6
INTRODUZIONE
1
.
Lo scopo di questo lavoro è prendere in considerazione alcuni testi autobiografici scritti
da donne indiane, vissute tra la fine del diciannovesimo e l‟inizio del ventesimo secolo,
e cercare di comprendere come essi abbiano costituito per le autrici originali forme e
modalità di costruzione e presentazione di sé. In quel periodo, il ruolo della donna nella
società era soggetto a ridefinizione; i contatti con i dominatori inglesi, l‟urbanizzazione
e le nuove possibilità educative e lavorative esercitavano il loro impatto sulla società, e i
movimenti riformisti mettevano in discussione certe asserzioni tradizionali relative alla
donna, al matrimonio e alla famiglia. Le autrici delle opere prese in considerazione
assistevano quindi a un periodo di cambiamenti e alla compresenza di nuovi ideali e
modelli femminili presentati da riformatori, revivalisti e nazionalisti.
La centralità della “questione femminile” nella ridefinizione dei concetti di “tradizione”,
“modernità” e “nazione” è facilmente comprensibile. Da un lato, la famiglia è
generalmente considerata il nucleo della società, e la donna è a sua volta associata
all‟idea di famiglia e all‟ambito domestico: di conseguenza è comune l‟idea secondo cui
ogni tentativo di riformare una società dovrebbe partire dalla ridefinizione dei modelli
di donna e famiglia. D‟altra parte, le misere condizioni in cui versava la popolazione
femminile indiana erano tra i principali motivi di critica da parte dei colonizzatori
inglesi, che giustificavano così l‟incapacità degli indiani di autogovernarsi. Pertanto, la
classe colta indiana si rese conto che l‟unico modo per acquisire rispettabilità agli occhi
dell‟occidente era una nuova maniera di collocare la donna all‟interno della sfera
sociale
2
. Era quindi necessario definire il nuovo comportamento della donna rispettabile
(in bengalese bhadramahilā), la quale doveva essere senza dubbio libera da certe
costrizioni del passato, ma allo stesso tempo sottomessa a un nuovo insieme di norme
patriarcali.
In ogni caso, questa trattazione di autobiografie femminili si propone di dimostrare che,
anche se nel discorso pubblico le donne apparivano soprattutto “in quanto simbolo della
salute morale della «tradizione» stessa, come questa veniva discussa tra ufficiali
1
Prima di iniziare l‟esposizione inserisco due notazioni. In primo luogo, segnalo che nella traslitterazione di
nomi propri (di luoghi e persone) in lingue indiane moderne non ho seguito un sistema uniforme, ma generalmente ho
omesso gli usuali diacritici e ho utilizzato alcune tra le trascrizioni più comuni. In secondo luogo, non sempre ho
riportato le citazioni da testi stranieri in lingua originale, ma in certi casi ho ritenuto più opportuno tradurle in italiano
(le traduzioni sono mie fatta eccezione per i casi in cui è indicato diversamente).
2
Banerjee, Exploring the world of domestic manuals [1996].
7
coloniali e riformisti, nazionalisti e conservatori indiani”
3
, affermare la totale assenza
delle loro voci sarebbe ingiusto e infondato. La capacità di esprimersi che alcune di
queste donne ebbero non va sottovalutata, considerando la duplice oppressione a cui
erano soggette, in quanto situate in condizioni di inferiorità rispetto agli uomini e in
quanto soggetti colonizzati. Naturalmente la storia dell‟oppressione delle donne indiane
non ha avuto inizio con il colonialismo, ma questo ha riproposto molte gerarchie
tradizionali
4
: come scrive Gayatri Spivak,
(…) both as object of colonialist historiography and as subject of insurgency, the
ideological construction of gender keeps the male dominant. If, in the context of
colonial production, the subaltern has no history and cannot speak, the subaltern as
female is even more deeply in shadow
5
.
Va chiarito che i testi scritti da donne nel periodo coloniale non sono necessariamente
femministi. Alcuni di essi ripropongono o esprimono supporto per certi valori
patriarcali
6
; altri, pur riconoscendo la sofferenza delle donne indiane, non ne
identificano un responsabile a cui opporsi, o comunque non offrono soluzioni al
problema. In ogni caso, questi testi vanno osservati nel loro contesto e non
semplicemente criticati per la mancanza di una presa di posizione, come porterebbe a
fare un‟inadeguata applicazione di teorie femministe occidentali.
Come si vedrà nei capitoli seguenti, già nel diciannovesimo secolo le donne stavano
familiarizzando con diversi generi letterari. La mia scelta di limitare l‟analisi
all‟autobiografia è dovuta alla particolare importanza che questo genere assume nel
mostrare in maniera diretta l‟influenza dei nuovi modelli sulla vita delle donne e le
reazioni di queste ultime. Dai testi a cui ho fatto riferimento ho potuto notare una
sorprendente varietà di risposte, che vanno dal sostegno a certi valori tradizionali alla
sfida consapevole nei confronti degli uomini. Oltre a questo, dalle storie di vita di certe
donne risulta come a volte siano riduttivi e fuorvianti alcuni preconcetti relativi all‟idea
di “tradizionalismo” e “progressismo”: si vedrà, ad esempio, come Parvati Athavale,
apparentemente la più conservatrice tra le autrici considerate (per quanto riguarda, ad
esempio, le sue idee sul matrimonio e sul lavoro fuori casa) faccia più volte appello
all‟autonomia di azione e di pensiero per le donne; o come Ramabai Ranade, sposata
3
Chaudhuri (ed.), Feminism [2005], p. 80.
4
Ivi, p. XVIII.
5
Spivak, Can the subaltern speak? [1988], p. 287.
6
Sogani, The Hindu widow [2002], p. 178.
8
con un riformista e frequentatrice di ambienti “progressisti”, sia contraddistinta da
caratteristiche tipiche di una moglie ideale piuttosto che di una donna emancipata.
Questa esposizione inizia con una spiegazione del contesto entro il quale i testi
successivamente analizzati vanno considerati, spiegazione a cui è dedicato il primo
capitolo. Dopo aver illustrato alcune delle caratteristiche più rilevanti e più discusse
della condizione femminile in India e dell‟ideologia tradizionale relativa alla donna,
prenderò in considerazione i movimenti riformisti (e i loro più noti esponenti), i dibattiti
e le azioni in merito a questioni controverse come il rogo delle vedove, la loro
possibilità di risposarsi e il matrimonio in età infantile.
Al dibattito sull‟istruzione femminile e ai provvedimenti presi al riguardo è dedicato un
capitolo intero, il secondo. I motivi per cui ho riservato uno spazio e un‟attenzione
particolare alla tematica dell‟istruzione sono diversi. Prima di tutto, la possibilità di
leggere e scrivere costituisce una condizione necessaria alla redazione di un testo
autobiografico: le opere che ho preso in considerazione nel capitolo seguente sono
autobiografie vere e proprie, non raccolte di memorie dettate ad un‟altra persona, e le
autrici sono tutte alfabetizzate, anche se hanno conseguito la loro istruzione secondo
modalità diverse. In secondo luogo, è risaputo che il livello di istruzione delle donne è
uno tra gli indicatori più utilizzati per determinare la loro condizione in una società:
mantenerle in uno stato di ignoranza è generalmente un mezzo per consolidare la loro
sottomissione. D‟altra parte, non sempre l‟istruzione è garanzia di libertà: a seconda del
tipo e dell‟utilizzo che ne viene fatto, essa può facilitare l‟inserimento nel sistema o al
contrario incitare alla critica e alla trasformazione di quest‟ultimo
7
.
L‟istruzione femminile costituiva una parte importante del programma dei riformatori
indiani, i quali effettivamente (con l‟aiuto di altri sostenitori, quali, in varia misura, i
missionari cristiani, il governo inglese e le associazioni filantropiche straniere)
riuscirono a garantire opportunità di studio a un certo numero di donne. Nei programmi
educativi destinati alle donne indiane si riscontrano entrambe le tendenze di cui sopra:
la maggior parte di essi era finalizzata a renderle ancora più obbedienti e sottomesse, ma
l‟accesso all‟istruzione, indipendentemente dagli scopi originari, consentì ad alcune di
loro di definire i problemi relativi alle loro condizioni e di esprimere in certa misura i
propri pensieri, desideri e necessità.
Il secondo capitolo illustra quindi il dibattito relativo all‟istruzione femminile (e a
questioni legate a questo tema, come la differenza tra scuole e istruzione domestica,
7
Kanwar - Jagannathan (eds.), Speaking for ourselves [1995], pp. 9-10.
9
l‟uscita dal pardā, le classi miste e la scelta del programma di studi) e i mezzi utilizzati
per consentire alle donne di essere educate in maniera “appropriata”: la diffusione di
testi con morale edificante e la pubblicazione di riviste pensate per il pubblico
femminile. Ho riservato alcuni paragrafi alla questione dell‟istruzione per le donne
musulmane, argomento che tuttavia, data la sua vastità, necessiterebbe di una trattazione
specifica. I risultati più rilevanti dell‟accesso all‟istruzione furono, come si vedrà, la
redazione e pubblicazione di testi ad opera di scrittrici e la nascita di nuove
organizzazioni e movimenti a sostegno dei diritti delle donne, non più condotti solo da
uomini.
Un‟altra motivazione dell‟importanza che a mio parere riveste la tematica
dell‟istruzione è relativa al valore che è dato ad essa dalle donne stesse, soprattutto in
quanto strumento per l‟espressione di sé. Esemplificato dal rimpianto di Lilabati Mitra
8
di non aver potuto esprimere pienamente i suoi pensieri e sentimenti a causa di
un‟istruzione limitata
9
, questo aspetto appare ricorrente nei testi autobiografici scritti da
donne: anche se in molti casi la capacità di leggere e scrivere è inizialmente vista quasi
come un‟appropriazione illecita, in quanto appartenente al dominio degli uomini, in
seguito ne viene riconosciuta l‟importanza. Del resto, per categorie di persone
tradizionalmente ridotte al silenzio, potersi esprimere è “un atto di trasgressione, un atto
di resistenza, un atto di trasformazione, in breve, un passo verso la consapevolezza e la
sicurezza di sé”
10
.
Alle prime autobiografie di donne indiane è dedicato appunto il terzo capitolo. Lo
spazio destinato alle definizioni tradizionali del genere autobiografico è finalizzato a
mostrarne l‟inadattezza per testi come quelli trattati in questa sede: tali definizioni sono
nate a partire dall‟analisi di opere canoniche, di uomini occidentali, e non possono
essere utilizzate ai fini di una generalizzazione. Di qui l‟attenzione che poi riservo alle
teorie che si occupano dell‟autobiografia come “genere degli oppressi” e agli studi
sull‟autobiografia femminile in particolare. Ad un accenno alla storia del genere
autobiografico e dei suoi antecedenti in India segue la trattazione di opere femminili: a
questo proposito ho ritenuto inevitabile citare Rassundari Debi, che, oltre ad essere
autrice della prima autobiografia in bengali, costituisce per vari motivi un caso
esemplare.
8
Lilabati Mitra (1864-1924) era figlia del riformatore bengalese Raj Narayan Basu e moglie di Krishna Kumar
Mitra.
9
Karlekar, Voices from within [1991], p. 1.
10
Kanwar - Jagannathan (eds.), Speaking for ourselves [1995], p. 3.
10
La selezione di testi che ho trattato per esteso può offrire soltanto una panoramica
limitata della situazione delle donne dell‟epoca: pertanto saranno prese in
considerazione autrici provenienti solo da alcune aree geografiche e classi sociali. Le
ragioni di queste restrizioni sono legate, oltre che a ovvie difficoltà di reperibilità dei
testi, al fatto che in epoca coloniale le donne istruite costituivano una minoranza: di
conseguenza, una trattazione di questo tipo, basata su testi autobiografici,
inevitabilmente tralascerà di rappresentare vasti strati della popolazione femminile.
Lo studio dei singoli testi si propone di illustrare gli aspetti più rilevanti emersi da essi.
Il capitolo si conclude con l‟esposizione delle rappresentazioni di personaggi femminili
nella narrativa di alcuni autori dell‟epoca, mostrandone influenze e differenze rispetto
alle autorappresentazioni di donne esemplificate appunto dalle autobiografie
considerate.
L‟ultimo capitolo espone alcune osservazioni sull‟utilizzo dell‟autobiografia nella
produzione di autrici indiane negli anni successivi (nel periodo del movimento svadeśī e
dopo la proclamazione dell‟indipendenza). Si vedrà che questa forma letteraria è stata
utilizzata da donne appartenenti a diverse categorie e strati sociali. Le motivazioni che
hanno condotto queste donne a scrivere la loro autobiografia sono molteplici, ma in
linea di massima è diffusa tra loro un'esigenza di espressione di sé. D‟altra parte, molte
altre autrici hanno preferito piuttosto esporre le loro esperienze e i loro pensieri in forma
dissimulata, attribuendoli a personaggi di invenzione: si tenterà quindi di spiegare la
labilità dei confini tra autobiografia e finzione.
Sicuramente non si può sostenere che la forma autobiografica abbia in assoluto
caratteristiche di maggiore validità e veridicità, per quanto riguarda l‟immagine
dell‟autore, rispetto ad altri generi letterari; non bisogna dimenticare che l‟autobiografia
contiene quella che è soltanto una rappresentazione del protagonista, un‟immagine che
non può coincidere interamente con la realtà. Come in ogni costruzione identitaria, chi
scrive compie inevitabilmente una selezione tra gli aspetti della propria personalità ed
esistenza, illustrando e privilegiando alcuni di essi, minimizzandone e celandone altri.
Come sostiene Manuela Fraire, “scrivere vuol dire prima di tutto dare una forma, quella
della parola, ad una nuova esperienza, e non è tra-durre, come si vorrebbe da parte di
chi ha il culto dell‟autenticità, l‟esperienza in parola”
11
.
In ogni caso va riconosciuta all‟autobiografia la qualità di preziosa risorsa per conoscere
se stessi, “grazie all‟organizzazione e interpretazione della vita nella sua totalità” che
11
Fraire, Storia di Piera [1998], p. 88.
11
essa offre, diversamente da un esame di coscienza limitato al presente rappresentato, ad
esempio, dal diario, che al contrario fa riferimento solo a frammenti della personalità
12
.
La conoscenza ed espressione di sé, oltre ad essere necessità universali nate dal corso
degli eventi della vita
13
, assumono valenze particolari per le donne, che con il mezzo
autobiografico hanno l‟opportunità di “esplorare il proprio potenziale psichico fino a
quel momento trascurato, schiacciato o ferito nel mondo maschile”
14
.
12
Forti-Lewis, Scrittura auto/bio/grafica [1994], p. 325.
13
Varma, Women‟s urge for expression [2002], p. 51.
14
Ivi, p. 52.
12
CAPITOLO PRIMO:
NASCITA E SVILUPPO DELLA QUESTIONE FEMMINILE
NELL’INDIA COLONIALE.
1. SOCIETA’ E FAMIGLIA IN INDIA: MODELLI E CARATTERISTICHE
FONDAMENTALI.
Secondo l‟opinione della maggior parte degli studiosi, in epoca antica (a partire dal
periodo vedico fino agli anni precedenti la redazione delle prime smṛti
15
) lo status delle
donne era relativamente soddisfacente
16
. Un significativo peggioramento sembra essersi
verificato a partire dall‟inizio dell‟era cristiana. All‟arrivo degli inglesi in India, la
condizione delle donne era forse la peggiore nella storia del paese: la loro libertà di
movimento e di parola era estremamente limitata, il matrimonio infantile era la regola
generale per le caste superiori, l‟istruzione femminile era considerata fonte di pericolo e
la poligamia era praticata nelle famiglie che ne avevano la possibilità.
La periodizzazione di Altekar suddivide la storia dell‟induismo precoloniale in quattro
fasi principali
17
:
1. l‟età del Ṛgveda (dal 2500 al 1500 a. C. circa), in cui la posizione delle donne è
considerevolmente migliore rispetto a quello che si potrebbe pensare;
2. l‟età delle saṁhitā successive, dei Brāhmaṇa e delle Upaniṣad (dal 1500 al 500
a. C. circa), in cui la situazione complessiva è ancora soddisfacente, ma iniziano a
verificarsi gradualmente alcuni cambiamenti;
3. l‟età dei sūtra, dell‟epica e delle prime smṛti (dal 500 a. C. al 500 d. C. circa,
periodo di notevoli peggioramenti e restrizioni;
4. l‟età delle smṛti posteriori e dei commentatori (dal 500 d. C. al 1800 d. C.
circa), in cui, fatta eccezione per la sfera dei diritti di proprietà, la situazione peggiora in
ogni altro campo
18
.
15
La parola smṛti indica in senso lato “l‟insieme delle fonti della tradizione religioso-culturale brahmanica
successiva al Veda” (Boccali – Piano – Sani, Letterature [2000], p. 125).
16
Tra gli altri, Altekar, Position of women [1959]; Kapadia, Marriage and family [1966]; Thomas, Indian
women [1964]; Chattopadhyay, Indian women‟s battle [1983]. D‟altra parte, sono state effettuate anche alcune critiche a
questa visione del passato come “età dell‟oro” e ad un ritratto della donna indiana basato sulla mitologia e sulla
letteratura, ritenuti espedienti per rinforzare l‟orgoglio nazionale contro gli attacchi degli studiosi occidentali: la prima
critica in questo senso risale alla fine dell‟Ottocento con Pandita Ramabai (come si vedrà nei capitoli successivi),
mentre negli ultimi decenni vanno ricordate quelle di studiose come Suvira Jayaswal e Uma Chakravarti (Basu,
Women‟s history in India [1991], pp. 183-84).
17
Altekar, Position of women [1959], p. 336.
13
Mukhopadhyay e Seymour
19
, nel loro studio sull‟istruzione femminile, definiscono il
complesso di istituzioni sociali e credenze associate che si sono evolute in India (come
nella maggior parte di società agricole e socialmente stratificate) utilizzando il modello
di “struttura e ideologia della famiglia patrifocale”
20
: si tratta di un sistema che tende ad
“assegnare la precedenza agli uomini sulle donne – ai figli sulle figlie, ai padri sulle
madri, ai mariti sulle mogli e così via”
21
. Le autrici preferiscono questa terminologia
rispetto a quella più comune, ma anche più ambigua e meno determinata, di
“patriarcato, famiglia patriarcale”
22
, e individuano alcune caratteristiche fondamentali di
questo sistema: una subordinazione degli interessi dell‟individuo a quelli della famiglia,
un insieme di strutture (quali la discendenza patrilineare e la residenza virilocale) che
rinforzano la centralità maschile, una divisione del lavoro che relega le donne alla sfera
del privato, un insieme di rapporti di autorità all‟interno della famiglia basati sulle
differenze di genere, un sistema di controllo atto a preservare l‟onore del gruppo
parentale (per mezzo di istituzioni come il pardā e il matrimonio combinato) e
un‟ideologia che identifica il comportamento della donna ideale con qualità come
castità, obbedienza e modestia. Tale struttura assume caratteri più specifici a seconda di
altri fattori come il luogo, la religione o la classe sociale; in linea di massima è più
pronunciata presso caste e classi superiori che presso quelle inferiori, e più radicata
nell‟India settentrionale che in quella meridionale
23
. Analizzerò ora separatamente
alcune di queste caratteristiche nella forma che esse presentano nel periodo coloniale,
prima e durante lo sviluppo dei movimenti di riforma sociale.
18
L‟opera di Altekar, la più influente e utilizzata per questo genere di studi fino a tempi recenti, ha il vantaggio
di essere molto dettagliata dal punto di vista cronologico e tematico e di presentare varie ipotesi, successivamente
confermate, sul declino della condizione femminile (aspetti che sono segno di un‟accurata ricerca e di una profonda
conoscenza dei testi sanscriti). Tuttavia l‟analisi è ristretta all‟élite di donne della tradizione vedica e basata solo su fonti
brahmaniche (Basu, Women‟s history in India [1991], p. 183). Aloka Parasher osserva come la rappresentazione di
Altekar marginalizzi certe categorie di donne quali le danzatrici dei templi, le cortigiane e coloro che partecipavano ad
attività produttive come filatura e tessitura (Parasher, Women in nationalist historiography [1996]). Uma Chakravarti
nota come “il paradigma altekariano” continui tuttora ad influenzare la storiografia e la coscienza collettiva, motivo per
cui è necessaria una riscrittura della storia che renda giustizia alle donne (Chakravarti, Uma, Beyond the Altekarian
paradigm: towards a new understanding of gender relations in early Indian history, cit. in Gottlob, ed., Historical
thinking [2003], pp. 280-82).
19
Mukhopadhyay – Seymour (eds.), Women, education and family structure [1994], pp. 1-25.
20
“Patrifocal family structure and ideology”, ivi, p. 3.
21
Ibid.
22
Pur concordando sulla maggiore esattezza di questa terminologia, d‟ora in avanti per semplicità continuerò ad
usare i termini “patriarcato” e “patriarcale”.
23
Mukhopadhyay – Seymour (eds.), Women, education and family structure [1994], pp. 3-8. Le autrici
analizzano poi il modo in cui questo sistema e le pressioni atte a preservarlo contrastano l‟istruzione femminile e
operano in opposizione ad altre pressioni che renderebbero quest‟ultima desiderabile.
14
1.1 La famiglia di casta elevata e la vita nello zenana: centralità maschile, divisione
del lavoro e rapporti di autorità.
L‟ambiente in cui le disparità tra i sessi venivano in primo luogo messe in atto era la
casa della famiglia induista di casta superiore e classe medio-alta
24
. In generale, è
fuorviante ritenere la famiglia esclusivamente come realtà in cui sono presenti amore e
affetto; secondo Martha Nussbaum, la famiglia ha storicamente rappresentato “uno, se
non il maggiore, dei luoghi di oppressione della donna”
25
.
La tipica unità familiare nel contesto qui considerato era una famiglia estesa, che
comprendeva diverse generazioni (in media tre o quattro) e in cui tutti i figli maschi
portavano con sé le rispettive mogli e i figli. La discendenza era patrilineare e la
residenza virilocale. La proprietà terriera era amministrata dagli uomini della famiglia e
le donne non possedevano niente eccetto lo strīdhana, che consisteva in doni ricevuti
dal padre o dal marito (generalmente gioielli o denaro). Avevano diritto al
mantenimento, condizionato però alla loro condotta, e potevano ereditare terra solo in
assenza di parenti maschi del defunto
26
.
La segregazione era mantenuta a partire dalla divisione dello spazio domestico tra
privato/femminile e pubblico/maschile. Il primo, lo zenana, (detto anche antaḥpur o
andarmahal) consisteva in una zona della casa in cui le donne erano confinate, e alla
quale avevano accesso solo i bambini, alcuni parenti e servi. Coerentemente con il
principio di isolamento delle donne, tale parte della casa era generalmente quella meno
esposta all‟aria aperta: ciò significa in pratica che si trattava di ambienti bui, poco areati
e malsani.
Questa divisione dello spazio era rappresentativa di distinte funzioni, ma anche di
diversi “stadi di evoluzione”, in cui la sfera femminile occupava un posto inferiore ed
era vista come un‟appendice di quella maschile. Lo spazio dello zenana, che per gli
uomini non era altro che il luogo in cui le donne conducevano la loro vita insignificante,
assumeva una particolare valenza emozionale e simbolica nella visione delle sue
abitanti, valenza legata alle abitudini e ai rituali che ne scandivano la vita, come anche
alle norme e alle gerarchie all‟interno delle quali si formava la loro identità
27
. Oltre ad
24
Karlekar, Voices from within [1991], p. 47.
25
Nussbaum, Diventare persone [2000], p. 294.
26
Engels, Beyond Purdah? [1996], p. 16.
27
Karlekar, Voices from within [1991], p. 7.
15
essere vitale per il mondo maschile per le funzioni svolte al suo interno, lo spazio dello
zenana era infatti governato da sue proprie regole.
Come è facile immaginare, in un‟unità familiare c‟erano donne di generazioni differenti
e legate da vari rapporti di parentela, le quali non costituivano affatto un gruppo
uniforme e le cui relazioni reciproche erano regolate da gerarchie interne. Nella tipica
famiglia allargata, la “signora” della casa (che in bengalese ad esempio si chiamava
kartrī) era la donna più anziana, generalmente la madre dei figli sposati o, dopo la sua
morte, la moglie del figlio maggiore (oppure, se quest‟ultima era ancora molto giovane
e senza figli, la sorella vedova del suocero). Si trattava di un ruolo molto importante: chi
occupava questa posizione era seconda solo al capofamiglia e aveva una certa influenza
anche sugli altri uomini della casa
28
. Secondo le parole di Ramabai Ranade, la donna
più importante nella sua famiglia era Taisasubai, la seconda moglie del suocero. Questa
sua condizione era dovuta al fatto che, dopo la morte di costui, Ranade aveva provato
un grande dispiacere per lei e aveva iniziato a trattarla con grande considerazione, fino
ad assegnarle la posizione che avrebbe occupato sua madre se fosse stata ancora in vita.
Ranade le permetteva di rimproverarlo e di sfogare la sua rabbia ogni volta che ne
avesse necessità
29
.
Per quanto riguarda il rapporto tra cognate, lo status di una moglie, in quanto donna
sposata, era per certi aspetti superiore rispetto a quello della sorella nubile del marito,
ma la sua libertà era minore, in quanto sottoposta agli ordini della suocera e costretta a
svolgere una quantità non indifferente di lavori domestici. L‟obbedienza pressoché
totale alla suocera era norma consolidata. Murshid
30
, nella sua descrizione della
famiglia bhadralok
31
bengalese, afferma che prima della cerimonia nuziale lo sposo era
solito dire a sua madre che le stava per portare a casa una nuova “schiava”. Numerose
sono le testimonianze di giovani mogli oppresse da suocere e cognate. Da ricordare
quella di Ramabai Ranade
32
, costretta a subire i rimproveri e la derisione delle altre
donne di casa, le quali contestavano la volontà di Ranade di darle un‟istruzione, e quella
del duro trattamento riservato dalla suocera a Radhabai, contenuto nell‟autobiografia di
28
Murshid, Reluctant debutante [1983], p. 59.
29
Ranade, Himself [1938], p. 82.
30
Murshid, Reluctant debutante [1983], p. 59.
31
Il termine bhadralok indica l‟élite colta del Bengala del XIX secolo, composta da due gruppi principali: gli
abhijāt (aristocratici) e i gṛhastha o madhyabitta (classe media). Il primo gruppo, costituito da ricchi mercanti,
amministratori e proprietari terrieri, era stato il primo a stabilirsi nelle aree urbane e ad acquisire una posizione
influente, lavorando a fianco degli inglesi. Gli abhijāt furono seguiti dai madhyabitta e, al gradino più basso, dai
bhadralok poveri (daridra athaca bhadralok), che aspiravano allo stesso stile di vita degli altri due gruppi (Banerjee,
Down memory lane [2004]).
32
Ranade, Himself [1938].
16
sua figlia, Krupabai Satthianadhan
33
. Anche alcuni autori e romanzieri vissuti tra
diciannovesimo e ventesimo secolo, interessati alla condizione femminile, dedicarono
opere alla descrizione e alla denuncia del pessimo trattamento a cui le giovani spose
erano condannate. Basti pensare ad alcuni racconti di Rabindranath Tagore: a Haimanti,
la protagonista dell‟omonimo testo, non è nemmeno concesso di tornare nella casa del
padre durante la malattia che la porta poi alla morte
34
; Mrinal in Strīr patra esprime la
sua amarezza per il trattamento destinato alla giovanissima cognata
35
; Nirupama in
Denāpāonā deve subire suo malgrado le conseguenze della povertà della famiglia
d‟origine e dell‟impossibilità di suo padre di pagare tutta la dote ai suoceri
36
. Anche nei
casi in cui una donna non subiva torti nella casa maritale, era improbabile che,
nonostante il suo valore strumentale positivo (quello di moglie e madre), ottenesse
rispetto e considerazione in quanto individuo autonomo, o fosse trattata con affetto
37
.
In casi simili era raro che il marito assumesse la difesa della moglie, anche per
mancanza di familiarità con quest‟ultima. Sembra che lo status della moglie migliorasse
leggermente dopo aver raggiunto la pubertà, occasione celebrata con rituali, in cui le si
chiedeva per la prima volta di dormire con il marito. La relazione tra i coniugi,
comunque, non era mai molto intima: in genere non era loro concesso nemmeno vedersi
e parlarsi durante il giorno. Il timore dei genitori dello sposo riguardo all‟eventualità di
un rapporto più stretto tra i due, mascherato dalla credenza che la moglie potesse essere
una strega in grado di irretire il marito, era in realtà legato alla preoccupazione per una
sfida e un sovvertimento delle gerarchie familiari che avrebbero potuto verificarsi nel
caso in cui il marito avesse dato ascolto alle richieste della moglie (presumibilmente,
richieste di maggiori diritti e libertà)
38
. Anche il rapporto con i figli non era
particolarmente intimo, a causa dell‟età molto giovane dei genitori e della presenza di
altri bambini all‟interno della famiglia, i quali dovevano essere trattati tutti allo stesso
modo
39
. La nascita di un figlio maschio comportava senza dubbio un innalzamento dello
status della moglie, la quale dopo un tale evento era soggetta a un minore controllo da
parte della suocera e godeva di maggiore libertà. In ogni caso, non diventava la
“signora” della casa se non dopo la morte della suocera
40
.
33
Satthianadhan, Saguna [1998], cap. 3.
34
Tagore, Haimanti, in Bardhan (ed.), Of women [1990], pp. 85-95.
35
Tagore, Letter from a wife, ivi, pp. 96-109.
36
Tagore, Short stories [1991], pp. 48-54.
37
Nussbaum, Diventare persone [2000], p. 16.
38
Murshid, Reluctant debutante [1983], p. 59.
39
Ibid.
40
Ibid.
17
Molto è stato detto sulla propensione delle donne indiane al pettegolezzo; di fatto la loro
conoscenza della vita al di fuori della casa era limitata, tuttavia la loro posizione
all‟interno della famiglia e del villaggio dipendeva in parte dalla loro familiarità con la
conoscenza locale. Le informazioni che acquisivano erano generalmente relative ad
argomenti di cui i loro mariti non potevano parlare o che erano funzionali alle gerarchie
dello zenana. Ciò non implica che avessero poco lavoro in casa. Al contrario, la loro
routine giornaliera era molto dura: i loro compiti andavano dalla pulizia della casa alla
preparazione del cibo, dalla celebrazione di rituali domestici all‟educazione dei
bambini
41
. L‟autobiografia di Rassundari Debi (la prima opera di questo tipo in lingua
bengali) comprende un dettagliato resoconto del lavoro domestico che doveva compiere
praticamente da sola, a partire dal momento in cui la suocera si era ammalata: una
quantità di lavoro talmente grande, soprattutto dopo la nascita dei figli, che non le dava
mai riposo, né di giorno né di notte
42
.
Alcune osservanze socio-religiose, in bengalese brata, scandivano la vita nello
zenana
43
. Numerosi sono i racconti di donne che li testimoniano. La loro funzione era
essenzialmente propiziatoria: ci si rivolgeva agli dei o agli astri per assicurarsi benessere
materiale e serenità in famiglia. Di fatto erano anche mezzi per insegnare alle ragazze
cosa aspettarsi dalla vita e per instillare in loro un senso di disciplina. I brata erano di
vario tipo, alcuni di essi erano particolarmente duri e comportavano, ad esempio, molte
ore di digiuno.
1.2 Il pardā
44
: sistema di controllo per preservare l’onore familiare.
Il termine pardā indica non solo il velo con cui le donne si coprivano il capo, ma un
complesso di norme relative a modestia, castità e deferenza verso uomini e donne più
anziane
45
.
Da tempi molto antichi le famiglie reali in India tendevano a “proteggere le loro donne
dallo sguardo delle persone volgari”
46
. Altekar
47
ritiene che, prima del periodo islamico,
nell‟induismo non ci fosse un vero e proprio sistema di pardā; non mancavano però
41
Engels, Beyond Purdah? [1996], p. 18.
42
Tharu - Lalita (eds.), Women writing [1991], p. 191.
43
Karlekar, Voices from within [1991], p. 66.
44
Il termine è spesso usato anche nella forma anglicizzata purdah.
45
Engels, Beyond Purdah? [1996], p. 18.
46
Thomas, Indian women [1964], p. 247.
47
Altekar, Position of women [1959], p. 173-74.
18
restrizioni relative ai movimenti delle donne, le quali ad esempio dovevano osservare
certe norme di comportamento relative all‟uscire di casa e alle relazioni con persone più
anziane. Con l‟arrivo dei musulmani in India si costituì una cultura composita e, anche
se l‟induismo non venne certo annientato dall‟islam, ne acquisì alcune usanze. Nella
legge islamica, una situazione legale della donna che, almeno in teoria, era abbastanza
soddisfacente, era però compensata dalla rigidità del pardā
48
. Dal periodo islamico in
avanti, tale costume non rimase limitato alla nobiltà, ma si diffuse anche nelle classi
medie, e in certe sue forme assunse aspetti più marcatamente induisti. Come è stato
notato, anche se nella pratica il pardā induista e musulmano si confondevano, è
possibile distinguere in linea di massima i fondamenti logici delle due forme: per i
musulmani velare le donne davanti agli estranei sottolineava l‟unità interna del gruppo
parentale, mentre nell‟induismo ciò avveniva sia dentro che fuori casa ed era legato a
relazioni di autorità e sottomissione tra parenti (particolarmente accentuate sono quelle
tra la donna sposata da poco e i parenti del marito). Quindi il pardā per gli induisti non
era semplicemente una misura appresa dai musulmani, ma una pratica resa propria allo
scopo di segnalare e preservare l‟obbedienza e la castità femminile
49
. È significativo
come, contemporaneamente al radicarsi della distinzione di due categorie opposte di
donne (la moglie fedele e rispettabile e la libera e poco raccomandabile donna di città) e
all‟aumento della rigidità del pardā, si sia verificato un aumento della popolarità della
prostituzione.
A differenza delle donne delle classi inferiori, che partecipavano alle attività
economiche della famiglia ed erano per questo meno soggette ai tipici mezzi di
oppressione (dovevano avere anche voce in capitolo quando si trattava di prendere
decisioni comuni), quelle delle classi superiori avevano una funzione quasi
“ornamentale” e le loro responsabilità erano strettamente legate all‟ambito domestico
50
.
Per le donne sposate era generalmente obbligatorio coprire la testa alla presenza di
uomini e donne più anziane. Rassundari Debi, vissuta all‟inizio del diciannovesimo
secolo, racconta di come sia stata costretta a obbedire alle regole del pardā subito dopo
il matrimonio, all‟età di dodici anni: doveva portare il velo anche alla presenza di altre
donne della famiglia e le era richiesto di non parlare con loro
51
.
48
Thomas, Indian women [1964], p. 246.
49
O‟Hanlon, A comparison [1994], pp. 20-21.
50
Murshid, Reluctant debutante [1983], p. 30.
51
Ibid.
19
Certamente con il passare degli anni questo sistema perdette in parte la sua rigidità, ma
abbiamo notizie che ci testimoniano come anche negli anni Novanta dell‟Ottocento,
persino in famiglie con influenze brāhmo o occidentali, la moglie appena sposata
doveva osservare le regole del pardā
52
. È il caso, ad esempio, della madre di Nirad
Chandra Chaudhuri, sposata nel 1887:
The code of conduct for the daughters-in-law was too rigid and narrow for them to
be able to move about, speak, eat or sleep with any degree of comfort. My mother,
for instance, did not speak a word to her mother-in-law for five whole years after
her marriage, nor could she uncover her face. She had to carry on her intercourse
with the mistress of the house with the help of only two movements of the head,
the up-and-down positive nod and the side-to-side negative shake. If she wanted
anything she had to go without it until the other young girls of the family
discovered it and made representations to the old lady
53
.
Questo può far immaginare come il pardā fosse osservato ancora più rigidamente nelle
famiglie tradizionaliste, soprattutto in quelle musulmane.
Tra i maratti, popolo tradizionalmente guerriero e contadino, il pardā (o marāṭhmolā,
“l‟antico costume maratta”) si rinforzò particolarmente nel diciannovesimo secolo. La
maggior parte dei commentatori della tarda epoca precoloniale contraddice il luogo
comune secondo cui i maratti tradizionalmente tenevano in isolamento le loro donne,
come risultato della loro lunga associazione con la cultura Moghul: pare che nel
diciottesimo secolo le donne fossero di rado velate e uscissero all‟aperto in maggior
misura che in altre parti dell‟India
54
. Le ragioni per la diffusione di questo costume nel
secolo successivo possono essere dovute all‟urbanizzazione e alla conseguente necessità
di preservare l‟onore familiare nel nuovo ambiente, o alla perdita del tipico aspetto di
mobilità geografica, dovuta agli sforzi dell‟East India Company per creare una società
sedentaria
55
.
Spesso per queste “donne di buona famiglia” che abitavano lo zenana l‟unico legame
con il mondo esterno era rappresentato da quelle lavoratrici provenienti da strati sociali
inferiori, come napteni (appartenenti alla casta dei barbieri che decoravano i piedi delle
donne dello zenana), cameriere, venditrici o cantanti di strada, con cui si creava una
cultura condivisa, composta da canti popolari e filastrocche: un tipo di cultura vista
come minaccia dagli uomini di buona famiglia che, sostenuti in questo da funzionari
52
Ivi, p. 31.
53
Chaudhuri, Autobiography [1968], p. 136.
54
O‟Hanlon, A comparison [1994], p. 21.
55
Ivi, pp. 22-23.
20
inglesi e missionari cristiani, si assumeranno il compito di “civilizzare” le loro donne,
istruendole in maniera “appropriata”
56
.
1.3 Il matrimonio: subordinazione dell’individuo alla famiglia e potere di controllo
di quest’ultima.
Il matrimonio e la vedovanza erano le due fasi fondamentali nella vita di una donna. Il
primo portava quasi inevitabilmente alla seconda a causa della grande differenza di età
tra marito e moglie e di costumi come la poligamia.
Il matrimonio era da sempre considerato altamente desiderabile per uomini e donne, ma
fino al 500 a. C. circa non sembra che la società insistesse sulla necessità assoluta di
sposarsi a tutti i costi
57
. Inoltre, in origine il matrimonio doveva essere un atto
puramente giuridico che stabiliva i diritti del marito sui figli, ma non comportava
restrizioni alla libertà della donna
58
. Negli inni del Ṛgveda sono presenti allusioni alla
felicità domestica e all‟unità coniugale
59
.
Non sappiamo quanto fosse effettivamente diffusa l‟usanza di far sposare le proprie
figlie prima della pubertà in epoca antica, ma dal momento che alcuni sūtra menzionano
riti come il caturthīkarman, che comporta la consumazione del matrimonio il quarto
giorno dopo la festa nuziale, o cerimonie purificatorie in caso di ciclo mestruale durante
le nozze, è evidente che tale usanza non era la norma
60
. Col tempo invece divenne la
regola generale per le caste superiori. Nel diciannovesimo secolo, Ramabai Ranade
61
,
Lakshmibai Tilak
62
e Parvati Athavale
63
, nelle rispettive autobiografie, raccontano di
come i familiari fossero preoccupati dal fatto di avere ragazze “ancora” nubili a undici
anni: normalmente l‟età per diventare moglie era di cinque anni circa. Anche Binodini
Dasi, appartenente ad uno strato sociale inferiore, ricorda di essere stata sposata da
56
Banerjee, Marginalization [1989].
57
Altekar, Position of women [1959], p. 32.
58
Thomas, Indian women [1964].
59
Kapadia, Marriage and family [1966], p. 97.
60
Ivi, pp. 138-9.
61
Ranade, Himself [1938], p. 1.
62
Tilak, I follow after [1950], p. 8.
63
Athavale, My story [1930], p. 8.
21
piccola (esclusivamente perché era convenzione sposare i figli all‟età di quattro o
cinque anni) con un bambino, che poi però venne portato via su volontà di una zia
64
.
Una delle motivazioni addotte a favore del matrimonio delle bambine era legata al
valore della verginità: siccome il desiderio sessuale femminile era considerato troppo
forte per rimanere insoddisfatto, un matrimonio in età precoce era il modo migliore per
scongiurare il pericolo del disonore di un‟intera famiglia. Probabilmente anche la
funzione del matrimonio come unico saṁskāra
65
per la donna contribuì allo sviluppo di
questa tendenza: prima del matrimonio, non avendo ricevuto alcuna iniziazione, la
donna era alla pari di uno śūdra
66
e bisognava scongiurare l‟eventualità della sua morte
in quello stato.
Il matrimonio era un rito che concerneva due famiglie piuttosto che due individui. Ai
genitori spettava la scelta dei partners per i propri figli: tradizionalmente era il padre a
occuparsene, dato che erano in gioco il suo status rituale e le sue finanze, e la
negoziazione avveniva appunto tra gli uomini della famiglia, ma ciò non implicava
necessariamente che le madri fossero del tutto prive di influenza. Nelle famiglie più
tradizionaliste la coppia non si incontrava prima della cerimonia (usanza radicata ancora
ai tempi di Tagore, come mostrano l‟ironia e la critica nei confronti di essa presenti nel
racconto Śubhadṛṣṭi e nel romanzo Naukāḍubi) ed erano i parenti del futuro sposo a
“esaminare” la possibile fidanzata
67
. L‟ispezione si basava soprattutto su caratteristiche
fisiche ed era, inutile a dirsi, un‟esperienza umiliante per la ragazza. Essenziale a ogni
matrimonio era anche il servizio di un astrologo, per verificare la compatibilità della
coppia e scegliere un giorno di buon auspicio per la cerimonia
68
.
Il sistema della dote era generalmente sconosciuto in tempi antichi
69
: dal momento che
le donne erano considerate beni mobili, era piuttosto il padre della sposa ad essere
autorizzato a richiedere dalla famiglia dello sposo una somma, per compensare la
perdita della figlia e la privazione del suo aiuto nei lavori domestici. Il prezzo della
sposa era diffuso in particolare negli strati sociali inferiori e questo lascia immaginare
che in essi la nascita di una figlia fosse un evento auspicato; in ogni caso non
possediamo fonti che lo possano confermare
70
. Nelle smṛti non ci sono riferimenti alla
64
Binodini Dasi, My story [1998], p. 63, e My life [1998], p. 132.
65
I saṁskāra sono riti religiosi che segnano le diverse fasi della vita di un “nato due volte” (appartenente a uno
dei tre varṇa superiori).
66
Kapadia, Marriage and family [1966], cap. 7.
67
È il caso, ad esempio, del matrimonio di Ramabai Ranade (Ranade, Himself [1938], p. 12).
68
Engels, Beyond Purdah? [1996], pp. 46-48.
69
Altekar, Position of women [1959], p. 70.
70
Ivi, pp. 3-4.
22
dote, e se all‟epoca tale usanza fosse stata diffusa sarebbe stata molto probabilmente
condannata alla pari di quella del prezzo della sposa.
Secondo Altekar
71
, il costume della dote è connesso alla concezione del matrimonio
come “dono” alla famiglia dello sposo da parte di quella della sposa: questa era
accompagnata da una somma in denaro come avveniva comunemente per un dono
religioso. Per lungo tempo si trattò di una somma simbolica, che non era certo di
impedimento al matrimonio; in epoca medievale questo sistema iniziò ad assumere
proporzioni allarmanti presso le famiglie aristocratiche, e solo a partire dalla metà del
diciannovesimo secolo diventò un serio problema anche per le famiglie ordinarie. Il
costume della dote ebbe come conseguenza anche la crescente affermazione della
poligamia: l‟entrata di una somma significativa per ogni matrimonio era un incentivo a
prendere più mogli anche soltanto per l‟utilità economica.
La monogamia doveva essere la condizione prevalente sin dall‟antichità e sia nella
letteratura vedica, sia negli śāstra è considerata preferibile alla poligamia, che pure è
contemplata come eventualità. In pratica, tuttavia, la poligamia era piuttosto comune tra
re e nobili, come mezzo per stabilire alleanze politiche o come simbolo di ricchezza ed
elevata condizione sociale
72
. Accettata con il passare dei secoli come ideale sociale
dalla cultura brahmanica, la poligamia divenne una forma di matrimonio sempre più
comune. La sua diffusione anche in classi sociali meno elevate era dovuta soprattutto
alla preoccupazione di assicurare una discendenza alla famiglia, in caso di sterilità della
prima moglie
73
. Inutile dire che l‟estensione di questa pratica influì ulteriormente sullo
status già basso delle donne.
1.4 L’ideologia relativa alla donna, il ruolo della moglie e della vedova.
La tradizione indiana è caratterizzata da una certa ambivalenza nei confronti delle
donne. Secondo una mentalità diffusa, la natura femminile è essenzialmente devota e
disposta ad autosacrificarsi, ma occasionalmente può diventare ribelle e pericolosa. Non
vi è un solo modello di donna: sin dall‟antichità, nella letteratura e nell‟arte, troviamo
rappresentati alcuni personaggi femminili indifesi e bisognosi di protezione, ma anche
altri abbastanza forti da contrastare un destino avverso. La figura della madre, sotto
varie forme, è oggetto di venerazione, ma d‟altra parte la nozione secondo cui la donna
71
Ivi, p. 71.
72
Ivi, p. 104.
73
Ivi, p. 105.
23
deve essere subordinata all‟uomo, come abbiamo visto, permea la società brahmanica.
Mentre nelle prescrizioni legali e religiose riguardo agli uomini vi sono differenze a
seconda di fattori come la casta o l‟età, le distinzioni interne alla categoria femminile
sono oscurate dalla comunanza di caratteristiche biologiche e del ruolo subordinato
rispetto agli uomini
74
.
Con i peggioramenti dello status della donna prescritti dalla Manusmṛti (uno dei testi
legislativi considerati più autorevoli) in avanti, si diffusero in quantità sempre crescente
pregiudizi legati alla nascita di una figlia, vista come fonte di problemi per la famiglia
(dalla necessità di procurarle una dote alla difficoltà di trovarle un marito, fino
all‟eventualità che restasse vedova). Tali pregiudizi erano più rari in epoca antica, dal
momento che un tempo anche loro, alla pari degli uomini, potevano ricevere
l‟iniziazione agli studi vedici (upanayana) e offrire i necessari sacrifici agli antenati.
Nei testi normativi la categoria di donne oggetto di maggiore attenzione erano
ovviamente le mogli: solo dopo il matrimonio una donna assumeva dignità di persona e
diventava sumaṅgalī, saubhāgyavatī (di lieto auspicio, fortunata). Gli atti che la
definivano come essere sociale erano lo svolgimento di rituali e la procreazione: per
entrambi era indispensabile la presenza del marito, anzi, in entrambi la donna era solo
un agente inferiore, di aiuto all‟uomo
75
.
I testi normativi sono accomunati dal problema di risolvere la contraddizione di base
interna alla donna, quella tra il demoniaco strīsvabhāva, la sua natura innata, lussuriosa
e distruttivamente passionale (identità biologica, ereditata dalla madre), e lo strīdharma,
cioè il suo dovere di moglie (identità socialmente costruita, ricevuta dal padre)
76
. Le
qualità di una buona moglie coincidono di fatto con la totale sottomissione e la
negazione della propria personalità.
Il trattamento ricevuto dalle vedove in una società è generalmente indice
dell‟atteggiamento della stessa verso le donne in generale
77
. In India, nelle caste
superiori, la vedovanza della donna era definibile come uno stato di morte sociale,
dovuta alla perdita della sua funzione riproduttiva e all‟esclusione dall‟unità sociale
della famiglia: dal momento che, come detto in precedenza, una donna assumeva dignità
di persona solo con il matrimonio, quando cessava di essere moglie non era più
nemmeno “persona”, figlia o nuora.
74
Forbes, Women in modern India [1996], p. 1.
75
Chakravarti, Gender, caste and labour [1998], p.66.
76
Ivi, p. 68.
77
Altekar, Position of women [1959], p. 115.
24
Per risolvere il problema della sua presenza nella società, la cultura brahmanica decise
di collocarla in una posizione liminale, tra la vita fisica e la morte sociale, e di
istituzionalizzare questa sua marginalità
78
.
Testi normativi come i Dharmasūtra e i Dharmaśāstra (100-500 d. C. circa) esprimono
chiaramente la concezione più diffusa riguardo allo stato della vedova. I desideri, i
doveri e l‟identità stessa della pativratā (moglie ideale) sono indissolubilmente legati a
quelli del marito, che è la sua guida spirituale, il suo dio personale. Mentre il concetto di
svadharma (l‟insieme dei doveri propri di un individuo), si riferisce in senso lato alla
giusta azione morale e religiosa, quello di strīdharma (il dharma specifico di ogni
donna) si identifica con la totale devozione nei confronti del marito. Detto questo, è
evidente come la vedovanza rappresentasse la massima disgrazia che potesse capitare a
una donna e il culmine dell‟impurità
79
. Secondo l‟universale legge del karman, che è
alla base dell‟induismo, ogni atto commesso porta determinati frutti: quindi la
vedovanza era l‟inevitabile conseguenza di colpe commesse dalla donna in passato,
magari in vite precedenti.
Tale sistema di pensiero forniva da sé una spiegazione e una giustificazione alla
posizione che una società patriarcale come quella brahmanica assegnava alle vedove.
Una vera pativratā non lascia mai il marito, nemmeno al momento della morte: di qui
l‟esortazione, presente in molti testi della tradizione, a seguire il consorte fin sulla pira
funebre (pratica comunemente detta satī
80
). È stato notato che, per i suoi sostenitori,
questa pratica era un modo di evitare l‟impurità dello stato vedovile: la condizione di
satī e di vedova si escludevano a vicenda, la satī era considerata avidhavā nārī, una
donna non-vedova
81
.
La moglie che sopravviveva al marito non era certamente stata una pativratā, capace di
estinguere la debolezza morale che la sua natura femminile implicava necessariamente,
e non aveva nemmeno colto l‟ultima occasione di redenzione seguendo il marito
78
Chakravarti, Gender, caste and labour [1998], p. 64.
79
O‟Hanlon, A comparison [1994], p. 29.
80
Il termine sanscrito satī è generalmente usato per indicare il rituale dell‟autoimmolazione della vedova. Si
tratta in realtà del participio presente femminile di as- (essere), con il significato traslato di “buona, virtuosa”: indica
quindi nello specifico la persona che compie l‟atto (la moglie che segue il marito anche dopo la morte è il supremo
modello di fedeltà e virtù). Il sanscrito non conosce una denominazione esplicita per questo rito, ma ricorre piuttosto a
espressioni perifrastiche: sahagamana (“andare insieme”) o sahamaraṇa (“morire insieme”), se la donna si immola
sulla stessa pira del marito; anugamana (“andare dopo”) o anumaraṇa (“morire dopo”), se si immola in seguito su di
un‟altra; anvārohaṇa (“ascensione” della pira); satīdāha (“rogo della satī”), neologismo prevalente in Bengala (cfr.
Piretti, Satī [1991], pp. 165-66, nota 18 e Weinberger-Thomas, Ashes of immortality [1999], p. 21).
81
Lehmann - Luithle, Selbstopfer und Entsagung [2003], p. 22.