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Il lavoro penitenziario tra finalità di risocializzazione e
tutela dei diritti del lavoratore detenuto
Introduzione
“Chi si trova in stato di
detenzione, pur privato della
maggior parte della sua libertà,
ne conserva sempre un residuo,
che è tanto più prezioso in
quanto costituisce l’ultimo
ambito nel quale può espandersi
la sua personalità individuale”.
Sentenza Corte cost. 349/1993
L'articolo 27 comma 2 della Costituzione prevede che “le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”.
In tale disposizione si possono cogliere due aspetti centrali del diritto penale
ovvero “l’umanizzazione della pena” e, dal punto di vista teleologico di
quest’ultima, l’aspetto della prevenzione speciale o la c.d. finalità dell'emenda.
La disposizione suindicata è una palese manifestazione dell’avvenuto mutamento
politico, sociale e culturale che si coglie, anche a livello internazionale, come
risposta agli orrori commessi nel nome di ideologie totalitarie e nel corso del
secondo conflitto mondiale.
In particolare possiamo ricordare l’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei
diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre
del 1948, in cui si afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura
o a trattamenti e a punizioni crudeli, inumani e degradanti” o l’articolo 3 della
4
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
resa esecutiva con legge 848/1955, dove “nessuno può essere sottoposto a tortura
né a pena o trattamenti inumani e degradanti”. Dalla lettura di queste due norme, è
possibile cogliere agevolmente alcune similitudini. Infatti in entrambe si fa
riferimento all’impossibilità dell’utilizzo della tortura, di pene e trattamenti
inumani o degradanti. La pretesa punitiva dello stato non può essere esercitata in
modo da ledere e calpestare valori fondamentali, indisponibili, universali come il
rispetto della persona umana e della sua dignità.
Nonostante tali similitudini, differente è la loro portata giuridica e il loro grado di
vincolatività. Infatti la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo non è un
trattato internazionale, ma come si esprime il suo preambolo è “un ideale comune
da raggiungere da tutti i popoli e da tutte le nazioni”. Pertanto si afferma che non
sia produttiva di norme giuridicamente obbligatorie. Prescindendo da questo
aspetto strettamente giuridico, si coglie agevolmente il suo elevato valore morale.
Per quanto concerne la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, la Corte costituzionale
1
ha affermato che le norme della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono state introdotte nell’ordinamento
italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di
esecuzione, sono tuttora vigenti e non possono considerarsi abrogate da
successive disposizioni. Si tratta di norme che derivano da una fonte riconducibile
a una competenza atipica. Pertanto sono insuscettibili di essere abrogate da parte
di disposizioni di leggi ordinarie.
1
Si tratta della sentenza n. 10 del 1993.
5
Ritornando al secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione, si leggono due
enunciazioni. La prima afferma che le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità. Sia pure in negativo, essa comincia a delineare
l’essenza delle pene, quanto meno per escludere che esse possano essere
strutturate in modo tale da ledere gravemente il rispetto della personalità del
condannato.
Il testo costituzionale procede con una seconda enunciazione, questa volta in
positivo: “e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
E’ possibile notare, effettuando un confronto, come il legislatore costituzionale si
sia espresso in termini perentori per quanto riguarda le modalità di attuazione
della pena, mentre risulti essere estremamente cauto in relazione alla funzione
dell’emenda. L’articolo 27 non dice che le pene “devono consistere in trattamenti
orientati alla rieducazione del reo” ma che devono tendere alla rieducazione del
condannato
2
.
Affinché si concretizzi la prospettiva risocializzante e la finalità rieducativa della
pena, il legislatore utilizza una serie di “strumenti”, indicati dall’articolo 15 della
legge 354/1975, rubricato “elementi del trattamento” dove il trattamento del
2
Si è creduto per molti anni ad una sorta di effetto magico del trattamento: ma la sperimentazione,
anche in quei paesi in cui si è potuta realizzare senza limiti di risorse e con il più ampio impiego di
strumenti operativi tecnicamente avanzati e di personale qualificato, ha fornito risposte deludenti,
tali da far ridimensionare drasticamente gli entusiasmi iniziali e le aspirazioni future.
A volte ci troviamo innanzi a dei casi in cui appare “arduo” un recupero del condannato. Pensiamo
ad un terrorista rivoluzionario che rifiuti la legittimità delle istituzioni, dello stesso processo e
naturalmente della pena che gli è stata inflitta o al recupero di soggetti delinquenti, cui l’abitualità
anzi la professionalità nel reato, abbiano di fatto precluso la stessa possibilità teorica di una
possibile diversa scelta di vita. È necessario sfatare il mito di una possibile colossale opera di
bonifica sociale ed assumere un atteggiamento maggiormente realistico, tenendo conto del fatto
che l’efficacia reale di qualsiasi trattamento resta condizionato da una serie infinita di variabili, che
non sono sempre prevedibili e comunque difficilmente controllabili.
Possiamo asserire come lo stesso legislatore costituzionale si sia effettivamente reso conto di
suddette difficoltà ed abbia assunto, conseguentemente, un atteggiamento realistico, che si riflette
nella formula utilizzata dal secondo comma dell’articolo 27 della costituzione.
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condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione,
del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e
agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia.
Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi d’impossibilità, al condannato e
all’internato è assicurato il lavoro.
Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative,
culturali e ricreative, e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni
dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione
professionale, possibilmente di loro scelta, e comunque, in condizioni adeguate
alla loro posizione giuridica”.
È indubbio che tra gli elementi richiamati dall’articolo 15, il lavoro rappresenta
uno dei fondamentali, un modo per responsabilizzare il detenuto e consentirgli un
graduale ritorno nella società civile
3
.
La tematica del lavoro penitenziario presenta aspetti interessanti, quasi
suggestivi, per una serie di ragioni.
In primo luogo il lavoro penitenziario si caratterizza per un continuo intersecarsi
tra situazioni giuridiche nascenti dal rapporto di lavoro e istanza punitiva dello
stato.
In secondo luogo, il tema del riconoscimento dei diritti di coloro che prestano
un’attività lavorativa durante la detenzione, può essere sintetizzato nella
dicotomia tra detenuti – lavoratori e lavoratori – detenuti, a seconda che si dia
maggiore importanza all’aspetto speciale, rieducativo, “terapeutico” del lavoro
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Profondamente scettico sulle virtù rieducative del lavoro penitenziario è quel filone critico che,
rifacendosi alle assunzioni di base della teoria marxista della società, collega al sorgere del modo
capitalistico di produzione l’origine dell’istituzione carceraria moderna. Il lavoro penitenziario
rappresenta il livello più alto della coazione e della penosità del lavoro subordinato.
7
oppure alla tendenza ad equiparare il lavoro penitenziario a quello libero, con la
conseguenza di una maggiore attenzione per la tutela dei diritti nascenti da tale
rapporto.
Tutto sta nel trovare il coraggio di sostituire all’idea (e non soltanto all’idea!) del
detenuto lavoratore quella del lavoratore detenuto.
Infine il lavoro penitenziario riproduce ed amplifica il tema ed il dibattito, relativo
alla funzione della pena
4
.
In tema di lavoro dei detenuti notiamo notevoli progressi sia legislativi che
dottrinali e giurisprudenziali.
Tratteremo in primo luogo delle origini del lavoro penitenziario, visto soprattutto
in una logica afflittiva ed obbligatoria. Si analizzeranno, quindi, le innovazioni
apportate dalla legge 354 del 1975 e dalla legge 663 del 1986 (la c.d. legge
Gozzini), dalla c.d. legislazione emergenziale e dalla legge 193 del 2000 (la c.d.
legge Smuraglia). Ci soffermeremo sulle diverse tipologie di lavoro penitenziario
cosi come individuate dalla sentenza della Corte costituzionale 1087/1988,
analizzando la costituzione e la cessazione del rapporto di lavoro nonché gli
aspetti retributivi e quelli relativi ai diritti dei lavoratori – detenuti come orario di
lavoro, riposo settimanale, ferie annuali, assegni familiari, indennità di
disoccupazione, le assicurazioni contro invalidità, inabilità, malattia ed infortuni, i
diritti sindacali.
L’ultimo aspetto di cui tratteremo è quello relativo alla tutela giurisdizionale dei
diritti del lavoratore – detenuto, prima e dopo la legge 663 del 1986; l’involuzione
4
Sul rapporto funzione della pena e lavoro penitenziario, vedi premessa primo capitolo
“Evoluzione storica del lavoro penitenziario”.
8
e l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità e di merito, per poi concludere
con la recente pronuncia della Corte costituzionale (sentenza 341/2006) che
inaugura, forse, un nuovo corso ed approccio al lavoro penitenziario.
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Capitolo I
Evoluzione storica del lavoro penitenziario
1) Premessa
E’ generalmente riconosciuto il principio che il lavoro è uno dei più importanti
elementi di ogni sistema penitenziario.
“L’esperienza penitenziaria dimostra che il lavoro è uno strumento di prim’ordine
per la redenzione e per il riadattamento dei delinquenti alla vita sociale, dato che
esso è dinamismo, distrazione, soddisfazione, fonte di guadagno”
5
.
Quest’affermazione può apparire, attualmente, connaturata alle più avanzate ed
aperte concezioni del sistema penitenziario. Ma è stato sempre così?
Sicuramente no. Il lavoro nel regime penitenziario nasce in funzione strettamente
punitiva, afflittiva e finalizzata all’inasprimento delle pene. Addirittura il lavoro
penitenziario diviene uno strumento di dissuasione, come la sanzione penale, dal
compimento di un reato. Se questa è la genesi del lavoro penitenziario, attraverso
quali passaggi logici esso diventa, “dinamismo, distrazione, soddisfazione”? E
attraverso quali altri passaggi logici tale lavoro da mezzo puramente sanzionatorio
giunge ad essere mezzo di redenzione e di riadattamento del condannato?
Ciò si realizza attraverso quei mutamenti che riducono la pena da mezzo di
espiazione, sofferenza, castigo, a mezzo di rieducazione, emenda, recupero
5
Erra, voce Lavoro penitenziario, in Enciclopedia del diritto, volume XXIII, Milano, Giuffré 1973,
p. 564.
10
sociale. Ecco come il tema del lavoro penitenziario, si innesta alle funzioni della
pena.
Ma la sanzione penale rimane pur sempre espiazione e castigo. In un’ottica
polifunzionale della pena, accanto alla finalità della prevenzione speciale, convive
sempre quella finalità retributiva. Ed allora, proseguendo in questo parallelismo,
si dovrebbe ricercare se l’essenza del lavoro penitenziario, pur nelle moderne
strutture normative, non rimanga sempre caratterizzata dalla sua fisionomia di
origine.
2) Il primo regolamento penitenziario del regno d’Italia
Il primo regolamento, dopo l’unificazione del paese, venne approvato il
13/01/1862 ed entrò in vigore su tutto il territorio nazionale, fatta eccezione per le
province toscane, in cui si continuò ad applicare la normativa allora vigente.
Negli stabilimenti penali venne introdotto il sistema auburniano ovvero la
separazione notturna e il lavoro diurno in comune ed in silenzio. Dalla disciplina
penale delle province toscane venne mutuato il sistema misto consistente
nell’ammettere il detenuto al lavoro, solo dopo che avesse trascorso un periodo in
segregazione.
La normativa del 1862 sancì l’obbligatorietà del lavoro (articolo 4) attribuendo al
direttore dell’istituto il compito di destinare i detenuti alla varie attività praticate
negli stabilimenti carcerari, rispettando preferibilmente le attitudini degli internati,
salvo ragioni legate ad esigenze economiche o di sicurezza (articolo 261). Gli
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inabili al lavoro a causa dell’età, di imperfezioni fisiche o di altre affezioni
croniche venivano trasferiti in appositi stabilimenti penali ai sensi dell’articolo
265.
I soggetti non recidivi, che si distinguevano per una condotta esemplare, potevano
essere destinati dal direttore a servizi interni agli istituti, indipendentemente dalle
lavorazioni attivate nello stabilimento (articolo 269), beneficiando di un
trattamento di favore.
Si può notare, e ciò lo vedremo anche nel regolamento del 1891, una diretta
proporzionalità tra “pesantezza del lavoro” e gravità della pena nonché condotta
del detenuto. Ciò vuol dire che il detenuto veniva assegnato a lavori
maggiormente pesanti, se condannato ad una pena più grave o se, nel corso
dell’espiazione della pena, assumeva una condotta “non esemplare”.
Il prodotto del lavoro carcerario apparteneva allo stato, tranne eventuali
ricompense erogate al detenuto per il raggiungimento di predeterminati livelli di
lavoro giornaliero. Esse erano previste per coloro che si distinguevano per buona
condotta e per un lavoro attivo e produttivo, e comprendevano le gratificazioni, il
godimento del vitto di lavorante e di ricompensa, la facoltà di ricevere ulteriori
visite, l’utilizzo di parte del retratto per lavoro per l’acquisto di abiti invernali,
fino alla possibile riduzione della pena o addirittura la grazia sovrana (articolo
368).
Le gratificazioni erano erogate per la costituzione di un fondo, al fine di far fronte
ad esigenze del soggetto al momento della liberazione ed erano costituite da una
quota calcolata in decimi sul prodotto del lavoro svolto dal singolo in carcere. La
manodopera dei detenuti era valutata in relazione al salario praticato nella libera
12
industria, diminuito di un quinto. Le frazioni di decimi si differenziavano in
relazione al sesso dei lavoranti ed al tipo di condanna inflitta.
3) Il lavoro penitenziario nel codice penale del 1889 e nel
regolamento del 1891
Il codice penale del 1889 recepiva il principio per cui le pene restrittive della
libertà personale si scontano con l’obbligo del lavoro.
Nonostante si sottolineasse come l’obbligo del lavoro non dovesse essere
considerato “aggravamento della pena”, non si può fare a meno di rilevare che lo
stesso ministro Zanardelli, nella relazione al progetto 22/11/1887, costituente la
base del codice penale approvato il 30 giugno 1889, considerava il lavoro come
un “necessario completamento della pena”. Infatti non utilizzare quel fattore
principale di ordine, moralità e previdenza che è il lavoro, “sarebbe un’incoerenza
rispetto alla disciplina carceraria ed al fine preventivo della pena”. In altri termini
“il lavoro in carcere, oltre che come strumento per il puntuale e coscienzioso
adempimento dei doveri concernenti lo status di recluso, veniva visto come
strumento di prevenzione capace di incutere timore e di rimuovere dall’idea del
delitto. Se il lavoro non si caratterizzava più come vera e propria pena, rimaneva
pur sempre contrassegnato dall’idea che dovesse rappresentare una parte
integrante della pena, da cui la previsione della sua obbligatorietà con la logica
13
conseguenza che la coercizione morale e fisica di compiere il lavoro imposto era
già sufficiente a costituirne un indubbio elemento afflittivo”
6
.
Per tutto il secolo XIX solo la dottrina aveva cercato di adoperarsi per togliere al
lavoro carcerario il carattere di “penosità improduttiva”, mentre la legislazione
sembrava essere ancora legata alle concezioni originarie.
Né bisogna dimenticare che questa era l’epoca in cui ancora si discuteva
sull’opportunità che il lavoro fosse adeguato, in pesantezza, alla gravità delle
pene, mentre non poche legislazioni del continente europeo (codice penale
francese del 1810 o il codice penale del Canton Ticino del 1870), non certo
esitavano ad ammettere la regola del lavoro più duro e maggiormente penoso per
le pene più gravi
7
.
Ne è prova la normativa accolta in materia nel regolamento generale degli
stabilimenti carcerari, approvato nel 1891.
Il regolamento in questione, dopo avere ribadito che negli stabilimenti carcerari i
condannati erano obbligati al lavoro (articolo 276), fissava una serie di principi
dai quali non appare difficile desumere il vero significato, che la disciplina
relativa al lavoro carcerario doveva assumere.
Veniva stabilito (articolo 278) che i detenuti non potessero ricevere direttamente o
indirettamente commissioni di lavori, le quali dovevano, senza eccezioni, esser
date alla direzione o, in mancanza, al comandante, al capoguardia o al
caposorvegliante.
6
Tranchina, Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario, in AA.VV. Diritti dei detenuti e
trattamento penitenziario, a cura di Grevi, Bologna, 1981, pp. 144 ss.
7
Anche se mancava una disposizione ad hoc, nella prassi era riscontrabile questa graduazione tra
pesantezza del lavoro e gravità della pena. In particolare, la possiamo leggere tra le righe delle
disposizioni contenute nel regolamento penitenziario del 1891, agli articoli 278 – 280.
14
In tale prescrizione non si fa fatica a leggere una sorta di controllo preventivo da
parte dell’amministrazione penitenziaria e l’attribuzione ad essa di un potere di
scelta del tipo di lavoro, da assegnare al singolo detenuto, con un larvato
riconoscimento di una possibile facoltà di graduazione della pesantezza del
lavoro, in base alla gravità della pena da scontare.
In alcuni casi, tale graduazione sembrava operare in maniera automatica.
Possiamo ricordare l’articolo 279 dove i condannati recidivi, quelli per furto, per
rapina e per delitto contro il buon costume, non potessero essere addetti ai servizi
domestici; i condannati all’ergastolo potevano esservi addetti dopo aver scontato
venti anni di pena; mentre i condannati che avessero tenuto una condotta
esemplare potevano svolgere quei lavori “domestici”, solo dopo aver scontato la
metà della pena.
L’assegnazione ad un lavoro meno faticoso (ovvero il lavoro domestico) veniva
subordinata alla qualità dei reati commessi o al tipo di pena irrogata, con evidente
utilizzazione del criterio dell’adattamento del lavoro ai diversi gradi di penosità.
Tale criterio pareva confermato da un’altra disposizione dello stesso regolamento
(articolo 280), nella quale si attribuiva alla direzione del carcere il compito di
destinare d’ufficio alle lavorazioni, i condannati alle pena dell’ergastolo e della
reclusione (sia pure tenendo presente il mestiere precedentemente esercitato, le
loro attitudini, la durata della condanna). Viceversa, ai condannati alla detenzione
e all’arresto veniva assicurata la facoltà di scegliersi da soli una delle lavorazioni
praticate nello stabilimento.
La timidezza del legislatore nell’affermare direttamente questo principio veniva
compensata dalla pratica, dalla realtà del mondo penitenziario.
15
In altri termini “derivava una vera e propria discriminazione alla quale non poteva
attribuirsi altro significato che questo: mentre per coloro che dovevano scontare
una pena detentiva più grave doveva essere l’amministrazione dello stabilimento
carcerario a valutare il tipo di lavoro cui fosse opportuno assegnarli; per i
condannati ad una pena meno grave si consentiva che fossero essi stessi a
decidere a quale tipo di lavoro sottoporsi in base alla considerazione che la loro
condotta meno riprovevole poteva renderli meritevoli di operare una libera scelta,
con la possibilità, di dedicarsi ad un lavoro meno gravoso”
8
.
A questo punto, il valore di afflittività ancora connesso al lavoro penitenziario
come “parte integrante della pena” non poteva essere messo nel dubbio, a dispetto
di chi si ostinava a ripetere che il lavoro dei detenuti, se non è pena, non partecipa
neppure alla graduazione della pena
9
; anche se, con una certa coerenza ed onestà
intellettuale, aggiungeva che i condannati a breve pena carceraria avrebbero
potuto essere generalmente soggetti a lavori meno faticosi e più facili, mentre i
condannati a lunga pena sarebbero stati sottoposti a lavori più gravi e anche
rischiosi
10
.
8
Tranchina, Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario, in AA.VV. Diritti dei detenuti e
trattamento penitenziario, a cura di Grevi, Bologna, 1981, pp. 144 ss.
9
Conti, La pena ed il sistema penale del codice italiano, in Enc. dir. pen. it., diretta da Pessina,
vol. IV, Milano, 1910, p. 101.
10
Conti, op. cit., p. 103.
16
4) Il lavoro penitenziario nel codice penale Rocco e nel regolamento
del 1931
4.1) Considerazioni generali
Con l’avvento della legislazione, sia penale che penitenziaria, del 1931, la
concenzione del lavoro carcerario come elemento sanzionatorio, come
completamento della pena, sembra confermarsi, se non rafforzarsi. Anche il
nuovo codice penale, come il suo predecessore, fissava il principio secondo cui le
pene detentive si scontano con l’obbligo del lavoro. Questo principio era ribadito
nella formula di esordio del regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena
(r.d. 787/1931) dove, all’articolo 1, in termini chiari e precisi, si legge “in ogni
stabilimento carcerario le pene si scontano con l’obbligo del lavoro”. I
commentatori dell’epoca si affrettarono a chiarire che, mentre il lavoro in tutte le
sue forme doveva essere considerato come un dovere sociale, il lavoro carcerario
si traduceva, proprio in virtù dello stato di detenzione, in un dovere giuridico,
sanzionato, come ricordava lo stesso guardasigilli Rocco, da gravi disposizioni
disciplinari
11
.
Che il lavoro venisse visto come un necessario complemento della pena era
dimostrato anche da un’altra considerazione, relativa alla disciplina del lavoro
degli imputati detenuti.
11
Relazione ministeriale sul regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena (r.d. 18 giugno
1931 n. 787), XXI.
17
L’articolo 1 comma 2 del regolamento del 1931 prevedeva l’obbligo del lavoro
anche per gli imputati detenuti, ma solo nel caso in cui non riuscissero “a
mantenersi con mezzi propri”. In caso contrario, ovvero se avessero avuto mezzi
di sussistenza, tali da permettergli di non “vivere a carico dello stato”, l’obbligo
non sarebbe sorto.
Questa regola, ad una prima lettura, alquanto superficiale, poteva apparire come la
conferma autentica di una concezione rieducativa e risocializzante del lavoro
penitenziario.
“Infatti, si poteva essere indotti a pensare che, non essendo l’imputato considerato
colpevole se non dopo una definitiva condanna, sino a quel momento non sarebbe
sorto il problema di un recupero sociale nei suoi confronti; invece per il
condannato, proprio in virtù del riconoscimento della sua condotta antisociale,
sarebbe stato necessario un trattamento rieducativo anche attraverso la misura del
lavoro”
12
.
La realtà era ben diversa. Sarebbe impensabile immaginare la convivenza del
principio della presunzione di non colpevolezza all’interno di un regime totalitario
qual’era il fascismo. Ciò ci viene confermato dalla stessa relazione ministeriale
sul regolamento per gli istituti di prevenzione, dove tale principio, è considerato
“fuori dalla realtà umana e giuridica, la pretesa che l’imputato debba, nel
trattamento da farglisi durante il procedimento, essere trattato come un
innocente”
13
. Il fatto stesso di essere imputati costituiva già una presunzione di
colpevolezza.
12
Tranchina, Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario, in AA.VV. Diritti dei detenuti e
trattamento penitenziario, a cura di Grevi, Bologna, 1981, p. 147.
13
Relazione, cit., III