PREFAZIONE
“In tempo di guerra la verità è così preziosa che sempre bisogna proteggerla con una cortina di
bugie”
Winston Churchill
La figura professionale dell'inviato al fronte ha sempre suscitato in me grande interesse e fascino.
Per questo dedicherò il mio lavoro ai reporter di guerra, concentrandomi sui giornalisti italiani morti
sul campo e sull'evoluzione che questo mestiere ha avuto nel corso della storia. Viene considerato
per antonomasia padre di questa professione, senza addentrarsi nei meandri della storia, l’irlandese
William Russell che nel 1854 fu mandato a raccontare la guerra di Crimea. Russell si aggirò per il
fronte come un “cane sciolto”, osservando gli eventi e cercando di capire cosa fosse in realtà una
battaglia. I resoconti del giornalista aprirono una breccia nel muro che fino a quel momento aveva
tenuto separato l'ignaro cittadino dalla verità dei campi di battaglia. Purtroppo la storia del
giornalismo di guerra insegna che la chiarezza usata da Russell nello scrivere i suoi pezzi non fu
sempre possibile, soprattutto durante la guerra in Vietnam, che rappresenta il punto di non ritorno
per l'informazione bellica. Ma prima un balzo indietro: attraverso l'epoca coloniale, prendendo a
prestito l'esperienza di Luigi Barzini, giungerò alla Seconda Guerra Mondiale per raccontare della
dura vita degli inviati, primo tra tutti Indro Montanelli, divisi tra ardente bisogno di espressione e
censura. Spazio sarà dato anche al cinema, alla fotografia e alla radio come mezzi di comunicazione
nascenti e privilegiati per la diffusione di notizie e spesso di propaganda. Darò anche voce a una
delle donne reporter più autorevoli in questo campo, Oriana Fallaci, emblema della giornalista
combattiva. Come dicevo, il Vietnam ha fatto da spartiacque nell'evoluzione della professione e
cercherò di riportarlo attraverso la testimonianza di Tiziano Terzani. In seguito, invasione russa
dell'Afghanistan, guerra del Golfo e dei Balcani saranno le tre tappe che faranno da premessa al
grande capitolo assegnato all'Afghanistan e all'Iraq. Una sezione di intermezzo sarà dedicata alla
figura del reporter nel senso tecnico del termine, prendendo le mosse dal libro di Ryszard
Kapuściński “Autoritratto di un reporter”: saranno analizzati linguaggio, bagaglio e fonti per
delineare gli aspetti caratteristici di questa figura. Esistono storie celate dietro a nomi che hanno
dato tanto per sapere. E alcune di queste persone, rigorosamente italiane, hanno davvero segnato la
storia degli inviati di guerra. Il quarto capitolo, cuore della mia ricerca, sarà dedicato dunque a quei
giornalisti e fotoreporter morti in guerra perché volevano documentare e rendere nota a tutti la
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verità: Italo Toni e Graziella de Palo, i due giornalisti morti nel 1980, Almerigo Grilz (1987), Guido
Puletti (1993), il giornalista Marco Luchetta e gli operatori Alessandro Ota e Dario D'Angelo
(1994), Ilaria Alpi e l'operatore triestino Miran Hrovatin (1994), Marcello Palmisano (operatore di
Carmen Lasorella) deceduto nel 1995, Antonio Russo (2000), Maria Grazia Cutuli (2001), Raffaele
Ciriello (2002), Enzo Baldoni (2004) e Fabio Polenghi (2010). La società dell'immagine è il titolo
del quinto capitolo, dove darò molto spazio alla fotografia e alle tecniche di messa a video,
fondamentali per le storie raccontate dai reporter. Non potevo certo esimermi dal parlare del
fotogiornalismo e del suo maggior esponente: Robert Capa. E poi approderemo nell'era della
televisione e del video: il modo in cui è stato interpretato l'11 settembre e la guerra in Iraq sarà
spiegato attingendo alle più grandi emittenti mondiali, Cnn, Bbc, Fox News e Al-Jazeera ma anche
al Corriere della Sera e Repubblica e ai nuovi leader mondiali che monopolizzano l'informazione.
Darò grande rilievo a Internet e ai war blog (solo due esempi, “La Torre di Babele” di Pino Scaccia
e il blog di Salam Pax), intesi come nuovi strumenti di comunicazione: in un mondo sempre più
“vicino” grazie alle incredibili possibilità di collegamento istantaneo offerte dall’informatica e dalle
telecomunicazioni, si è giunti ai primi casi di “superamento” della professione giornalistica come
noi tutti la conosciamo. Verrà infine analizzato il fenomeno del citizen journalism con particolare
riguardo al suo versante militare.
Obiettivo di questo lavoro è la fedele descrizione del pericoloso e affascinante mestiere di inviato di
guerra, dalle origini al giorno d’oggi, azzardando le sue probabili evoluzioni future. Attraverso lo
studio dell’evoluzione della figura di inviato al fronte, cercherò di comprendere come è mutata
l’informazione e i vincoli che il potere ha cercato di porre al suo svolgimento. Cuore della tesi sarà
descrivere la personalità di quei giornalisti italiani morti in guerra, cercando di tratteggiare un
profilo quanto più veritiero delle loro personalità, del loro lavoro e delle motivazioni che li hanno
spinti a svolgere una professione tanto attraente quanto rischiosa. Una sorta di missione a cui hanno
dedicato tutta la loro vita. Per raggiungere questo scopo impegnativo saranno indispensabili cenni
storici poiché - nel caso del giornalismo di guerra, così come in molti altri settori - solo uno sguardo
al passato può permettere la comprensione del presente.
Ho seguito alcuni importanti nomi della stampa nazionale, cercando di rispondere a qualche
domanda: qual è stato il cambiamento apportato alla professione giornalistica dagli ultimi conflitti?
Quali sono i nuovi pericoli per l’inviato, come ne risente il lavoro sul campo? La censura nei
confronti della stampa nei teatri bellici, l’evoluzione delle tecnologie a disposizione dei media,
l'involuzione dello status di giornalista - da cronista dei fatti a “preda” - hanno modificato o
stravolto questo mestiere?
Ma cercherò di far luce anche su altri dubbi. Siamo sicuri che nell'era del “bombardamento
mediatico” lo spettatore sia davvero informato? Gli embedded sono la soluzione al problema o un
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altro tentativo di raccontarci una parte della realtà? Per questo cercherò di capire se i nuovi
strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione sono armi a favore della verità o meno.
Ho filtrato il racconto attraverso gli occhi degli inviati al fronte e di chi li ha conosciuti, cercando di
riportare come hanno vissuto i cambiamenti tecnologici, politici e sociali che si sono presentati
nello svolgimento del loro lavoro. La metodologia d’analisi è stata dunque quella di raccogliere
interviste, testimonianze, video, articoli di giornale scritti durante gli eventi bellici più significativi
di questi cento cinquant'anni di storia.
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INTRODUZIONE
“...La nostra era una vera strategia che, coma la scienza
militare, aveva le sue marce e contromarce, le sue imboscate, e i suoi
stratagemmi, le sue sorprese. Il segreto stava nello scrivere tali cose
a doppio senso che la censura dovesse capirle per un verso, mentre i
lettori le capivano al rovescio”
C. Righetti, “Uomo di pietra”, 1859
Il grande mito del reportage
Reportage è un termine con cui si denota un ampio argomento che ha per oggetto una notizia già
conosciuta, è il pezzo classico che si richiede agli inviati speciali, quei giornalisti mandati in luoghi
particolari del mondo per raccontare eventi degni di nota. Rispetto alla notizia, non si lavora per
accumulazione di dati ma per estensione: si prende un fatto o il particolare di un fatto e lo si
trasforma in una storia, dilatandone i confini, giocando su atmosfere, sensazioni, emozioni e
sfruttando le capacità di scrittura del giornalista. La chiave di un reportage è sempre portare il
lettore nel cuore della vicenda. Scrivere un reportage significa innanzitutto descrivere un evento e
contestualizzarlo, conferendo un nome e un volto alla sua storia, condurre per mano un lettore che
probabilmente non ha mai visto o approfondito la conoscenza di determinati luoghi o eventi,
riuscire a trovare un punto d’incontro tra cause ed effetti e infine provare a dare un’interpretazione
dei fatti. La guida del viaggio è il reporter, colui che farà degli strumenti del giornalismo la base per
produrre documenti, materiale necessario a raccontare un contesto con le sue tradizioni e i suoi
abitanti, colui insomma che trasformerà appunti, interviste e osservazioni in un’indagine da inviare
alla redazione. Il vero reporter non è la persona che viene a conoscenza degli eventi attraverso
l’intervista ma colui che parla con chi incontra lungo la strada, che si inserisce all’interno
dell’ambiente di cui deve raccontare. La parola reportage deriva dall’inglese “to report”, a sua volta
è ripreso dal francese antico “reporteur”, che significa rapporto o servizio e fa riferimento al mondo
del giornalismo del XIII secolo, quello delle Gazzette, quando il giornale era semplicemente un
bollettino d’informazione spesso locale e veniva distribuito all’interno del ristretto gruppo dei
propri finanziatori. È in questo contesto che apparve per la prima volta la figura del giornalista
viaggiatore che, utilizzando i pochi strumenti a disposizione, riusciva a recarsi nei luoghi interessati
da un particolare evento per scrivere un articolo destinato a ritagliarsi un piccolo spazio tra le
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notizie di cronaca cittadina. Il reportage moderno invece, iniziò a comparire sui giornali quotidiani
degli Stati Uniti nella prima metà del XIX secolo e si affermò stabilmente alla fine dello stesso
secolo, quando la stampa quotidiana diventò la principale fonte di informazione. L’anno indicato da
tutti i testi consultati è il 1833 e il giornale che si distinse per primo in questo particolare modo di
fare notizia è il New York Sun, diretto da Benjamin H. Day, il quale inviava i propri giornalisti
all’interno delle fabbriche e dei distretti di polizia per ricercare notizie di cronaca locale sul campo.
Nel 1835 James Gordon Bennet riprese questa stessa formula all’interno del suo Morning Herald,
inserendo però alcuni elementi di arricchimento: mantenendo la centralità della cronaca, curò in
modo particolare la raccolta delle notizie e organizzò il lavoro dei suoi reporter. Gradualmente
anche i periodici iniziarono a sperimentare tecniche espressive e generi che rispondevano alle nuove
esigenze della società di massa, cercando di stare dunque al passo con i tempi. I contenuti
riguardavano storie di “human interest” e tutto si collocava all’interno di un contesto volto alla
denuncia e alla pretesa di rappresentare il reale. Di reportage moderno come oggi lo intendiamo
però, si iniziò a parlare soprattutto con l’avvento delle nuove tecnologie, che hanno influenzato
inevitabilmente lo stile di scrittura, aumentando innanzitutto la velocità necessaria alla stesura e alla
trasmissione del testo. Il reportage nasce quindi all’interno della società di massa e a fare da sfondo
a questo particolare genere giornalistico è sempre il viaggio: si viaggia per conoscere, per spirito di
avventura o per informare su un luogo o un evento. Il viaggio ha sempre suscitato un fascino
preponderante, dall’Odissea a Marco Polo ed è il genere che tra tutti ha avuto più fortuna. Le
cronache più note e numerose appartengono al Medioevo, dove assumevano grande importanza per
il pubblico.
Sono molti i motivi che spingono un giornalista a intraprendere un viaggio e sulla base dei quali si
modellano diverse tipologie di reportage narrativo:
• possono essere esigenze della redazione che incarica un giornalista di visitare un certo Paese
per registrarne e verificarne i cambiamenti avvenuti, spesso violentemente (sono un esempio
i reportage di guerra di Oriana Fallaci ed Ettore Mo);
• può essere il desiderio di un giornalista di riscoprire posti già visti in passato o una
determinata cultura (emblematici i reportage di Tiziano Terzani). A questa seconda
categoria, di cui fanno parte gli autori definiti “di viaggio”, appartengono gli scrittori
sociologi, i giornalisti spericolati o semplicemente quei cronisti che amano una narrazione
vivace e descrittiva, tutti accomunati da un tipo di scrittura che non trae necessariamente
ispirazione da un evento di cronaca ma dalla volontà di indagare un luogo al fine di porlo
all’attenzione del lettore.
Come ha affermato Gyorgy Lukàcs, filosofo ungherese, “il reportage non si accontenta di
rappresentare semplicemente i fatti, ma la sua narrazione è sempre finalizzata alla descrizione di
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cause, a suscitare riflessioni e dubbi”. Oriana Fallaci scriveva sempre che era necessario uscire dalla
scarsa possibilità descrittiva ed esplicativa dell’articolo, per cercare di chiarire i motivi e i percorsi
che hanno condotto al verificarsi di un evento. Per questo è fondamentale che il giornalista sia sul
campo per verificare con i propri occhi gli eventi. Indro Montanelli raccontò di aver ricevuto dal
critico letterario Emilio Cecchi il più importante consiglio della sua vita: “Ricordati che i giornalisti
sono come le donne di strada: finché vi rimangono vanno benissimo e possono anche diventare
qualcuno. Il guaio è quando si mettono in testa di entrare in salotto”. Il lavoro dell’inviato è quello
di un giramondo, capace di raccontare retroscena spesso inediti delle cose che accadono e se la
fortuna lo aiuta, a volte gli capita di fare il “colpo”, quello che gli americani definiscono “scoop”.
Proprio il tempo è infatti il peggior nemico dell’inviato e anche se le tecnologie moderne hanno
ridotto le difficoltà di comunicazione, i tempi imposti per cercare di comprendere un evento e
poterne dare una chiave di lettura sono sempre brevi. Vittorio Dell’Uva, inviato del Mattino di
Napoli, a proposito del suo mestiere di corrispondente di guerra in Iraq diceva: “I tempi
dell’informazione stessa sono mutati, poiché se un tempo l’inviato si recava in una determinata
zona e raccontava quello che aveva visto trasformandolo in notizia, forniva lui stesso la notizia;
adesso invece le notizie arrivano sempre prima dell’inviato. Bisogna misurarsi con questo tipo di
realtà, cercare l’approfondimento, tener conto appunto di quanto il mondo sia invaso da
informazioni che arrivano dalle agenzie, da Internet, dalle radio, dalle emittenti televisive e così
via”.
L’inviato segue le guerre, arriva direttamente sul posto interessato da un evento per raccontarlo e
presentarlo in tutti i suoi particolari, ascolta opinioni e ne costruisce di proprie. Si occupa della
ricostruzione di casi e si specializza in fatti legati al costume, alla letteratura, alle abitudini ma
anche alla cronaca di un Paese e del suo popolo. Si tratta di una figura professionale complessa,
nella cui costruzione intervengono molte componenti culturali e psicologiche: la conoscenza dei
dossier internazionali, una sensibilità che sappia vincere l’orrore o il disgusto e l'immancabile
disponibilità a relazionarsi. Ma partiamo dall'inizio, facendo un salto a cento cinquant'anni fa.
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CAPITOLO 1
“C’è un plotone che va in guerra e non fa la guerra.
Ha i suoi eroi, le sue vittime, le sue canaglie.
Sono i reporter di guerra”
Mimmo Càndito
William Russell: “come un cane sciolto”
“I reporter di guerra sono dei figurini che mangiano a sbafo le razioni dei soldati”, diceva sir Carnet
Wolseley nel 1869 per protestare contro l’intrusione dei giornalisti in quella che doveva essere solo
una questione fra militari durante la prima guerra Boera. Oggi non è più esattamente così: la stampa
è ammessa al fronte anche se ciò non è necessariamente garanzia di trionfo della verità. “La prima
vittima della guerra è la verità”, scriveva infatti Arthur Ponsonby in “Menzogne in tempo di
guerra”. Ma ci fu un'epoca in cui il reporter poteva muoversi con ogni libertà sul campo di battaglia,
malvisto dal potere militare ma forte della scoperta di un mondo che mai prima di quel momento
era stato raccontato dall'interno. In realtà il mestiere del reporter di guerra è vecchio di quasi due
secoli. Forse il primo inviato di guerra (senza ritornare a Senofonte o a Giulio Cesare) è stato Henry
Crabb Robinson, spedito dal direttore del Times a seguire la campagna Napoleonica contro la
Prussia all’inizio del XIX secolo. Il direttore, senza badare troppo alle cerimonie, lo aveva inviato
con queste parole: “Ci racconti come vince le battaglie quel piccolo imperatore francese. Le guerre
dall'altra parte del Canale sono piuttosto singolari”. Ma Robinson, forse perché non tagliato per la
rude vita militare o magari perché poco propenso all'attività giornalistica, si rivelò un fallimento.
Del resto l’inviato non si era neanche avvicinato alle zone dello scontro e comodamente nascosto
nelle retrovie, si era limitato a raccogliere i racconti di qualche soldato e a riproporli in maniera
alquanto maldestra. Se alcuni considerano dunque Robinson il primo inviato di guerra - almeno
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cronologicamente perché per quanto riguarda i risultati lasciò molto a desiderare - altri individuano
in Charles Lewis Guneison un prototipo molto più completo. Fu l’inviato del Morning Post che nel
1834 seguì la guerra civile spagnola e non esitò a esporsi e a indagare le ragioni dei diversi fronti
contrapposti. Finì anche in prigione come spia e rischiò la fucilazione da parte della fazione carlista.
Per trarlo dagli impicci dovette intervenire il governo inglese, rassicurando i carcerieri che la
curiosità di Guneison non aveva nulla di politico ma era legata solo al suo essere giornalista. Sui
nomi appena citati però, gli studiosi non sono completamente d’accordo mentre c'è l’unanimità nel
considerare Sir William Howard Russell (Lilyvale, Dublino, 1820 – Londra, 1907) il primo, vero,
reporter di guerra. Ma neanche questo lo esonerò dall'essere considerato un intruso.
Un interrogativo sorge spontaneo: prima chi faceva la cronaca delle guerre? I famosi resoconti li
stilavano gli ufficiali e raccontavano di cose eroiche, retoriche, mitiche. Più che riassunti erano
bollettini militari e lasciavano sottintendere un “come siamo bravi”. Non raccontavano che la gente
moriva, che gli ufficiali erano incompetenti, che c'era la corruzione, che si mandavano i soldati a
morire come carne da macello. Quando arrivò, William Russell cominciò a scrivere tutto e ruppe la
verità codificata. Nel 1854 fu inviato da John Delane, direttore del Times, l’autorevole quotidiano di
Londra, alla guerra di Crimea (1854-1855), per fornire ai lettori i resoconti di quel conflitto così
lontano: scriveva con la penna d’oca mentre oggi l’ultimo inviato di guerra sta scrivendo da qualche
sperduta area africana e manda i suoi pezzi con un modernissimo telefono satellitare. Russell
inventò dunque la professione di reporter di guerra: fino ad allora le cronache belliche erano
“buttate giù” ala meglio, scritte da qualche ufficiale sul posto oppure messe insieme da giornalisti
sulla base di testimonianze più o meno attendibili e di seconda mano. Inoltre come dicevamo,
essendo gli ufficiali dell’esercito i principali autori, mai si sarebbero azzardati a riportare notizie di
disfatte e sconfitte. Insomma la stampa faceva soprattutto da grancassa al governo. Russell era
partito nella primavera del 1854 da Malta e non avrebbe mai potuto immaginare il successo che
invece avrebbero ottenuto le sue corrispondenze. Il Times del 14 novembre 1854 pubblicò la sua
memorabile cronaca della disfatta dei Seicento, la brigata leggera dell’esercito di sua Maestà che a
Balaclava andò a infrangersi contro le linee e le cannonate russe. “Alle undici e dieci, la nostra
brigata di cavalleria leggera avanzò trionfante nel sole del mattino, fiera in tutto il suo bellico
fulgore” - scriveva Russell nel suo famosissimo incipit - “Da una distanza che non era nemmeno un
miglio, l’intero schieramento nemico vomitò da trenta bocche di fuoco un inferno di fuoco e
fiamme. […] A ranghi ormai ridotti, con una nube d’acciaio sulla testa dei nostri uomini, e levando
alto un grido che per questi generosi era anche l’ultimo appello della morte, i cavalleggeri si
lanciarono dentro le nuvole di fumo, ma prima ancora che si perdessero alla nostra vista, la pianura
era punteggiata dei loro corpi. […] Alle undici e trentacinque, non un soldato inglese restava
davanti alla bocca dei sanguinari cannoni moscoviti”. Le vendite del Times andarono subito alle
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stelle. Il telegrafo si stava sviluppando proprio in quegli anni ma il modo più sicuro per inviare un
pezzo rimaneva la posta. L’articolo era consegnato a un ufficiale di servizio, quindi a un corriere,
sempre dell’esercito, per lasciarlo alla più vicina stazione di posta da dove veniva inoltrato come se
si trattasse di una normale lettera. La carica dei Seicento ebbe luogo il 25 ottobre ma sul Times
apparve solo il 14 novembre. Quella battaglia simbolo della guerra si svolse a Sebastopoli, uno
scontro che produsse miti ma che si risolse in un nulla di fatto, come in fondo la guerra stessa che
pur vedendo sconfitta la Russia lasciò immutati gli equilibri continentali. Fu la battaglia della sottile
linea rossa: un mito moderno perché si tratta della prima invenzione giornalistica, il primo mito
prodotto dai media. Un reggimento di Highlanders scozzesi difese il campo di Balaclava da un
attacco della cavalleria russa. Erano pochi e Sir Colin Campbell li dispose a cintura del campo, in
una fila profonda due uomini. Fu proprio Russell che osservando lo scontro da un vicino rilievo lo
descrisse come “a thin red streak tipped with a line of steel”, poi popolarmente riassunta in “sottile
linea rossa”. Il segreto del successo di Russell consta semplicemente nella sua volontà di scrivere
tutto ciò che vedeva, anche gli aspetti meno nobili della guerra: il dolore, la sofferenza, i corpi
straziati dalle granate e le urla dei feriti prima di tutto ma anche gli errori dei generali, la
presunzione e il pressappochismo di alcuni comandanti del corpo di spedizione britannico. Per i
vertici dell’esercito di Sua Maestà la presenza di un borghese rompiscatole che andava a ficcare il
naso nella vita militare rappresentò una novità poco piacevole e si cercò una soluzione. Prima si
provò a cacciarlo dalla prima linea ma questo non bastò. Così, durante la permanenza di Russell,
entrò per la prima volta in funzione la censura e il febbraio del 1855 è diventato un momento
storico: per la prima volta un comandante dell’esercito, Sir Cordington, impose il divieto di
pubblicazione di notizie che potessero in qualche modo tornare utili al nemico.
Una storia vecchia più di duemila anni
A rigore però il primo reporter della storia è considerato Erodoto: “Non è soltanto lo storico da tutti
riconosciuto, è anche il giornalista che per primo ha capito l'importanza di andare verso i luoghi
dove si svolgono i fatti e intervistare la gente”, ha detto nel 2003 il giornalista Rai Paolo Bolano
durante un incontro a Reggio Emilia in cui si è trattato il tema del reportage. In effetti Erodoto
(Alicarnasso, 484 a. C. - Thurii, 425 a. C.), autore dell'opera “Storie” che racconta le cause della
guerra fra le poleis unite della Grecia e l'impero persiano, è famoso per aver descritto paesi e
persone conosciuti in numerosi viaggi. Narrazione fatta con metodo, secondo i principi chiave “ho
visto-ho sentito-ho ragionato”, in cui emerge l'importanza dell'osservazione diretta degli eventi, i
suoi resoconti sono simili al motto del giornalismo “andare-vedere-raccontare”.
Risalendo il corso del tempo, prima di arrivare a Russell, lo storico Raymond Sibbald ha
individuato nel cavaliere Jean de Waurin un altro possibile antenato del famoso reporter. Presente
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alla battaglia di Agincourt con il duca di Orlèans, raccontò con stile asciutto, concreto ed efficace le
fasi più drammatiche della battaglia. Era il 1415.
Tuttavia a questi primordiali esempi di giornalismo di guerra, se certo non manca la guerra, manca
però il giornalismo. Giornalismo inteso cioè nel suo senso moderno, come raccolta e diffusione di
notizie effettuata in modo obiettivo, imparziale, con piena onestà intellettuale da parte di
professionisti dell'informazione che si collocano in posizione “terza” rispetto alle parti in causa,
fatto di servizi elaborati in base a una pluralità di fonti affidabili, nell'interesse di un pubblico di
cittadini ai quali si sentono vincolati da un patto fiduciario. Questo genere di giornalismo “maturo”
si è sviluppato soltanto nell'arco di diversi secoli, a seguito di complesse dinamiche economiche,
politiche, sociali e culturali. Inevitabilmente anche il giornalismo di guerra ha conosciuto uno
sviluppo graduale, influenzato da più fattori tra loro interagenti: lo sviluppo delle pratiche
professionali e del mercato editoriale, le trasformazioni delle tecniche belliche, le politiche delle
autorità civili e militari per cercare di manipolare l'informazione. La prima grande ondata di
informazione di guerra che attraversò l'Europa fu quella che corrispose alla travolgente epopea
napoleonica, quando per una ventina d'anni il continente venne scosso da una serie di conflitti
armati che coinvolsero milioni di persone.
Nel tempo la concezione del reportage non è cambiata, è evoluto “solo” il modo di farlo, dato
l'intreccio del giornalismo con le nuove tecnologie. Il reporter come figura professionale
universalmente riconosciuta nacque in America negli anni Trenta dell'Ottocento con l'invenzione
della penny press. I giornali costavano 6 cents a copia (quando la paga giornaliera di un operaio era
80 cents) ma alcuni editori abbassarono il prezzo a un solo penny e ne affidarono la distribuzione
agli strilloni (il primo quotidiano venduto con questa formula è stato il newyorkese The Sun, nato
nel 1833), una scelta che ha fatto esplodere le tirature e ha allargato il pubblico dei giornali dalle
sole classi agiate all'intera massa popolare. L'informazione non si è più rivolta agli interessi di una
ristretta cerchia di uomini d'affari e di personaggi politici ma ha iniziato a proiettare il suo sguardo
sull'esistenza e l'immaginario di tutti i cittadini. Il giornalista doveva andare in giro ed essere capace
di trovarsi nel posto giusto al momento giusto per poter scrivere.
La prima tecnologia della comunicazione in guerra
L'introduzione del telegrafo elettrico nella comunicazione giornalistica, avvenuta per la prima volta
nella guerra franco-prussiana (1870-1871), costituì un eccellente esempio di quanto la tecnologia
possa influenzare il linguaggio, rendendo più celere la circolazione di notizie. L'impiego del
telegrafo costituì l'elemento d'innovazione che fece la differenza fra le diverse testate. I
corrispondenti del britannico Daily News vantavano regolarmente un numero superiore di copie
vendute rispetto ai colleghi del Times, in quanto spedivano per telegrafo anticipazioni dei loro
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dispacci in uno stile consono al nuovo mezzo: diretto, conciso, aderente ai fatti accaduti. Finché tali
dispacci venivano spediti per posta o per corriere, i giornalisti, inviati sui fronti di guerra, potevano
arricchire le loro storie con particolari secondari ma se si volevano sfruttare i vantaggi offerti dalle
linee telegrafiche e dal sistema Morse, bisognava cambiare stile di scrittura, mettendo in evidenza
“il chi-il cosa-il quando-il dove-il perché”.
Guerre d'Italia
Alla fine del XIX secolo i giornali italiani erano ancora piccole creature: la maggior parte dei
giovani che vi lavoravano erano ufficiali del Regio Esercito e dunque inevitabile era la
compenetrazione di stili di vita tra mondo dei giornali e mondo militare, che ne faceva un corpo
unico. Di conseguenza le corrispondenze di guerra nei giornali italiani nacquero come una
germinazione spontanea. Non si viaggiava ancora perché non c'era la mentalità dell'impegno sui
grandi orizzonti né un fondo cassa adeguato per questo tipo di spese ma intanto al sorgere della
“questione d'Oriente” nei Balcani, il Corriere mandò fuori i suoi due primi corrispondenti anche se
a mezzo servizio: i prescelti si chiamavano Marco Antonio Canini, che finì sul fronte russo e
Gustavo Minelli che partì per la Turchia. Entrambi avrebbero fatto un buon lavoro, erano specialisti
di quelle due regioni e ne parlavano anche la lingua. Poi cominciò l'avventura coloniale in “terra
d'Affrica” (rigorosamente con due effe) ed è in quella spedizione che iniziò la vera storia dei
corrispondenti italiani di guerra, proprio durante quei conflitti combattuti tra nazioni industrializzate
(secondo i pregiudizi dell'epoca: “civilizzate”) e popolazioni preindustriali, considerate incivili e
selvagge. Il primo a muoversi fu il Corriere della Sera che spedì sul Mar Rosso tre dei suoi
giornalisti e li tenne impegnati in una trasferta straordinariamente lunga per quei tempi (un anno e
anche più). Con uno stile già moderno, agile, di presa immediata, Vico Mantegazza e Adolfo Rossi
parlarono di soldati, di guerra, di avventure ma anche di un mondo sconosciuto pieno di insidie e di
paura. Il loro viaggio, per quegli anni di fine secolo, fu un'autentica avventura, una partenza verso
l'ignoto ed è difficile dire se fossero impressionati più dai rischi di una guerra o dalle fantasticherie
che si raccontavano sulle belve africane o sui misteriosi costumi degli indigeni. Fatto sta che le
copie dei giornali per cui lavoravano iniziarono ad andare a ruba.
L'età dell'oro dei quotidiani
Nell'età dell'oro dei quotidiani il giornalismo di guerra ebbe una posizione di assoluto primo piano.
La figura principe del giornalismo di massa era quella dell'inviato speciale, l'antico reporter che
viaggiava per il mondo per raccontare vicende eccezionali. E l'inviato per eccellenza era il reporter
di guerra, intrepido e instancabile che rischiava la vita per essere testimone di combattimenti grandi
e terribili e scriveva i suoi articoli mentre attorno fischiavano le pallottole. Un'immagine romantica
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e stereotipata che ancora oggi in parte sopravvive. Gli editori dei giornali di massa si resero conto
ben presto del fatto che la guerra “faceva vendere”, infatti in occasione dei conflitti le tirature
aumentavano, soprattutto se il giornale poteva offrire al pubblico resoconti “esclusivi” dei propri
corrispondenti. Il giornalismo di guerra conobbe dunque l'apice del successo e della sua importanza
proprio nel trentennio a cavallo del 1900, periodo in cui lo sviluppo della stampa di massa e delle
pratiche militari raggiunsero il massimo grado di sinergia.
Luigi Barzini: giornalista “per caso”
Le cose per Russell si complicarono non appena entrò in scena Luigi Barzini (Orvieto, 7 febbraio
1874 – Milano, 6 settembre 1947). Anche se è vero che quando Barzini sbarcò a Londra per
imparare il mestiere Russell era già in pensione, gli scoop che Barzini s'inventò in giro per il
mondo, i suoi viaggi, le guerre che raccontò in testimonianza diretta, lo stile modernissimo che
usava per la sua scrittura, lo portarono d'un balzo in cima a ogni possibile valutazione. E lo è
tutt'oggi. Inoltre mentre il Times di Russell apparteneva all'orizzonte tecnologico e socioculturale
del giornalismo ottocentesco, il Corriere della Sera di Barzini era ormai proiettato nel nuovo
secolo, protagonista in Italia di una sostanziale trasformazione del mondo dell'informazione.
“Io ero diventato giornalista per caso e in modo strano e inaspettato. E' vero però che il caso, con la
onnipotente benevolenza di un Genio delle Mille e una Notte, aveva realizzato un mio sogno. Fin
dalla infanzia la professione di giornalista mi era apparsa la più invidiabile del mondo, per colpa di
voraci letture di libri di viaggi e di avventure nei quali incontravo spesso eroici giornalisti che
galoppavano attraverso venti o trenta pagine, schiantando un paio di cavalli o di cammelli, per
raggiungere un remoto ufficio telegrafico e lanciare qualche inaudita notizia. Il tempo non aveva
dissipato le mie fanciullesche aspirazioni e dalla quiete del mio paese nativo - Orvieto, la più nobile
Città del Silenzio - avevo tentato di segnalare la mia vocazione inviando ai giornali qualche saggio,
con l'ansiosa speranza di chi, sperduto nella solitudine, lanci piccioni viaggiatori per chiedere aiuto.
Ma i miei piccioni finivano tutti nel cestino. Finalmente, persuaso come Maometto che per
incontrarsi con la montagna è più pratico andare da lei piuttosto che aspettar che essa venga a
trovarvi, adunai tutte le mie risorse liquide consistenti in circa un centinaio di lire e compresso il
mio guardaroba in una vecchia valigia, partii per Roma”. Questo avveniva nel novembre del 1898,
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