Media e politica nella transizione fra prima e seconda Repubblica
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6 CAPITOLO I - IL CREPUSCOLO DELLA I REPUBBLICA 1.1 - L’ITALIA NEGLI ANNI 80: UN PAESE IN TRASFORMAZIONE «Gli orientamenti elettorali, le forme di lealtà e di contrapposizione politica presentano una straordinaria persistenza nel tempo, capace di mantenersi al di là delle generazioni e del cambiamento dei regimi politici. Il sistema dei partiti creato in Italia nel secondo dopoguerra aveva rielaborato in un particolare gioco di contrapposizioni ideologiche le principali fratture che hanno segnato la storia nazionale: la frattura confessionalismo/laicismo (esasperata nella fase dell’unità nazionale), quella fra salariati e imprenditori (tipica della fase di industrializzazione e fortemente ideologizzata nel corso degli anni venti), la frattura fascismo-antifascismo, e la frattura nei riferimenti internazionali nel periodo della guerra fredda» 1 . Così Roberto Biorcio descrive la situazione dell’Italia durante la I Repubblica nel suo saggio “Nuovi protagonisti e nuovi scenari nella competizione elettorale”. Un periodo, durato quasi 50 anni, e segnato da un’incredibile staticità del quadro politico interno, bloccato dalla “conventio ad excludendum” ai danni del Pci e dalla centralità indiscussa della Democrazia Cristiana. Scrive ancora Biorcio: «In riferimento a queste contrapposizioni, si sono costituite le identità dei principali partiti di massa del secondo dopoguerra (Dc, Pci, Psi e Msi) e si sono istituzionalizzate a livello del sistema politico e dei movimenti organizzati. Alleanze e contrapposizioni sono state declinate facendo riferimento a tre dicotomie fondamentali: destra/sinistra; cattolici/laici; fascismo/antifascismo. Le diverse contrapposizioni esistenti nel nostro sistema politico sono state rappresentate, nel discorso dei politici e nel senso comune degli elettori, facendo riferimento principalmente alla dimensione sinistra-destra» 2 . E proprio questa frattura, in Italia piø che in altri Paesi, continua ad influenzare discorsi e prassi politica, nonostante la crisi delle ideologie, diventata palese alla fine degli anni 90. Tuttavia il piano ideologico è solo una delle chiavi di lettura, e forse nemmeno la piø appropriata, per spiegare la cristallizzazione del quadro politico repubblicano nella cosiddetta 1 Cfr. R. Biorcio, Nuovi protagonisti e nuovi scenari della competizione elettorale in M. Livolsi, U. Volli (a cura di), La comunicazione politica tra prima e seconda Repubblica, Milano, Franco Angeli, 1995, p.60. 2 Ivi, p.61. 7 formula del “pentapartito” (con le sue varianti) per piø di 20 anni. Le cause della paralisi prova ad illustrarle, in termini strettamente politici, Pietro Scoppola: «In un sistema fondato sul connubio tra parlamentarismo e proporzionalismo, antitetico non solo al bipartitismo ma anche al bipolarismo, il centro è lo spazio la cui occupazione garantisce un potere decisivo. Quando questo spazio è occupato da un partito che ha il piø largo seguito nel paese si ha una democrazia senza ricambio ma pur sempre fondata sul consenso; quando invece ad occuparlo sono i partiti minori, il risultato paradossale è l’annullamento della regola stessa del numero e della maggioranza: chi occupa il centro può esercitare un potere di gran lunga superiore a quello che i consensi elettorali gli hanno attribuito» 3 . In altre parole, il “ruolo pivotale” della Dc è solo un’illusione: a determinare la sorte dei governi sono in realtà i piccoli partiti, consapevoli dell’imprescindibilità del loro apporto. Ecco allora che, gradualmente, il “puzzle” comincia a prendere forma e l’Italia della Prima Repubblica si rivela, sotto la superficie di governi egemonizzati dal binomio Dc-Psi, un Paese diviso se non dilaniato. Diviso da contrapposizioni ideologiche inconciliabili, da un sistema elettorale che finisce per esaltare il potenziale di ricatto delle forze minori, da una prassi consociativa nella quale prosperano malaffare e corruzione. E’ logico che in un simile panorama crescano sempre di piø il malessere e l’insoddisfazione dell’elettorato, pronto a premiare, dove e quando si presenti l’occasione, movimenti e partiti cosiddetti antisistema. Gli esempi sono innumerevoli: alcuni effimeri come il movimento dell’Uomo Qualunque di Giannini e il Partito Nazionale Monarchico di Achille Lauro, altri di lunga durata come il fenomeno delle Leghe nel nord Italia a partire dagli anni 80. Quello che conta, comunque, è la presa di coscienza che, sotto la patina di rassegnazione ed acquiescenza che permette alla Dc di navigare intorno al 30% dei voti per decenni 4 , cova in realtà tra gli italiani un malcontento verso i partiti, e la politica in generale, sempre piø dirompente. Il trend si sviluppa in tempi lunghi e non viene subito compreso: sono in pochi ad accorgersi che, insieme allo stile di vita, sempre piø agiato e in linea con quello degli altri paesi occidentali, stanno mutando atteggiamenti e preferenze degli italiani. A ben guardare si tratta di un cambiamento globale, che interessa gran parte delle democrazie occidentali e che, all’inizio degli anni 90, trova la sua consacrazione in Italia con le note vicende di Tangentopoli e il crollo del sistema partitico tradizionale. Una prospettiva d’analisi ad ampio raggio la offre Leonardo Morlino: «La fine del ventesimo secolo ha visto l’emergere 3 Cfr P. Scoppola, La Repubblica dei Partiti, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 426. 4 Questi i risultati elettorali della Dc nell’arco di poco piø di un decennio: 38,3% (1979); 32,9% (1983); 34,3% (1987); 29,7% (1992). 8 di diverse sfide alla legittimità che inducono Kaase e Newton [1995. 150 ss.] a parlare di crisi della democrazia con particolare riferimento, ad esempio, all’allontanamento dei cittadini dai partiti, all’emergere di atteggiamenti antipartitici e, piø in generale, di atteggiamenti di insoddisfazione e antiestablishment. Pharr e Putnam [2000] parlano senza esitazione di “democrazie insoddisfatte” e gli stessi due autori insieme a Dalton [2000, 25] sottolineano il declino della capacità degli attori politici di agire secondo gli interessi e i desideri dei cittadini, che è poi il declino di responsiveness. Nel complesso i tre autori vedono un declino della fiducia nelle pubbliche istituzioni, che viene confermato anche da Newton e Norris [2000] con riferimento a Parlamento, sistema legale, forze armate, polizia, amministrazione. Questa sfiducia nel governo è vista da Della Porta [2000] a partire da un’analisi della corruzione, della scarsa applicazione della legge e della stessa conseguente cattiva responsiveness» 5 . Il concetto chiave è, dunque, “responsiveness”. In effetti è proprio questa componente a sgretolarsi, pezzo dopo pezzo, a partire dagli anni 80, nel nostro Paese. Spiega ancora Morlino: «Una buona democrazia ha almeno cinque dimensioni di variazione che devono essere collocate al centro dell’analisi empirica. Le prime due sono dimensioni procedurali, in quanto attengono prevalentemente alle regole e solo indirettamente ai contenuti, pur essendo assai rilevanti anche per questi. Esse sono “rule of law”, ovvero rispetto della legge, e “accountability” ovvero responsabilità. La terza attiene al risultato e riguarda la responsiveness ovvero la rispondenza, cioè la capacità di risposta che incontra la soddisfazione dei cittadini e piø in generale della società civile […] Libertà ed eguaglianza, comunque intese, sono necessariamente collegate alla responsabilità o responsiveness. Questa è anzi il modo concreto di rendere piø probabile una migliore realizzazione di libertà ed eguaglianza dal punto di vista del cittadino e delle associazioni, nell’ambito di meccanismi rappresentativi» 6 . Una parziale conferma della disaffezione dei cittadini verso la politica si può avere dall’analisi dei trend elettorali a partire dal 1980. Considerando le elezioni politiche, è evidente come, dal 1976 in poi, si sia verificata un progressiva diminuzione della partecipazione elettorale degli italiani alle diverse consultazioni: si passa infatti dalla percentuale record di votanti per i Paesi occidentali, del 93,4% (1976), al 90,6% (1979), all’89% (1983), all’88,9% (1987), all’83% (1992) per arrivare alla parziale risalita del 1994 (85,5%) con l’introduzione della nuova legge elettorale di stampo maggioritario. Negli 5 Cfr L. Morlino, M. Tarchi, Partiti e caso italiano, Bologna, Il Mulino, 2006, p.95. 6 Ivi, p.87. 9 anni 80 si va sviluppando, insomma, quello che i commentatori finiranno per definire il “partito del non voto”, sempre piø ampio e sempre piø trasversale. E’ interessante citare, a riguardo, i dati forniti dall’Eurobarometro, servizio demoscopico della Comunità (e poi dell’Unione) Europea, riportati nell’opera di Tarchi e Morlino: «Come la figura a lato mostra chiaramente, il numero di persone che in Italia hanno dichiarato apertamente di essere insoddisfatte del funzionamento della democrazia nei vent’anni intercorsi fra il 1973 e il 1993 è molto alto e, per di piø, notevolmente piø alto che in tutti gli altri paesi dell’allora Comunità Europea. Se sommiamo i piuttosto soddisfatti e i molto insoddisfatti, il differenziale tra la percentuale di persone insoddisfatte in Italia e quella degli altri paesi della Comunità Europea non scende mai al di sotto del 24% (nel 1988, un anno in cui gli indicatori sociali e politici della protesta sono a livelli molto bassi) e sale al 40% nel 1977, che vede un’attività terroristica intensa e disordini nelle università. Significativamente i picchi di insoddisfazione si collocano – se escludiamo il 1993 che coincide con le piø clamorose inchieste giudiziarie sulla corruzione – nella seconda metà degli anni settanta, quando ormai l’epoca dei movimenti contestativi di massa può dirsi chiusa ed è stata soppiantata dal terrorismo, manifestazione di una protesta piø violenta, ma ristretta a gruppi di èlite» 7 . Piø in dettaglio: «L’andamento generale della tendenza all’insoddisfazione può essere scomposto in almeno tre picchi distinti: il primo (1976-79) è caratterizzato dalle tensioni connesse alle minacce terroristiche all’ordine pubblico; il secondo (1983-84) riflette le reazioni alle difficoltà del sistema di relazioni industriali che si è affermato nel paese; il terzo (1991-93) si collega allo scandalo sulla corruzione. A ognuna di queste fasi corrispondono un’accentuazione della negatività del giudizio sul funzionamento 7 Cfr L. Morlino, M. Tarchi, op.cit., p.218. 10 della democrazia da parte di alcuni soggetti, piø sensibili all’appello ideologico, e un atteggiamento meno rigido da parte di altri, che appaiono piø pragmatici» 8 . E’ chiaro, dunque, come negli anni 80 l’atteggiamento degli italiani verso la politica subisca una scossa. Un fenomeno che si spiega in primo luogo facendo riferimento al ristagno delle ideologie (su tutte il modello comunista), ma anche alla presa di coscienza che il sistema politico è vittima di una pratica consociativa di proporzioni immani. Ecco perchØ, parallelamente all’insoddisfazione verso il sistema nella sua interezza, si viene a determinare una crescita continua della volatilità elettorale, intesa come spostamento «lordo» di elettori da un partito all' altro, ovvero del blocco di elettori “non piø vincolati” ad un determinato partito di riferimento. L’andamento, riportato nella tabella 2 9 , è eloquente: si passa dalla percentuale del 5,3% nel 1979 alla percentuale record del 41,4% durante le elezioni del 1994, considerando anche il 16,2% del 1992 nel pieno degli sconvolgimenti che interessano il blocco comunista. Tuttavia, è il caso di ripeterlo, ad evolversi è l’intero quadro valoriale di riferimento. Risalgono proprio agli anni 80, le prime avvisaglie del passaggio alla cosiddetta “società post- moderna”. Commenta a riguardo Marino Livolsi nel saggio “Appunti per un discorso sulla comunicazione politica nel nuovo scenario dell’Italia contemporanea”: «La transizione alla società post-moderna e post-materialistica è avvenuta in due fasi. La prima fase (la transizione al post-moderno) si è innescata nel corso degli anni 80 ed è caratterizzata da un deciso innalzamento dei livelli di reddito e di istruzione, da profondi mutamenti nelle professioni e nell’economia con l’affermazione del terziario e dei grandi mutamenti nei modi produttivi nell’industria. E’ un fenomeno che ha visto l’accrescersi di una grande classe media che ha lasciato ai margini, come emarginati o non toccati dalle trasformazioni, i lavoratori manuali, le donne anziane in condizione non professionale etc… E’ proprio questo blocco a diventare “dipendente dalla TV” per avere notizie (sia come semplici informazioni su ciò che avviene, sia come “conoscenze sul nuovo”) e per partecipare alla nuova cultura anche se solo in chiave spettacolare con i prodotti televisivi piø facili e di maggiore ascolto» 10 . 8 Cfr L. Morlino, M. Tarchi, op.cit., p.223. 9 Tabella basata su dati ufficiali forniti dal Ministero dell’Interno e contenuta in Cfr L. Morlino, M. Tarchi, op.cit, p.211. 10 Cfr M. Livolsi, Appunti per un discorso sulla comunicazione politica nel nuovo scenario dell’Italia contemporanea in M. Livolsi, U. Volli (a cura di), op.cit., p.20. 11 Ed è in tale contesto che si gettano le basi per la tappa successiva: «La seconda transizione (che ha inizio negli anni 90) verso una società post-materialista è quella che vede la spaccatura tra chi resta ancorato al benessere economico come massima aspirazione (e quindi al guadagno e al consumo elevato) e chi, invece, aspira o progetta una diversa qualità della vita, cercando significati piø profondi nel proprio modo di vivere, sia nel lavoro che nei consumi o nel tempo libero» 11 . Tali tendenze, che ancora oggi dispiegano i loro effetti, aiutano a comprendere l’evoluzione della società italiana verso una “modernità” che si concretizza in un rifiuto netto del passato e nel culto del “nuovo”. Novità, dunque. Sarà proprio quest’ultima la parola d’ordine che orienterà, a partire dalla fine degli anni 80, le preferenze degli elettori. Il successo della Lega prima e la vittoria dell’outsider Berlusconi poi, confermano questo assunto. D’altronde la stessa definizione di Seconda Repubblica verrà coniata per stabilire una discontinuità con il sistema di potere precedente al 1994, ormai visto come vecchio e sorpassato. «Ciò che è nuovo e diverso – spiega Livolsi – diventa valore in sØ, prima ancora di valutarne contenuti e possibili conseguenze. Nuovo e moderno rappresentano dei sinonimi in base ai quali è possibile conservare o raggiungere ciò che il benessere (propagandato come aspirazione collettiva primaria lungo tutti gli anni 80) promette o permette» 12 . Ma la percezione spesso diverge dalla realtà dei fatti e la stessa Seconda Repubblica si rivelerà ben presto molto piø simile alla Prima di quanto si potesse credere. 11 Cfr M. Livolsi, Appunti per un discorso sulla comunicazione politica nel nuovo scenario dell’Italia contemporanea cit.., p.20. 12 Ivi, p.13. 12 1.2. - L’EGEMONIA DELLA TELEVISIONE Quanto influisce la televisione su gusti e preferenze politiche del pubblico? Ed ancora: cosa ha determinato la nascita di una “cultura televisiva” in Italia dagli anni 80 in poi? Si tratta di interrogativi ai quali ancora oggi è difficile dare una risposta univoca. Il dibattito sull’influenza della tv e sulla sua pervasività, d’altra parte, affonda le sue radici fin negli anni 50. Nel nostro Paese, piø che in altre nazioni, tale discussione si fa particolarmente interessante stante il legame strettissimo tra media e politica e la consapevolezza che il passaggio alla cosiddetta società “postmoderna” si è realizzato in tempi molto ridotti. In poco piø di un decennio quella che era una società basata su forti vincoli tradizionali comunitari (la Chiesa, il partito, la parentela, la comunità di paese) ha subìto infatti una netta trasformazione. Individualismo, secolarizzazione, urbanizzazione di massa, società dei consumi sono espressioni che entrano effettivamente nel vocabolario collettivo degli italiani solo dalla fine degli anni 70. In questa transizione collettiva verso la “modernità” sicuramente la televisione, e soprattutto quella commerciale, ha svolto un’opera di primo piano. «Di modernità in un certo senso si tratta davvero – conferma Livolsi all’indomani delle elezioni del 1994 – E’ quella espressa dalla cultura dei mezzi di comunicazione di massa (dei suoi contenuti, personaggi e codici) rispetto a quella tramandata dalle agenzie di socializzazione piø tradizionali: la scuola, la famiglia, i partiti politici etc… Dopo quarant’anni di TV (ma soprattutto dopo dieci anni di un sistema misto che ha trasmesso un flusso alluvionale di comunicazione di ogni tipo), e dopo che si sono formate almeno due generazioni di “TV dipendenti”, la cultura televisiva è diventata egemone nel senso almeno di aver dato largo spazio alla fiction, di aver spettacolarizzato ogni genere (dalle news alle briciole di cultura disseminate qua e là), di aver dato statuto di realtà all’immaginario (le storie “vere” sulla cronaca e l’attualità) nel mentre trasformava in “storie” le vicende delle persone vere, di aver legittimato la pubblicità a diventare fonte credibile di comportamento e così via» 13 . La domanda successiva sorge spontanea: il medium che piø di ogni altro riesce ad entrare nelle case degli italiani a qualsiasi ora del giorno porta con sØ un messaggio di disimpegno e apatia? Non è questa la sede per aprire un dibattito a riguardo. E’ tuttavia interessante citare la tesi dello studioso tedesco Hans Magnus Enzensberger che nel suo saggio “Per non morire di televisione” «definiva la tv, operando un’inversione di rotta nei suoi approcci teorici ai media degli anni Settanta, una “macchina buddista” che offriva una specie di “nirvana 13 Cfr M. Livolsi, Appunti per un discorso sulla comunicazione politica nel nuovo scenario dell’Italia contemporanea cit., p.13. 13 elettronico” agli spettatori; una “droga” ma dalle caratteristiche mediologiche uguali a zero, perchØ la “macchina” non presentava piø, a suo dire, contenuti informativi e trasmetteva il “nulla”» 14 . “Nulla” che si sostanzia nel gigantesco contenitore dell’intrattenimento, nel quale gradualmente finisce per confluire la stessa informazione generando il cosiddetto infotainment 15 . L’effetto è quello di una confusione tra realtà e finzione, tra notizie e spettacolo che disorienta non poco gli spettatori. Ma le conseguenze finiscono per avvertirsi anche nel campo delle relazioni e, in generale, della percezione del mondo circostante. E’ ancora Livolsi a fornire un’interpretazione del fenomeno: «[Viene a crearsi ] una cultura orientata all’evasione e al sogno del benessere economico e di rapporti sociali appiattiti – per avere speranza che possano essere felici – sul privato, sulla ricerca di un’identità in continua trasformazione perchØ sia accettata e abbia riconoscimento dagli altri, e per avere, se possibile, successo. Una cultura della contemporaneità dove conta solo ciò che succede “qui e ora”, che viene presentato come evento da non perdere dove lo spettatore è continuamente distratto e attratto da ciò che succede subito dopo (e fa dimenticare ciò che è accaduto, non importa quanto importante, e non permette di stabilire connessioni, punti di contatto, nessi causali con il “primo”), meglio se diverte “da morire” o fa piangere. Tanto l’attore sociale, trasformato in spettatore, ha la memoria corta e l’attenzione breve» 16 . Ovviamente anche il modo di fare politica risente di questo cambio di prospettiva: alla stampa, sempre piø vista come una sorta di casta, con un’influenza limitata sull’elettorato, e agli eventi di partito, che coinvolgono solo pochi soggetti, si preferisce il mezzo televisivo: piø immediato, se vogliamo invasivo, e spesso senza mediazione. «La preferenza e l’insistenza della televisione e dell’informazione televisiva sulle persone, sull’immagine, sul richiamo emotivo, sul pruriginoso che fanno molto “romanzo” delle vicende della politica – sottolinea Mazzoleni – hanno importanti conseguenze sulla dinamica dei rapporti tra politici 14 Cfr H.M. Enzensberger, Per non morire di televisione citato in G. Crapis, Televisione e politica negli anni 90, Roma, Meltemi, 2006, p.20. 15 Con questo termine inglese, nato dalla commistione di “information” ed “entertainment” si identificano quei programmi quali talk-show, dibattiti televisivi, gli stessi telegiornali odierni, in cui elementi informativi si mescolano a forme di intrattenimento ed “evasione”. Afferma Lypovetsky a riguardo: «Il ruolo importante svolto dall' informazione col processo di socializzazione e individualizzazione non può essere scisso dal suo registro spettacolare e superficiale. L' informazione, votata alla cronaca e all' oggettività non è per niente al riparo dal lavorio della moda, anzi: gli imperativi dello show e della seduzione l' hanno in parte rimodellata [...]I servizi devono durare poco, i commenti devono essere chiari e semplici, intrammezzati da spezzoni d' interviste, di vissuto, d' aneddoti. E dappertutto immagini che divertano, che trattengano l' attenzione, che provochino emozioni forti»