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Introduzione
Il presente lavoro si propone di chiarire, effettuare critiche e previsioni in ambito
macroeconomico; la macroeconomia è la scienza che studia i fenomeni aggregati,
l’inflazione e la crescita. Le variabili fondamentali di questo studio sono il
mercato del lavoro, il livello generale dei prezzi e la produzione, studiate rispetto
ai valori di equilibrio (analisi statica), rispetto alla loro evoluzione temporale
(analisi dinamica) nonché rispetto alle interrelazioni reciproche (analisi casuale).
Scopo della macroeconomia è la costruzione di modelli teorici che siano in grado
di spiegare le principali variabili in gioco; tali modelli costituiscono il fondamento
essenziale per giungere alla formulazione di suggerimenti di politica economica,
miranti ad ottenere obiettivi quali: tassi di crescita accettabili, riduzione
dell’instabilità economica, controllo della disoccupazione e dell’inflazione.
Ci troviamo in un periodo storico nel quale l’economia è di tipo principalmente
capitalistico; ciò vuol dire che l’allocazione delle risorse, attraverso il sistema dei
prezzi, viene affidato in larga misura al mercato. Diremo, allora, che esiste un
mercato ogni qual volta soggetti desiderosi di scambiare moneta contro
determinati beni o servizi vengono a contatto con altri soggetti aventi stessi
desideri-obiettivi.
Lo studio di argomenti così complessi non può prescindere dall’analisi della storia
economica, ossia delle evoluzioni che, nel corso degli anni, hanno contribuito alla
formulazione di teorie trasformatesi poi in vere e proprie decisioni di politica
economica.
Racconteremo innanzitutto le fasi storiche dell’economia mondiale, la situazione
italiana fino all’inizio del nuovo millennio, le cause scatenanti della profonda crisi
attuale e le vicende dei due colossi asiatici emergenti – la Cina e l’India –
(capitolo 1).
Fine ultimo è capire meglio il contesto nel quale si innesta lo studio che, nel corso
del nostro lavoro, ci porterà ad analizzare dapprima il modello macroeconomico
di riferimento (capitolo 2) e poi la riforma del modello contrattuale, con tutte le
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implicazioni derivanti dall’inflazione “importata” nell’economia italiana (capitolo
3).
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CAPITOLO 1
DAGLI ANNI ’70 ALLA CRISI
ATTUALE
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Premessa
Nel corso della storia economica mondiale si sono susseguiti periodi di
espansione, dovuti ad innovazioni tecnologiche, a fattori legati all’utilizzo della
moneta e dei titoli e, più semplicemente, espansione dovuta all’aumento
demografico che ha portato un incremento di forza lavoro almeno inizialmente
positivo; allo stesso tempo, si è assistito a periodi di recessione, crisi e cadute –
repentine e non – dell’economia mondiale.
Analizzeremo le fasi recessive soffermandoci sulle determinanti delle stesse negli
ultimi quaranta anni di storia. Tratteremo le consolidate relazioni tra vecchio
continente e Stati Uniti, vera e propria forza trainante dell’evoluzione
contemporanea, la storia dell’economia italiana e, infine, l’evoluzione dei due
“colossi” asiatici.
Per un resoconto quanto più completo delle crisi affrontate dall’economia dagli
anni ’70 ad oggi, partiremo dal primo, grande, shock petrolifero; successivamente
descriveremo gli effetti del secondo shock degli anni ’80; infine, con maggiore
accuratezza, la grave crisi attuale. Quest’ultima ci riguarda più da vicino visto che
non ne siamo ancora usciti e, per quanto ne sappiamo, non riusciamo a prevederne
una fine.
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1.1 EVOLUZIONI STORICHE
L’aumento di liquidità internazionale, prodotto dalla crescente spesa USA, rese
inutili le politiche restrittive poste in atto nel 1969 dalla Fed
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di fronte al crescere
dell’inflazione interna, che continuò la sua ascesa trasmettendosi anche all’estero
e facendo crollare la fiducia nel dollaro. Di qui un’ondata speculativa che portò
Nixon (allora Presidente USA) a sospendere la convertibilità del dollaro nel 1971,
svalutandolo nel dicembre dello stesso anno e poi, ancora, nel febbraio 1973.
La crescente instabilità monetaria produsse così il crollo del sistema fondato sul
“gold exchange standard” inaugurato a Bretton Woods nel 1944.
Queste vicende finirono per esasperare l’aumento del prezzo del petrolio, legato a
concomitanti cause politiche: la guerra del Kippur tra Israele ed i paesi arabi, in
cui questi ultimi si accordarono per sanzionare economicamente l’appoggio dato
dall’occidente a Israele aumentando il prezzo del petrolio; ricatto politico efficace
proprio perché posto in essere in un momento piuttosto delicato.
Il panico finanziario seguito alla sospensione della convertibilità aurea e alla
successiva svalutazione del dollaro operata nella seconda metà del ’71 aveva
portato gli investitori internazionali (e le stesse banche centrali dei paesi privi di
oro, come il Giappone) ad una fuga generalizzata dalla moneta (in senso stretto)
verso beni-rifugio, quali erano in primo luogo le materie prime.
Da ciò derivò un fortissimo aumento della domanda di beni primari, primo tra tutti
il petrolio, le cui quotazioni venivano rinegoziate ad intervalli piuttosto lunghi:
solo nel ’73 i paesi produttori poterono approfittare della situazione creatasi (di
piena collocazione sul mercato della produzione) per giungere ad un accordo fra
loro, imponendo così una quadruplicazione dei prezzi in cui la motivazione
politica non era che il collante.
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Federal Reserve system (ovvero la Banca Centrale statunitense).
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Proprio l’organizzazione di un cartello di produttori (OPEC
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) consentiva a questi
di imporre una politica di forte innalzamento dei prezzi in una situazione in cui le
risorse esterne al cartello non erano sufficienti per garantire l’approvvigionamento
energetico dei paesi industrializzati. L’effetto fu devastante; i paesi in via di
sviluppo si trovarono di fronte a disavanzi molto più cospicui nella loro bilancia
dei pagamenti e furono costretti ad indebitarsi ulteriormente, mentre i paesi
industriali conobbero la “stagflazione”, la stagnazione della produzione e
dell’occupazione associata ad un aumento inflazionistico dei prezzi.
Le reazioni dei paesi importatori di petrolio
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furono fortemente differenziate: la
Gran Bretagna – che vantava rapporti finanziari di lungo periodo con i paesi arabi
– ottenne che la maggior parte dei capitali ricavati dalla vendita del greggio
venissero depositati presso banche londinesi, colmando con importazioni di
capitali il disavanzo prodotto dall’aumento del peso delle materie prime; il
Giappone - che si presentava come vera economia emergente – riuscì ad
espandere le proprie esportazioni rendendole competitive tanto da compensare il
peggioramento delle ragioni di scambio; infine la Germania – sicuramente il
riferimento Europeo – preferì seguire la linea restrittiva abbassando la quota
dell’importazione di petrolio con una contrazione della produzione industriale e
dell’occupazione, rifiutando di porre in atto politiche di espansione monetaria.
Il grande cambiamento degli anni ’70, però, può essere spiegato anche in altro
modo, non ufficiale ma non meno veritiero: l’aumento del prezzo del petrolio nel
1973 finì per giovare notevolmente al dollaro che, sia pure svalutato e non più
convertibile in oro, continuò nei decenni successivi a restare la moneta di riserva
principale del sistema. Il petrolio era storicamente una merce denominata in
dollari quindi i paesi industrializzati furono costretti a comprare dollari per pagare
le importazioni (“petrodollari”). Inoltre, gli USA sono da sempre uno dei
maggiori importatori mondiali di petrolio; le riserve del paese aumentarono di
valore così le compagnie petrolifere americane poterono sfruttare l’occasione per
sanare il debito accumulato.
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Organization of the Petroleum Exporting Countries.
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USA e blocco sovietico raggiunsero presto una relativa autosufficienza dal punto di vista
energetico con lo sfruttamento di pozzi e giacimenti “marginali”.
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Poc’anzi si è detto che i paesi arabi, nella fattispecie i paesi OPEC, trassero
notevole vantaggio dalla crisi che permise loro di aumentare unilateralmente il
prezzo del petrolio; in realtà ciò non è del tutto vero. Nel 1975, con lo scoppio
della guerra civile in Libano che durò vent’anni, si ebbe una robusta fuga di
capitali verso il mercato dell’eurodollaro e le piazze di Londra, Zurigo e New
York; in questo modo i capitali che escono dai paesi occidentali per pagare le
importazioni ritornano sotto forma di investimenti finanziari, mantenendo in
pareggio le bilance dei pagamenti di Gran Bretagna, Svizzera e Stati Uniti.
I forti rincari nelle quotazioni delle materie prime altro non fecero che associarsi
all’inflazione “importata” – attraverso i dollari – in Europa.
Politiche diverse, e spesso contraddittorie, vennero adottate dalle diverse autorità
nazionali per fronteggiare questa situazione, aggravatasi ancor più con la perdita
di un punto di riferimento per il sistema monetario internazionale.
In particolare citiamo la politica restrittiva posta in essere dalla Germania; essa
rese difficile l’espansione delle importazioni, mentre cresceva l’inflazione interna.
Questo comportò la necessità di una stretta creditizia che finì per comprimere
ulteriormente il potere d’acquisto e, quindi, la domanda interna.
Il 1975 fu un anno di fortissima recessione in quasi tutti i paesi occidentali, in cui
la presenza di forti conflitti sindacali portò di fatto a compensare l’inflazione –
determinata dalla rincorsa tra prezzi e salari – con continui raggiustamenti valutari
tesi a mantenere competitivi i prodotti.
Un simile scenario darebbe l’idea di un sistema insensibile all’inflazione,
compensata dalla scala mobile per i lavoratori e dalla svalutazione per le aziende;
ma tutto questo comportava un calo della produttività reale e minacciava di
bloccare lo stesso sviluppo economico e tecnologico mondiale.
La situazione dell’economia mondiale divenne ancor più grave in seguito
all’ulteriore aumento del prezzo del petrolio – che passò da una media di 12 a più
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di 30 dollari al barile – in seguito alla rivoluzione islamica in Iran e alla decisione
degli ayatollah
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di sospendere le forniture di greggio all’Occidente.
In questo caso la reazione dei paesi industrializzati di fronte alla minaccia di
un’ulteriore pressione inflattiva legata all’aumento dei costi energetici fu più
omogenea, ma non per questo priva di conseguenze derivanti dalla scarsa
cooperazione. In una riunione a Tokio, il G5 (USA, Germania, Giappone, Francia
e Inghilterra) decise che era necessario applicare politiche restrittive, anche a
costo di ridurre il volume complessivo della produzione e del commercio
mondiale.
Era la risposta dell’Occidente ai paesi produttori: generando un calo della
produzione industriale, e quindi della domanda di petrolio, questa politica finiva
per togliere in termini di volume quel che i paesi OPEC potevano guadagnare in
termini di prezzo.
Il risvolto negativo fu l’aumento della disoccupazione, indispensabile per
mantenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti e la stabilità monetaria
all’interno di un regime internazionale di cambi flessibili che non voleva ricorrere
al protezionismo.
Il secondo shock, datato 1979-80 fu grave ma breve, e avviò un lungo periodo di
contro-shock, caratterizzato da una lenta crescita della domanda globale ed un
costante aumento dell’offerta, oltre all’ingresso sul mercato di nuovi produttori di
materie prime energetiche col conseguente declino dei prezzi.
Tra i fattori chiave del contro-shock vi è, inoltre, la rivoluzione tecnologica;
questa aumentò l’efficienza energetica, ridusse i costi di estrazione e consentì di
sfruttare giacimenti un tempo non economici o neanche raggiungibili.
Molti sono stati gli eventi che hanno caratterizzato il periodo compreso tra il
secondo shock e la crisi attuale; per non snaturare il contenuto del presente lavoro,
eviteremo di raccontare nel dettaglio quanto accaduto.
Limitiamoci a fornire le linee guida per comprendere come si sia arrivati alla
situazione di inizio millennio.
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Titolo di grado elevato che viene concesso agli esponenti principali di religione sciita.