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1.INTRODUZIONE
1.1 . La macchia mediterranea
1.1.1. Il clima mediterraneo
Col termine “macchia mediterranea” intendiamo biomi costituiti da
piante sclerofile tipiche delle aree che si affacciano sul Mar Mediterraneo,
oltre che sull'Atlantico, in Marocco e nella parte atlantica della Penisola
iberica meridionale. Formazioni arbustive o arborescenti simili per aspetto
a delle macchie, costituite cioè da sclerofille, ma del tutto diverse come
specie, si trovano in altre regioni della Terra caratterizzate da condizioni
climatiche simili a quelle mediterranee.
Cinque aree del nostro pianeta (situate fra 30 e 40 gradi di latitudine
sia a Nord sia a Sud dall’Equatore), condividono il clima di tipo
mediterraneo e conseguentemente biomi vegetali simili per caratteristiche
pur comparendo specie totalmente diverse. I nomi tipici di tali “macchie”
variano da zona a zona: (chaparral) in California, (fynbos) in Sudafrica,
(mallee) nell'Australia meridionale, mentre in Cile si usa un termine
utilizzato anche in Spagna: (matorral).
Due di queste regioni si trovano nell’emisfero settentrionale (bacino
del Mediterraneo, California), le altre tre in quello meridionale (Cile
centrale, Provincia del Capo, Australia sud-occidentale e meridionale).
Queste cinque zone ricoprono appena il 2% della superficie delle terre
emerse del pianeta, ma ospitano oltre il 20% delle specie vegetali
conosciute, rappresentando uno dei centri di maggiore biodiversità del
pianeta (Fig.1).
Il clima mediterraneo è caratterizzato durante i mesi caldi, da
giornate serene e a cielo terso, con temperature elevate e aria asciutta;
durante i mesi freddi, da cielo variabile con piogge frequenti e temperature
basse, ma mitigate dall’influenza marina. Il mare, infatti, tende ad
accumulare calore durante i momenti più caldi della giornata rilasciandolo
più lentamente rispetto alle zone continentali; sarebbe proprio questa lenta
cessione di calore ad attenuare le escursioni termiche tra il giorno e la
notte rendendo le gelate notturne molto rare.
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Figura 1. La biodiversità nelle varie fasce del bacino del Mediterraneo.
D’estate il clima è influenzato dalla presenza di alta pressione (che
determina assenza di pioggia) e d’inverno da sistemi di bassa pressione.
La temperatura raramente scende al di sotto dello zero e mai al di sopra
dei 50 °C (medie annuali: 14-18 °C); le piogge sono concentrate al di fuori
della stagione estiva e variano da un minimo di 300 ad un massimo di
1.500 mm annui con una media di 700 mm.
Le piante, dunque, pur beneficiando di un clima meno proibitivo che
altrove per quanto riguarda le temperature sono sottoposte, soprattutto nei
periodi estivi, ad un elevato stress idrico; peraltro tale stress è amplificato
dall’effetto dell’aerosol marino che, penetrando nell’entroterra anche per
diversi chilometri sospinto dai venti, contribuisce a diminuire il potenziale
osmotico delle aree interessate. La concomitante elevata irradianza nelle
ore diurne del periodo primaverile-estivo fino al primo autunno concorre a
rendere le condizioni di vita ancor più difficili e proibitive per le specie
tipiche.
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1.1.2. Il bioma mediterraneo
Il bioma mediterraneo è, dunque, costituito da piante adatte
all’aridità stagionale; infatti, anche se la composizione in specie è molto
diversa nelle aree che condividono queste condizioni climatiche, la
comunità che si sviluppa è sorprendentemente simile dal punto di vista
strutturale e nella morfologia delle specie vegetali dominanti. I paesaggi
mediterranei devono, infatti, molto del loro aspetto alla loro vegetazione
così particolare, tra cui dominano le specie xerofite.
Il paesaggio della flora mediterranea, un nastro verde lungo le
coste, un tempo era molto diverso da come siamo abituati ad osservarlo;
grandi estensioni di foreste sempreverdi dominavano queste aree (querce
da sughero, lecci e castagni in particolar modo in Italia) estendendosi in
maniera massiccia ed impenetrabile dalla costa fino a circa 800 m s.l.m
alternate a conifere ad altitudini maggiori; una enorme risorsa per le
popolazioni locali in fatto di selvaggina e legname. Millenni di storia umana
hanno pero’ profondamente trasformato questo tipo di ecosistemi: il
bisogno di spazi per l’agricoltura e l’allevamento nonché per
l’insediamento di villaggi ha provocato la distruzione di questo immenso
patrimonio naturale.
Peraltro, per i motivi sopraccitati, queste zone sono diventate anche
maggiormente sottoposte a incendi spontanei. La concomitante riduzione
di biomassa vegetale, in grado di incrementare l’umidità in prossimità del
suolo, e i composti secreti dalle piante che progressivamente hanno
sostituito le grandi estensioni di latifoglie (facilmente infiammabili come le
resine), hanno creato i presupposti per un’incremento di tali fenomeni.
Le grandi foreste sono ormai rare e sono state sostituite dalla
"gariga", formazione vegetale tipica di zone calcaree rocciose e aride dove
si sviluppano,in maniera anche molto fitta, solo arbusti nani e spinosi,
particolarmente resistenti alla siccità. Il termine “macchia” deriva proprio
dall’intreccio e dall’unione, talvolta impenetrabile, di specie vegetali
diverse in modo da creare ambienti spesso inaccessibili.
Le macchie mediterranee si possono diversificare per composizione
floristica e sviluppo strutturale in macchia bassa e macchia alta (Fig.2). La
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prima costituita prevalentemente da specie a portamento arbustivo, con
chiome ridotte che raggiungono al massimo i 2 metri d'altezza. Nella
composizione floristica possono entrare specie come l'euforbia arborea, le
ginestre e altre cespugliose quali i cisti e il rosmarino e moltissime altre
piante aromatiche ed officinali.
La macchia alta è, invece, prevalentemente composta da specie a
portamento quasi arboreo, con chiome molto ampie che raggiungono o
superano i 3-4 metri d'altezza. Seppur per popolazioni non comparabili in
numero col passato in questa categoria restano rappresentative le specie
del genere Quercus (leccio e sughera), quelle del genere Phillyrea (ilatro e
ilatro sottile), ed inoltre il corbezzolo, alcune specie del genere Juniperus
(in particolare Ginepro rosso), il lentisco, il mirto, il pino marittimo e altre di
minore diffusione.
Figura 2. Rappresentazione schematica dell’alternanza delle specie vegetali dalla costa
all’entroterra
Le fasce di vegetazione del bacino mediterraneo sono
rappresentate nelle zone meno calde, dalle foreste di latifoglie
sempreverdi sclerofille; man mano che il clima si fa più caldo, la foresta si
dirada e viene sostituita dalla macchia. Un ambiente divenuto quasi
sinonimo di vegetazione mediterranea: zone alberate qua e là, con ampi
spazi aperti in cui predominano arbusti ed erbacee ben adattate con
l’evoluzione a queste condizioni difficili. Avvicinandoci a pochi metri dalla
spiaggia l’attenzione invece viene catturata da piante tipiche delle dune o
psammofile come l'Eringio marino (Erygium maritimum), la Rughetta
marina (Cakile marittima), il Pancrazio (Pancratium maritimum), la
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Pastinaca marina (Echinofora spinosa), la Cineraria (Senecio cineraria)
(Fig.2). Anche fra le piante coltivate, molte sono caratteristiche: olivo, vite,
fico, agrumi, palme, dracaena, agavi, acacie, eucalipti. Tra le specie
erbacee si possono ricordare le forme selvatiche della grande famiglia
delle graminacee, come frumento e orzo, che, 10000 anni fa, furono tra i
primi vegetali ad essere coltivati.
1.1.3 Sclerofilia e xerotrofia
Le piante della macchia mediterranea sono capaci di vivere in
condizioni di deficiente umidità atmosferica e all’elevata intensità luminosa
avendo sviluppato meccanismi adattativi, talvolta molto diversi e specie
specifici, ma tutti estremamente efficaci.
Alcune presentano un enorme sviluppo dell’apparato radicale
assorbente rispetto a quello aereo traspirante; altre hanno meccanismi
adatti a contenere la traspirazione (cuticola ispessita, deposizione di cere,
pareti cellulari poco plastiche e robuste, stomi ridotti in numero o
dimensioni); altre ancora possiedono particolari tessuti nei quali riescono
ad immagazzinare molta acqua durante il periodo delle piogge (piante
grasse, a fusto succulento).
Una delle più importanti strategie è rappresentata dalla sclerofillia,
che consiste nell’irrobustimento ed ispessimento delle foglie con una
cuticola spessa e ricoperta talvolta di peli e cere. Sclerofille, come per
esempio il leccio, il corbezzolo, la fillirea, il lentisco e l’alloro hanno foglie
poco plastiche con pareti cellulari spesse e rigide, che evitano il collasso
della cellula in caso di elevate perdite idriche e consentono importanti
variazioni della pressione di turgore.
Altre piante invece, come l’oleandro, presentano gli stomi in
particolari cavità della pagina inferiore della foglia ricoperte di peli per
ridurre al massimo la perdita di vapore acqueo.
Particolari le “ghiandole del sale” presenti invece in Limonium che
permettono di concentrare il cloruro di sodio ed estruderlo fisicamente in
forma cristallina dai tessuti. E’ stato coniato il termine “xeromorfismo” per
descrivere questi adattamenti ed i meccanismi atti a fronteggiare le severe
12
condizioni di aridità e a limitare le perdite idriche che avvengono per
traspirazione fogliare nei periodi più caldi.
In condizioni di aridità estreme, l’attività fotosintetica netta può
essere rallentata o addirittura arrestata per la durata dell’intero giorno a
causa della ridotta apertura stomatica; questo processo associato ad una
elevata irradianza nelle ore piu’ calde contribuisce notevolmente ad
incrementare lo stress per la pianta la quale si ritrova a dover dissipare un
eccesso di energia luminosa non utilizzabile per organicare la CO
2
. Fattori
endogeni, come ad esempio gli ormoni vegetali quali l’acido abscissico
(ABA), che induce chiusura stomatica, le citochinine che svolgono un
ruolo fondamentale nelle risposte di acclimatazione allo stress idrico così
come la sintesi di una gamma di molecole definite soluti compatibili
(glicina, betaina, polialcoli, ammine terziarie, ecc…par 1.5.1.3.) i quali
contribuiscono a mantenere livelli molto negativi di deficit idrico nelle
cellule e nei tessuti in cui vengono accumulati.
La risposta a lungo termine al segnale di stress può avere
manifestazioni fenotipiche, con cambiamenti nello schema di sviluppo e
nelle modalità di crescita e conseguenze sull’architettura della pianta
(gemme caulinari e radici). In alcuni casi la pianta non presenta anomalie
macroscopiche nello sviluppo, ma accelera il ciclo vitale, con una più
rapida transizione alla fase riproduttiva (fioritura e fruttificazione) che
generalmente avviene precedentemente ai periodi più caldi.
La risposta fenotipica allo stress quasi sempre si associa ad
alterazioni anatomiche, cioè alla realizzazione dei programmi
differenziativi di cellule e tessuti e al manifestarsi di eventi cito-
differenziativi secondari. Può accadere che la risposta morfogenica di
difesa sia osservabile solo a livello cito-istologico, cioè non porti ad un
fenotipo alterato, ed abbia come bersaglio i tessuti persino di un solo
organo o solamente una o più parti di esso.
Analisi biochimiche e molecolari hanno di recente messo in
evidenza che esiste un notevole grado di sovrapposizione tra le risposte
indotte nelle piante da fattori abiotici quali ozono, danno meccanico, UV,
basse temperature, siccità e presenza di metalli pesanti, con quelle messe
in atto contro attacchi da parte di patogeni (fattori biotici).
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Segnali molecolari come l’acido salicilico (SA), l’etilene, l’acido
jasmonico (JA) e le ROS (oxygen reactive species) sono coinvolte sia
nelle risposte ai patogeni che nelle risposte a stress abiotici, per esempio
ad esposizione all’ozono e UV o la stessa carenza idrica. Vie di
trasduzione note per essere attivate in risposta all’attacco dei patogeni
sono attivate in risposta allo stress da ozono e molte proteine e molecole
di difesa indotte da patogeni sono indotte da danno meccanico, basse
temperature e altri stress abiotici. Per esempio, modificazioni della parete
cellulare e la sintesi di PGIP (enzimi inibitori delle poligalatturonasi), sono
indotte anche dalle basse temperature, da elevate concentrazioni di CO
2
,
dalla disidratazione e da metalli pesanti; inoltre proteine simili alla PGIP
hanno dimostrato anche una attività anti-congelamento in prove eseguite
in vitro.
Queste “risposte incrociate” derivano appunto dal fatto che molto
spesso è lo stress ossidativo la risposta primaria ad un elemento
stressante che interessa la pianta in modo localizzato o sistemico; le ROS
insomma agirebbero in questi casi come segnale primario in grado di
allertare la pianta in modo che possa mettere in atto le proprie difese.
Proprio per le caratteristiche di eccezionale resistenza e per
l’elevata capacità adattativa a condizioni abiotiche molto proibitive, sia a
stress salino e di conseguenza a stress idrico, sia a stress derivante da
eccesso di energia luminosa o indotta da raggi UV (radiazioni ad elevato
contenuto energetico), le piante della macchia mediterranea
rappresentano una fonte inesauribile di informazioni scientifiche e sono
attualmente al centro di molti progetti di ricerca.
La speranza è proprio quella di riuscire a trasferire i risultati ottenuti
dallo studio di tali piante alle colture agrarie in prospettiva di una sempre
minor disponibilità idrica globale, di un crescente processo di
salinizzazione delle acque irrigue e, non ultimo, di un processo di
incremento di penetrazione di raggi UV nella biosfera dovuto
all’assottigliamento dello strato di ozono troposferico.
Processi per alcuni autori attribuibili a fattori antropici; per altri la
mano dell’uomo sarebbe solamente un fattore secondario, ma sono
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comunque aspetti che non ci possiamo permettere di ignorare per la loro
inequivocabile esistenza.
1.2 . Stress salino e stress idrico: l’ “aridità biologica”
Lo stress è solitamente definito come un fattore negativo esterno
che esercita un’influenza svantaggiosa sulla pianta considerato in merito
alla sopravvivenza della pianta stessa, alla resa delle colture, alla crescita
o ai processi di assimilazione primaria che comunque sono in generale
correlati alla crescita. Un ambiente stressante per una pianta può non
esserlo per un’altra; ogni specie e addirittura ogni singolo individuo
possiedono infatti un proprio genotipo che, insieme alla pressione operata
dall’ambiente, ha determinato una entità a se stante con caratteristiche
talvolta simili, ma mai identiche ad un altro individuo.
Peraltro, la plasticità del genoma vegetale e l’enorme potenziale
non espresso (generalmente si ritiene che il 40%-50% del genoma di una
pianta sia inespresso, ma attivabile da determinati fattori sia biotici che
abiotici), correlabile alla sessilità delle piante, quindi incapaci di “fuggire”
dall’evento stressante, rendono ancor più il regno vegetale interessante,
ma allo stesso tempo molto complicato dal punto di vista scientifico.
Dare delle informazioni generali di come gli organismi vegetali
rispondano a determinati stress risulta pertanto impossibile. Inoltre, molte
delle risposte possono essere comuni a più stress e stress multipli (la
condizione più probabile in natura) possono non innescare le medesime
risposte che si avrebbero come risultato dei vari stress presi in esame
singolarmente.
Le nozioni che seguiranno saranno solamente una panoramica
basata su casi di studio che raggruppino per omogeneità di risultati
determinati gruppi di piante senza la pretesa di poter estendere ciò a tutto
il regno vegetale.
Uno dei maggiori fattori stressanti per le piante, per cui tra l’altro si
prevede un rapido incremento negli anni a venire, è rappresentato dallo
stress salino derivante da processi di salinizzazione delle acque irrigue;
secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura USA infatti, ogni anno, 10
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milioni di ettari di campi coltivabili, un’area pari a 1/5 della California,
vanno perduti a livello globale, a causa dell’eccesso di sali lasciati nel
suolo dalle acque di irrigazione, che durante il loro percorso raccolgono
sali solubili come sodio, magnesio e potassio e li depositano nel terreno.
Lo studio di piante come quelle della macchia mediterranea, capaci
di tollerare concentrazioni saline abbondanti, potrebbe indirizzarci verso la
comprensione dei meccanismi di alotolleranza di cui queste ultime
dispongono in modo da poter applicare tali conoscenze nelle colture di
interesse agrario.
L’elevato contenuto salino determina nelle piante essenzialmente
due tipi di stress: il primo e più immediato, che si riscontra in tempi brevi,
riguarda la diminuzione della capacità dei tessuti radicali della pianta di
assorbire acqua dal terreno poiché il potenziale idrico di quest’ultimo (ψ
w
)
diventa via via più negativo man mano che cresce la concentrazione di
ioni in soluzione; in un secondo momento, se la pianta riesce a
sopravvivere alla ridotta disponibilità idrica, subentra invece la tossicità da
parte di un eccesso di ioni della soluzione assorbita. Il grado di tossicità
varia molto, oltre che dalla concentrazione, anche dal tipo di ione in
eccesso e dal tipo di pianta che puo’ risultare più o meno tollerante grazie
a meccanismi che possono spaziare dall’esclusione, all’ assorbimento
selettivo, alla compartimentalizzazione, ecc..
Bisogna sottolineare come qualsiasi elemento può risultare letale a
determinate concentrazioni; quelli che però possono raggiungere livelli di
tossicità estrema per concentrazioni realmente riscontrabili e non
ipotetiche sono essenzialmente il sodio, il boro, il cloro e pochi altri.
Molti lavori scientifici come questo si basano sulla caratterizzazione
di tolleranza alla salinità utilizzando soluzioni molto concentrate (per la
normale tolleranza dei sistemi biologici) in NaCl, sia perchè è uno dei sali
che normalmente ritroviamo disciolto in eccesso e con maggior frequenza
nelle acque irrigue, sia perché a seconda della concentrazione può
causare seri problemi alle piante.
Prove sperimentali che sottopongono la piante a stress salino
determinano le medesime risposte delle stesse in condizioni di stress
idrico (nel breve termine) poiché, sia l’elevato contenuto ionico, sia ridotte
16
concentrazioni di liquidi, determinano quella che viene definita “aridità
biologica”.
La carenza idrica genera nella pianta una serie di risposte tra le
quali la più tipica consiste nella riduzione dell’apertura stomatica con
concomitante riduzione nell’assimilazione di CO
2
; i due processi si
manifestano con una riduzione dell’attività fotosintetica e conseguente
riduzione di biomassa, soprattutto della parte epigea a favore
dell’apparato radicale.
La riduzione dell’apertura delle cellule guardia diminuisce lo
scambio di vapor d’acqua in equilibrio con lo strato limite intorno alla
cellula riducendo la perdita di liquidi da parte della cellula stessa.
Evidenze mostrano come la chiusura stomatica sia mediata dall’ABA
(acido abscissico) il quale, influendo sul pH tra interno ed esterno della
cellula, provocherebbe la perdita di turgore delle cellule con conseguente
riduzione dell’apertura stomatica.
L’ABA, infatti, sarebbe in larga parte sintetizzato nella radice nel
momento in cui inizia la percezione che le cellule dell’apparato radicale si
trovino in stress idrico e, traslocato alle foglie, influenzerebbe la
disattivazione delle pompe protoniche trans-membrana provocando la
perdita di turgore delle cellule guardia (Hartung et al. 1988). Il processo
descritto in precedenza si ripercuote, di conseguenza, sui tassi assimilativi
di CO
2
influenzando negativamente la fotosintesi.
Dal momento che l’assorbimento fotonico da parte dei complessi antenna
e delle clorofille non può essere interrotto, si determina un’eccesso di
energia sotto forma di potere riducente e calore che la pianta si trova a
dover dissipare.
L’eccesso di energia, accoppiato all’abbondanza di ossigeno e alla
riduzione della fotosintesi, pone non pochi problemi per la pianta; in
queste condizioni infatti possono innescarsi una serie di reazioni sia
fisiologiche che biochimiche a causa delle quali, se lo stress persiste, la
pianta puo’ lentamente perdere le proprie funzionalita’ cellulari, tissutali
fino a compromettere l’intero organismo portandolo a morte.
Uno degli aspetti più deleteri riguarda senza dubbio la formazione
delle ROS (in dettaglio par.1.4); contrastarle, infatti, non è facile dal
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momento che anche i sistemi antiossidanti, che in genere presiedono a
questo ruolo, risentono dello stress.
Molti antiossidanti sono, infatti, enzimi che in carenza idrica
possono perdere o veder ridotte le proprie capacità catalizzanti a causa
della perdita della conformazione originale della proteina oppure non
usufruire dell’adeguato grado di solubilità e mobilità che un normale
potenziale osmotico cellulare garantirebbe loro.
Fortunatamente il metabolismo, anche se in carenza idrica, molto
spesso è in grado di sopperire incrementando ex-novo la sintesi di unità
enzimatiche oppure di trascrivere isoforme particolarmente resistenti al
ridotto contenuto idrico; in aggiunta a questo può incrementare anche la
sintesi di chaperonine, una gamma di proteine la cui sintesi è correlata
con vari stress, in grado di presiedere al corretto folding proteico anche in
caso di vari stress abiotici come calore, siccità, salinità, ecc…
(par.1.5.2.4.).
Per quanto riguarda la tossicità degli ioni in eccesso rispetto alle
esigenze biologiche della pianta che si trova a vivere in tale ambiente, non
possiamo descrivere delle risposte generali in quanto ogni elemento può
risultare tossico per svariati motivi. Alterazione del pH e dell’equilibrio
osmotico, competizione con altri elementi essenziali, interferenza con i
potenziali di membrana e quindi compromissione delle attività delle pompe
protoniche con tutte le conseguenze che ne derivano (una per tutte la
perdita di turgore cellulare), sono solo alcuni degli aspetti su cui
l’iperbiodisponibilità dell’elemento può influire.
Per quanto riguarda il sodio, questo non viene assorbito nelle cellule
dell’apparato radicale mediante appositi carrier, ma viene importato
tramite pompe di antiporto cationiche ione/H
+
in dipendenza dal gradiente
elettrochimico di H
+
che si instaura tra le regioni intracellulare ed
extracellulare, delimitate dal plasmalemma. Na
+
compete quindi con altri
elementi come K
+
che contrariamente al primo è un elemento essenziale e
richiesto in grande quantità poiché, oltre a rappresentare il cofattore di
numerosi enzimi, sarebbe coinvolto nelle variazioni di turgore delle cellule
guardia e quindi nella regolazione dell’apertura stomatica.
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Disturbi in questo meccanismo possono portare a morte la pianta in
poco tempo; in una condizione idrica già precaria infatti lasciare gli stomi
aperti significa accelerare notevolmente la perdita di liquidi accelerando in
maniera repentina il processo di disidratazione.
Soprattutto in terreni calcarei e acidi, dove la solubilità del sodio è
molto elevata e la competizione con gli ioni potassio elevata, il problema
risulta più accentuato rispetto a terreni di diversa struttura.
Per quanto riguarda il cloro, invece, la sua tossicità non è dovuta
tanto alla competizione come coenzima, quanto piuttosto alle sue capacità
denaturanti; l’anione risulta in grado di provocare la perdita di struttura
terziaria e quaternaria delle proteine ed anche destabilizzare gli acidi
nucleici (soprattutto l’RNA nel momento della traduzione) se accumulati
nel citosol.
Per tutti questi motivi lo stress salino e lo stress idrico connesso, ed
in particolar modo il trend crescente nell’accumulo di sodio nelle acque
irrigue, destano serie preoccupazioni per le colture di interesse agrario.
1.3 . Stress associato ad elevate intensità luminose
Condizioni di elevata irradianza sono molto frequenti alle nostre
latitudini soprattutto nel periodo estivo e pre-autunale. Peraltro, nel
medesimo periodo, la scarsità di precipitazioni (in certe zone è più corretto
parlare di totale carenza) aggrava la condizione di stress nelle piante che
vivono in queste aree.
Le piante si acclimatano e si adattano alle limitazioni e all’eccesso
di luce mediante variazioni della loro morfologia, anatomia e fisiologia.
Queste variazioni, peraltro, sono influenzate in maniera notevole dalle
condizioni idriche della pianta. Inoltre, esistono piante sciafile ed eliofile; le
prime prediligono zone a bassa irradianza mentre le seconde richiedono
condizioni di luce più o meno diretta, ma comunque una intensità
sicuramente superiore in fatto di fotoni PAR (photosintetical active
radiation). Tra i due estremi si collocano tutte quelle piante che sono più
adatte a condizioni di luce intermedie e per le quali entrambi gli estremi
non rappresentano l’optimum.