economico e comunicativo: la maggiore libertà concessa ai mercati favorisce ed incrementa
la circolazione del capitale, contribuendo ad attenuare il divario economico mondiale; le
nuove tecnologie di informazione e di comunicazione permettono ad ogni individuo di essere
informato istantaneamente su qualsiasi evento abbia luogo nel mondo e di poter avviare una
conversazione tra due punti qualunque del globo.
Tuttavia, questo processo presenta un inevitabile lato oscuro: fortissimi accessi di violenza
costellano il mondo e, attraverso i mezzi e le possibilità offerte dalla globalizzazione, si
configurano in attacchi inediti ed imprevedibili; essi vengono ripresi da mezzi di
comunicazione di massa vecchi e nuovi e il fattore multimediale offre l’opportunità di
rivivere questa violenza in maniera ancora piø vivida, trasformandola in una componente
ormai costante della nostra vita quotidiana.
Lo spunto per sondare questa violenza su nuova scala parte dallo studio di due fenomeni,
che da circa un ventennio trovano grande diffusione: i massacri mirati che sono stati
successivamente denominati “guerre etniche” e gli attentati che vanno sotto il nome di
“nuovo terrorismo”. Si tratta di aggressioni che hanno provocato un numero incredibile di
vittime e di cui non sempre i media hanno dato il giusto resoconto. In particolare le guerre
etniche, non essendo un fenomeno di matrice occidentale, sono state pressochØ ignorate da
televisione e stampa, soprattutto quando non coinvolgono i grandi interessi economici:
descrizioni approfondite di tale fenomeno sono riscontrabili soltanto in trattati di
antropologia e nella letteratura specializzata.
L’obiettivo che ci siamo posti in questa tesi non è però circoscritto a queste specifiche
forme di violenza; ci interessa altresì allargare il campo di analisi ed indagare le cause del
fenomeno della violenza in generale, esaminando in particolare il meccanismo di quella a
carattere interpersonale, considerata la matrice fondante di tutte le altre forme di violenza
illustrate nel corso della trattazione. A questo proposito, verrà messo in luce come la violenza
sia capillarmente diffusa in molti campi della vita di ogni individuo, nonchØ i modi in cui si
presenta e l’influenza che esercita. Oltre a ciò, avremo modo di sottolineare come nella
società contemporanea ciascuno di noi sia perennemente sottoposto al racconto della
5
violenza, costantemente messo in scena dai mezzi di comunicazione di massa grazie a precise
tecniche e linguaggi.
Il primo capitolo del nostro lavoro offre uno sguardo generale sul concetto di violenza e
sulle sue modalità di presentazione. Per sondare approfonditamente le cause del fenomeno,
abbiamo scelto di coniugare un approccio sociologico ad uno filosofico; ciò ci consente di
inquadrare l’atto violento all’interno di una serie di contesti differenti, tutti rappresentati
dalle varie sfere della vita umana. Partendo dalla sfera dei rapporti interpersonali, che
abbiamo definito come violenza in rapporto con l’altro, esponiamo due visioni antitetiche
della questione: quella secondo cui la violenza esplode a causa della diversità degli esseri
umani e quella che vede l’uguaglianza degli uomini come causa fondamentale.
Successivamente constateremo come l’atto violento sia insito nel mercato e nel sacro, che
abbiamo denominato l’Altro (o “grande Altro”, secondo una definizione lacaniana); un
approccio diacronico al tema ci permetterà di affrontarlo nel modo piø completo possibile.
Infine particolare attenzione sarà dedicata a come il potere sfrutti la violenza e in che modo
questa venga percepita dal cittadino.
Dopo aver proposto un quadro generale, ci interessa focalizzare la violenza contenuta nei
nuovi attacchi terroristici e nelle cosiddette “guerre etniche”, argomento del secondo capitolo
della tesi. Una breve introduzione sui lati negativi della globalizzazione sarà utile per
individuare e chiarire la componente “asimmetrica” del terrorismo, la quale caratterizza in
modo peculiare le organizzazioni cellulari. Tali nozioni verranno poi applicate al caso
specifico dell’attentato alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2001, integrandole
con un’analisi del ruolo ricoperto dai media in quest’istanza. Lo studio dei conflitti etnici si
concentrerà essenzialmente su un’indagine delle possibili cause che possono portare a questo
fenomeno violento: alcune ipotesi sono state individuate nelle correnti nazionaliste che
influenzano i governi e nell’ansia generata dalla cosiddetta “incertezza sociale”, che mira alla
soppressione delle minoranze etniche all’interno di una nazione. Infine, proporremo una
riflessione sul diritto d’intervento in uno Stato minato da un conflitto etnico, citando i casi in
cui ciò viene ritenuto valido.
L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi empirica della violenza raccontata dai mezzi di
comunicazione di massa, in particolare dalla stampa e dai telegiornali. Nel primo caso la
disamina è stata effettuata su un campione di quattro quotidiani per la durata di una
settimana, nel secondo sono state registrate le edizioni serali di tre notiziari televisivi per il
medesimo arco di tempo. L’obiettivo di questa ricerca è duplice: da un lato stilare una
statistica sulla quantità di violenza presente nei media considerati, dall’altro prendere in
6
esame tutti gli espedienti linguistici e multimediali atti a raccontarla e mostrarla. L’analisi
verrà corredata da una comparazione tra i contenuti offerti dai notiziari televisivi a distanza
di un anno.
7
Capitolo I
Il concetto di violenza
1.1 Cos’è la violenza: per una definizione del concetto
In questo primo paragrafo ci proponiamo di fornire una definizione generale del termine
“violenza”; sarà nostro compito, a questo proposito, andare a scavare nell’etimologia del
concetto, al fine di mettere in luce il percorso semantico che esso ha seguito nel corso del
tempo. Tale operazione diacronica si rivelerà utile per iniziare ad inquadrare gli ambiti socio-
politici con cui il fenomeno è in relazione.
Successivamente produrremo un’iniziale tassonomia della violenza, distinguendone
un’interpretazione antropologica ed una sociologica. L’analisi della prima tipologia
sviscererà il suo rapporto con la civilizzazione: in particolare, si esaminerà qualora la
violenza sia costitutiva dell’essenza umana oppure il suo emergere sia legato alla costruzione
di una civiltà. Questa argomentazione verrà supportata dalla tesi di Jean-Jacques Rousseau
espressa nel suo mito del buon selvaggio; riguardo alla violenza di tipo sociologico verranno
presi in esame gli studi di Thomas Hobbes sul patto sociale e sulla condizione umana da lui
definita come homo homini lupus.
La definizione linguistica e lo studio dei due ambiti sopra citati fungono da introduzione a
quello che rappresenta il cuore di questo primo capitolo: le cause del conflitto violento. Esse
vengono identificate nello scontro con l’altro (che può essere avviato dalla disuguaglianza o
dall’uguaglianza fra gli uomini), nello scontro con ciò che convenzionalmente abbiamo
definito “Altro” o grande Altro
1
(individuato nel sacro e nel capitale) e nel potere. Questi tre
fenomeni e il loro rapporto con la violenza verranno analizzati nei paragrafi successivi.
1
Riprendiamo l’espressione del sociologo sloveno Slavoj Zizek, utilizzata in molti suoi scritti, in particolare nel
testo cui faremo maggiore riferimento: La violenza invisibile.
8
1.1.1 L’etimologia della violenza
Una prima definizione del termine “violenza”, da attribuire al poeta Dante Alighieri tra il
1300 e il 1313, appare come “l’essere violento”
2
. Circa un secolo piø tardi, in una definizione
risalente al 1406, Francesco Buti afferma che “la violenza è forza fatta e usata a danno e male
altrui”. La forza, affinchØ si trasformi in violenza, deve quindi possedere la proprietà di
essere diretta contro qualcuno, fino alla costrizione ad un certo comportamento. Una delle
associazioni col fenomeno rappresenta l’ambito sessuale: inizialmente è Seneca ad utilizzare
il termine con quest’accezione, quindi nel secolo XIV lo storico Francesco Guicciardini
identifica la violenza su una donna col “farle subire violenza carnale”; inoltre, dal 1891 la
locuzione “usare violenza” viene definita da Policarpo Petrocchi “costringere al coito”
3
.
PoichØ, come abbiamo visto, la violenza in sØ è la proprietà di essere violento, ci
concentriamo sul significato e sull’etimologia di quest’ultimo termine. Il lemma, inteso nella
duplice accezione di aggettivo e sostantivo, compare inizialmente ancora una volta per mano
di Dante Alighieri, il quale lo definisce come “chi è solito abusare della propria forza fisica,
specificamente in modo incontrollato e impulsivo”, o ancora “che avviene o si manifesta con
impeto furioso, con indomabile forza”. Notiamo che in queste definizioni traspare il carattere
nocivo della forza violenta, caratteristica che invece non compare qualora si veda il senso
figurato del termine secondo Maestruzzo nel XIV secolo: “Detto di tutto ciò che è
particolarmente forte, carico, intenso e simili”.
Per quanto riguarda l’etimologia del termine, l’aggettivo e sostantivo deriva dalla lingua
latina, piø precisamente da violěntu(m); inoltre, la sua costruzione ha luogo dall’unione
dell’aggettivo opulěntu(m) (ovvero ricco) con il suo derivato, il sostantivo astratto
violěntia(m).
Il lemma in questione ha la stessa origine del latino violāre, di cui andiamo ora ad
analizzare il significato del corrispondente italiano e l’etimologia. Secondo una definizione di
Giovanni Boccaccio risalente agli anni 1348-53, esso significa “non osservare o non
rispettare le disposizioni di una qualunque fonte di obblighi giuridici, morali, sociali e simili,
contravvenendo agli obblighi che ne derivano”. A livello semantico, quindi, la violenza
2
Per la stesura di questa parte è stato utilizzato il seguente dizionario etimologico: M. Cortellazzo, P. Zolli,
Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1995.
3
P. Petrocchi, Novo dizionario universale della lingua italiana, Treves, Milano 1887-1891 (primi fascicoli del
1884, gli ultimi del 1891).
9
equivale a una mancanza di rispetto della posizione dell’altro, in qualunque ambito della vita
sociale.
Per quanto riguarda l’etimologia, abbiamo già evidenziato la matrice latina del termine, la
quale include anche il suo derivato violatiōne(m); esso si riallaccia, forse in derivazione
espressiva, al sostantivo vīs, di origine indoeuropea, che corrisponde all’italiano “forza
(esercitata contro qualcuno)”. Infine, il nostro dizionario di riferimento sottolinea che,
sebbene vīs possegga un’accezione semantica collegabile al concetto di violenza, esso
scompare nelle lingue romanze a causa della sua debole consistenza monosillabica.
Compito delle prossime righe è introdurre gli ambiti di interazione del fenomeno violento;
iniziamo con la descrizione del fenomeno proveniente dalla società ed agente sull’uomo,
mediante le argomentazioni di Jean-Jacques Rousseau.
1.1.2 La violenza proveniente dalla società: il buon selvaggio di Rousseau
In questa parte svilupperemo le argomentazioni del filosofo Jean-Jacques Rousseau nel
suo Discorso sull’ineguaglianza
4
, mettendo a fuoco in che modo la violenza si riveli parte
consistente del processo di civilizzazione dell’uomo a scapito della sua condizione ottimale,
ossia lo stato di natura.
La condizione primitiva dell’uomo è, per Rousseau, ciò che permette all’uomo di vivere
serenamente: l’uomo non civilizzato, limitato a soddisfare solo i propri bisogni fisici, non
sente il bisogno di utilizzare la ragione, bensì di seguire i propri istinti. In questo caso, la
violenza viene inflitta per una questione di pura sopravvivenza; tuttavia, la brama di
conoscenza e la sua capacità di perfezionarsi (l’autore parla a questo proposito di
perfettibilità
5
) appare come una delle principali cause dei mali umani: soprattutto “la
conoscenza della morte e dei suoi terrori è uno dei primi acquisti che l’uomo abbia fatto
allontanandosi dalla condizione animale”
6
.
L’utilizzo della ragione genera nell’uomo le passioni, mediante le quali egli persegue in
modo sempre piø ostinato il proprio godimento. L’atteggiamento che ne deriva arriva a
dipendere dall’amor proprio, rivelandosi un sintomo visibile della trasformazione dell’uomo
verso la civilizzazione: egli diventa quindi violento, poichØ reprime la qualità piø naturale e
umana che esista, ossia la pietà. Nel passaggio che riprendiamo, Rousseau accenna al fatto
4
Jean-Jacques Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l’inØgalitØ parmi les hommes, 1755;
utilizziamo la seguente edizione italiana: Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini,
a cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma 2002.
5
Ibidem, p. 110. Il corsivo è dell’autore.
6
Ibidem, p. 111.
10
che le leggi sono uno strumento per colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo
valore nella società civile:
Infatti, che cos’è la generosità, la clemenza, l’umanità se non la pietà indirizzata ai deboli, ai
colpevoli, o alla specie umana in generale? […] ¨ dunque del tutto certo che la pietà è un
sentimento naturale che, mitigando in ogni individuo l’attività dell’amor di se stesso, collabora
alla mutua conservazione della specie. […] ¨ la pietà che nello stato di natura sta al posto di
leggi, di costumi e di virtø, col vantaggio che nessuno ha la tentazione di disubbidire alla sua
dolce voce
7
.
Il crescendo dell’autorealizzazione a danno degli altri trova il suo apice nei rapporti di
servitø, caratteristici della società civile (poichØ tutti sono interessati ad un guadagno per se
stessi) ed inesistenti nello stato di natura (poichØ non vi sono veri possedimenti): la violenza
che ne deriva emerge dall’oppressione dei piø forti sui piø deboli, a sua volta generata del
bisogno reciproco degli attori sociali coinvolti
8
.
I rapporti con gli altri uomini divengono sempre piø raffinati ma nel percorso diacronico
di Rousseau non volgono verso esiti positivi: parallelamente alla diversità di rango,
emergono ineguaglianze naturali nelle differenti capacità umane, generando sentimenti di
stima e disprezzo, di vergogna e di invidia, destinati a sfociare in conflitti e in “composti
dannosi alla felicità e all’innocenza”
9
. Tali mal intenzioni vengono viste in modo sempre piø
grave ed oltraggioso, alimentando l’esigenza di istituire autorità che puniscano questi torti.
Ciò genera inevitabilmente ulteriore violenza che, come precisa l’autore, nello stato di natura
gli uomini non conoscono.
L’avvento della società viene segnato, inoltre, dai primi rapporti di cooperazione a livello
lavorativo: in quest’ambito, si ha sempre piø la tendenza a riconoscere il prodotto del proprio
lavoro, con la conseguente paura di perderlo a causa delle possibili rappresaglie altrui
10
. In
questo modo vengono a determinarsi dapprima il diritto sulla proprietà e conseguentemente
le prime regole di giustizia.
¨ dal riconoscimento della proprietà che Rousseau sembra delineare la maggiore
esplosione di violenza: basandosi sull’assunto di John Locke, “Non potrebbe esserci offesa
dove non c’è proprietà”
11
, l’autore la addita come uno dei mali peggiori della società civile.
Essa rappresenta il perno intorno a cui ruotano le violenze legate alle ineguaglianze
economiche e alla volontà dei ricchi di arricchirsi a scapito dei poveri:
Questa fu, o dovette essere, l’origine della società e delle leggi, che procurarono nuovi intralci
al debole e nuove forze al ricco, distrussero una volta per tutte la libertà naturale, fissarono per
7
Ibidem, pp. 123-124.
8
Ibidem, pp. 129-130.
9
Ibidem, p. 139.
10
Ibidem, p. 142.
11
J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, IV, 3, 18.
11
sempre la legge della proprietà e della ineguaglianza, di un’abile usurpazione fecero un diritto
irrevocabile e da allora, a vantaggio di pochi ambiziosi, assoggettarono tutto il genere umano al
lavoro, alla servitø e alla miseria
12
.
A questa situazione, si aggiunge la violenza dettata dalla smania, da parte di chi ne ha la
possibilità, di innalzare ancora di piø la propria posizione sugli asserviti; ciò viene realizzato
anche con mezzi illeciti, come l’inganno e l’ipocrisia. Rousseau lo definisce come “una
oscura tendenza a nuocersi reciprocamente, una gelosia segreta tanto piø pericolosa in
quanto, per colpire con piø sicurezza, si nasconde dietro la maschera della benevolenza”
13
.
Inoltre, la crescente diversità di status sociale dà vita a disordini e assassinii, moltiplicando la
violenza già esistente e riducendo la società al “piø orribile stato di guerra”
14
. Seguendo
quest’argomentazione, il filosofo riconduce i principali motivi di tali disordini alla disparità
di ricchezza: sebbene nella società esistano anche disuguaglianze a livello di rango, di
potenza o di meriti personali, la ricchezza è l’elemento chiave che permette di ottenere tutti
gli altri, ovverosia di ristabilire l’equilibrio in tutti gli altri campi.
Per concludere, Rousseau stila un’interessante riflessione: la società civile si rivela
nient’altro che un nuovo stato di natura, dove però i valori predominanti sono la sudditanza e
le passioni dei piø ricchi, inasprendo le tensioni violente e annullando le norme di giustizia.
Ora tutti gli individui ridivengono uguali, perchØ non sono niente, e non avendo i sudditi altra
legge che la volontà del padrone, e il padrone altra regola che le sue passioni, la nozione di
bene e i princìpi della giustizia svaniscono di nuovo. Ora tutto si riconduce alla sola legge del
piø forte e di conseguenza ad un nuovo stato di natura differente da quello da cui siamo partiti,
in quanto il primo era lo stato di natura nella sua purezza e quest’ultimo è il frutto di un eccesso
di corruzione
15
.
L’infelicità dell’uomo nello stato civile è quindi essenzialmente legata al rapporto con gli
altri, che obbliga ogni individuo a vivere in funzione e nell’opinione dell’altro. Le fatiche cui
il cittadino si sottopone non leniscono i tormenti sociali e lavorativi che lo perseguitano per
gran parte della sua vita; problemi questi che non affliggono l’uomo selvaggio, guidato dai
principi di libertà e d’indipendenza
16
.
Proseguiamo il delineamento degli ambiti della violenza con la trattazione di Thomas
Hobbes, il quale da un lato individua il fenomeno violento all’interno dell’animo umano,
dall’altro localizza nella società civile le norme necessarie ad attutire tale fenomeno.
12
Rousseau, Discorso sull’ineguaglianza, op. cit., p. 147.
13
Ibidem, p. 144.
14
Ibidem, p. 145.
15
Ibidem, pp. 160-161.
16
Ibidem, p. 162.
12
1.1.3 La violenza insita nell’uomo: l’homo homini lupus di Hobbes
In questa parte metteremo a fuoco l’argomentazione di Thomas Hobbes, del tutto opposta
a quella di Rousseau: la volontà violenta è già individuabile nello stato di natura umano,
ancor prima della costituzione dello Stato e della società.
Nella prima parte del suo De cive
17
Hobbes premette che nello stato di natura la molla
principale che spinge l’uomo ad interagire con il prossimo è il proprio interesse. Ciò è il
motivo principale per cui egli sceglie i propri amici e collaboratori e non ama chiunque allo
stesso modo. Tale scelta viene effettuata in base all’utilità che il rapporto può procurare al
singolo; è indubbio che un rapporto di cooperazione possa dare dei frutti in questo senso ma,
se si instaura una relazione di dominazione, il guadagno può essere notevolmente
incrementato. Ciò che impedisce all’uomo di asservire chiunque è il timore che nutre
naturalmente nei confronti del prossimo
18
.
Hobbes individua fra le maggiori cause di tale timore l’uguaglianza di tutti gli uomini, la
volontà di nuocersi e, d’accordo con l’antropologo RenØ Girard, che tratteremo piø avanti, il
medesimo desiderio verso un determinato oggetto. Il primo fattore viene motivato dal fatto
che un qualunque uomo ha la possibilità di far del male o di uccidere un altro uomo; è
irrilevante la forza fisica che ciascuno possiede e non esiste un modo per procurarsi una sorta
di sicurezza personale:
Infatti, se guardiamo gli uomini anziani e avvertiamo quanto sia fragile la struttura del corpo
umano […] e come facilmente accada che qualcuno, pur molto debole, uccida un altro piø
robusto di lui, non c’è ragione che uno, fidando nelle sue forze, si creda fatto dalla natura
superiore agli altri. Sono quelli che possono compiere, l’un contro l’altro, gli stessi atti; e chi
può compiere verso il suo simile l’azione estrema, cioè uccidere, può tutto quel che gli altri
possono. Dunque tutti gli uomini sono per natura uguali tra loro
19
.
La paura di una possibile violenza ai propri danni, unita all’insicurezza di sapersi difendere,
contribuisce ad alimentare la diffidenza reciproca.
Il secondo motivo del suddetto timore è rappresentato dalla volontà insita negli uomini di
fare del male, seppur in diversa misura in ciascun individuo. A questo proposito, nella
prefazione dell’opera Hobbes specifica che gli esseri umani non sono malvagi per natura,
nonostante possano compiere atti malvagi; come nel caso degli animali e dei bambini
(entrambi privi della ragione), è l’istinto a desiderare tutto ciò che si vuole che porta
17
Thomas Hobbes, De cive, 1642, ripubblicato nel 1651 col titolo inglese Philosophical Rudiments Concerning
Government and Society; nel nostro lavoro utilizziamo la seguente edizione italiana: Elementi filosofici sul
cittadino (De cive), a cura di Norberto Bobbio, TEA, Milano 1994.
18
Ibidem, pp. 78-80.
19
Ibidem, p. 82.
13
l’individuo a compiere azioni nocive. Quindi l’uomo non è malvagio per natura, bensì lo
sono le azioni che mirano a soddisfare tali istinti, quali l’ira, la paura o il desiderio. Hobbes
non tarda a rimarcare, tuttavia, che solo se l’uomo adulto e maturo utilizza la ragione per
scopi violenti, allora lo si può dire cattivo di natura
20
. In definitiva:
Un uomo cattivo è come un bambino grande e grosso, o come un uomo dall’anima infantile, e
la sua malvagità è come una mancanza di ragione in un’età in cui la ragione suol essere già
acquisita dagli uomini attraverso la natura stessa, guidata dall’educazione e dall’esperienza del
danno che si può produrre
21
.
La terza motivazione della paura reciproca degli uomini è l’attrazione comune a piø esseri
umani verso un medesimo oggetto. Il pensatore britannico si limita ad affermare che ciò che
non può essere spartito va necessariamente assegnato al piø forte: questo viene stabilito
attraverso un’inevitabile lotta
22
. Approfondiremo questo lato della personalità umana piø
avanti nel nostro lavoro esaminando il pensiero di RenØ Girard.
Proseguendo nella delineazione dello stato di natura, questo timore verso gli altri porta
l’uomo a preservare e tutelare il proprio corpo contro il male, e in generale contro il peggiore
dei mali: la morte. Hobbes lo definisce come diritto naturale, precisando subito dopo che
“ciascuno, avendo diritto alla conservazione, deve anche avere il diritto di usare di tutti i
mezzi e di compiere tutte le azioni, senza le quali non potrebbe conseguire il fine della
propria conservazione”
23
. PoichØ la scelta di questi mezzi è sotto la giurisdizione dell’agente,
diviene lecito a tutti avere e fare qualsiasi cosa per raggiungere quello scopo.
Veniamo ora al passaggio chiave della trattazione: è inevitabile che, con la possibilità di
potere tutto, l’uomo arrivi ad un contrasto con il prossimo; in base al diritto naturale la sfera
altrui viene invasa e in base allo stesso diritto chi percepisce questo pericolo vi si difende. ¨
in questo modo che si delinea la situazione di bellum omnium contra omnes, come rilevato
nel seguente fondamentale brano:
Se alla tendenza naturale degli uomini a nuocersi a vicenda, tendenza che essi traggono dalle
loro passioni e specialmente dalla presunzione, si aggiunge ancora il diritto di tutti a tutto, in
virtø del quale uno ha il diritto di invadere la sfera altrui e l’altro ha un ugual diritto di opporsi,
e da cui nascono continui sospetti e animosità degli uni verso gli altri; […] non si può negare
che lo stato naturale degli uomini, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra,
e non di guerra semplicemente, ma di guerra di ciascuno contro tutti gli altri
24
.
Da ciò si evince che la violenza umana si sprigiona ancor prima della costituzione della
società civile. Tuttavia, Hobbes precisa che da una parte la possibilità di ottenere qualunque
20
Ibidem, p. 66.
21
Ibidem, p. 67.
22
Ibidem, p. 84.
23
Ibidem, p. 85. Corsivo dell’autore.
24
Ibidem, p. 88.
14
cosa stimola i piø forti a guerreggiare in modo da conseguire i propri obiettivi violentemente,
dall’altra la consapevolezza che tutti gli uomini hanno pari possibilità frena gli istinti
arrecanti conflitto. Il filosofo giunge così al primo dettame della retta ragione, o prima legge
di natura, secondo cui “si debba tendere alla pace, sinchØ luccica qualche speranza di
poterla ottenere; e quando non la si possa piø ottenere, si debba cercare soccorsi per la
guerra”
25
.
Il reciproco timore, secondo Hobbes, non porta necessariamente allo stato di guerra sopra
illustrato
26
: poichØ tale conflittualità mina il tentativo continuo di autoconservazione
dell’uomo, a causa dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, è compito dell’uomo stesso
trovare il modo di seguire il principio dell’utilità azzerando il rischio di soccombere. Questa
è la motivazione che spinge l’uomo ad organizzarsi in società: nonostante queste prevedano
rapporti di cooperazione o dominazione e il proprio interesse rappresenti l’unico principio da
seguire, tendiamo a sottolineare come la regolamentazione civile, in realtà, lenisca il tasso di
violenza dominante nello stato di natura. Ciò è comprovato da un aspetto fondamentale
dell’essenza umana: come specificato nella prefazione al De cive,
L’indole degli uomini è per natura tale che, se non vengono frenati dal timore di una potenza
comune, diffidano e temono l’uno dell’altro, e che, se ciascuno ha il diritto di provvedere alla
propria difesa con le sue proprie forze, ne ha pure necessariamente la volontà
27
.
La paura di essere puniti dallo Stato pone nuovamente gli uomini su un piano di uguaglianza,
preservandoli dal commettere violenza attraverso l’istinto e stimolandoli ad organizzarsi
mediante la collaborazione reciproca.
¨ quello che Hobbes chiama patto sociale, la forma di accordo principe che regolamenta i
rapporti lavorativi tra gli uomini nella società civile: si tratta di una promessa, secondo la
quale “uno dei due contraenti è creditore dell’altro, o entrambi sono creditori l’uno dell’altro,
[e] il debitore promette che eseguirà piø tardi la prestazione”
28
. Tale promessa viene sancita
da un contratto, ossia dal trasferimento di un diritto, in base al quale ciascun contraente
stabilisce di non poter piø opporre resistenza, qualora l’altro si comporti in modo non
appropriato, quando nello stato naturale gli era concesso grazie al diritto.
Ciò che ci preme evidenziare è, infine, che nello stato naturale i patti non sarebbero validi,
in quanto non esiste la costrizione all’adempienza dei rispettivi doveri:
25
Ibidem, p. 91. Corsivo dell’autore.
26
Riportiamo, a questo proposito, un’interessante puntualizzazione di Norberto Bobbio per chiarire meglio
questo passaggio. L’uomo può seguire il principio dell’utilità in due diversi modi: attraverso l’istinto sceglie di
ottenere un bene nel breve tempo andando incontro alla violenza fisica oppure attraverso la ragione sceglie di
conseguire un utile nel lungo periodo, sfruttando i rapporti non violenti della società civile. Tale nota è
contenuta nel testo di Hobbes, in quanto Bobbio ne è il curatore: cfr. Ibidem, p. 93.
27
Ibidem, p. 65.
28
Ibidem, p. 99.
15
Infatti, chi eseguisce il contratto per primo, per la malvagità della maggior parte degli uomini,
che fanno il loro comodaccio a torto od a ragione, si affida alla buona voglia dell’altro
contraente. Non è ragionevole che qualcuno eseguisca il contratto per primo, se non è
verosimile che l’altro lo eseguirà dopo
29
.
In conclusione, il patto sancito da un contratto regolamenta, nella società civile, ciò che nello
stato naturale si baserebbe sulla sola fiducia, attenuando le violenze che ne possono scaturire
e richiamando alla mente dell’uomo l’autorità dello Stato.
Compito di questo primo paragrafo è stato introdurre il concetto di violenza da un punto di
vista semantico ed etimologico, quindi la duplice possibile provenienza del fenomeno
violento: dalla società e dall’uomo stesso. Sono stati illustrati rispettivamente i punti di vista
opposti di Jean-Jacques Rousseau e di Thomas Hobbes, al fine di approfondire in che modo
la violenza possa provenire dalla società civile o direttamente dall’animo umano.
Nel prossimo paragrafo inizieremo a trattare le cause della violenza: faremo chiarezza
sulla questione dei rapporti umani seguendo le linee di pensiero di Jean-Paul Sartre e di RenØ
Girard. Chiariremo come, rispettivamente, la violenza si manifesti nell’uguaglianza e nella
disuguaglianza con l’altro.
1.2 La violenza in rapporto con l’altro
Il tema su cui verte il presente capitolo può, com’è evidente, essere approcciato a partire
da molteplici punti di vista e campi d’applicazione. Nel nostro lavoro abbiamo scelto di
iniziare con le riflessioni sulla violenza dello scrittore e filosofo Jean-Paul Sartre, per poi
mettere in luce la linea di pensiero dell’antropologo RenØ Girard. Giustifichiamo la nostra
decisione secondo due ordini di motivi: da una parte ci interessano i loro punti di vista in
quanto capaci di elaborare questo vasto concetto in termini generali quanto concreti;
dall’altra riteniamo d’uopo cominciare la nostra trattazione con l’analisi della violenza alla
base dell’intersoggettività, poichØ reputiamo questa tipologia di conflittualità matrice
fondante e punto di partenza di ogni altra forma di violenza umana.
Ci interessa dapprima focalizzare l’opinione di Sartre sulla situazione di conflittualità
umana, dovuta alla semplice presenza opprimente dell’altro: vedremo come la diversità
caratteristica di ogni uomo rappresenti il principale motivo di tale oppressione;
successivamente classificheremo a livello teorico tre tipologie di violenza presenti, secondo
l’autore, nell’intersoggettività; infine, dopo aver indagato la causa principe degli atti violenti
29
Ibidem, p. 100.