INTRODUZIONE
“ It has always bothered me that people in organizational theory began to talk about
learning just about the time psychologists began to desert the concept “ (Weick, 1991,
pag. 116 ).
L’affermazione dello studioso statunitense è facilmente condivisibile: l’apprendimento
non è più argomento riservato alle secolari speculazioni di filosofi e psicologi, ma entra
ormai a pieno diritto nel campo d’indagine di discipline un tempo “ insospettabili “, come
l’economia (con riferimento all’organizzazione aziendale) o l’informatica (riguardo agli
studi sull’intelligenza artificiale).
Il concetto di apprendimento, in effetti, è suscettibile di molteplici letture, ognuna delle
quali potenzialmente in grado di mettere in luce un aspetto particolare di un argomento
tanto affascinante quanto complesso.
Solo molto raramente, tuttavia, si e` verificata una “ contaminazione “ tra i diversi
contributi: gli studiosi che si sono occupati, e si occupano, di apprendimento si sono,
infatti, abitualmente mantenuti all’interno dei confini intellettuali individuati dalle
rispettive discipline.
L’argomento in questione è stato, quindi, in genere studiato in un’ottica “ a
compartimenti stagni “, sulla base dei presupposti e mediante gli strumenti propri di ogni
singola area di ricerca, assumendo talvolta connotazioni molto diverse rispetto a quella
comunemente collegata al concetto di conoscenza.
Questo essere “ uno, nessuno e centomila “ dell’apprendimento, questa assenza di
un’unica identità, possibile frutto dell’incontro tra i molteplici punti di vista esistenti,
dipende senz’altro da difficoltà reali, quali, ad esempio, la scarsa adattabilità di alcuni
concetti ad ambiti di ricerca diversi da quello originario oppure l’utilizzo di concetti
mutuati da altre discipline, ma ormai esclusi dal campo d’indagine iniziale.
Riprendendo Weick per un’esemplificazione, la definizione dell’apprendimento come di
un fenomeno che si verifica in corrispondenza di una reazione diversa ad un medesimo
stimolo mal s’adatta alla realtà organizzativa, dove o si verifica il contrario (a stimolo
diverso medesima reazione), o la sequenza avviene raramente oppure avviene per ragioni
diverse dall’apprendimento; continuando nella citazione, il disinteresse della psicologia
cognitiva per l’apprendimento porta gli studiosi di organizzazione aziendale ad utilizzare
un concetto “ that didn’t work for others, and will not work for them “ (pag. 116).
Il riferimento all’ambito organizzativo, in merito a tale “ frammentazione “ degli studi
sulla conoscenza, è quanto mai appropriato: sulla base di un interesse esistente da tempo,
ma intensificatosi in questi ultimi anni, l’organizzazione aziendale ha sviluppato un
approccio nei confronti dell’argomento squisitamente organizzativo, fondato in modo
quasi esclusivo sui propri presupposti teorici e sui propri strumenti di analisi, il che
comporta alcune conseguenze relative al significato stesso dell’apprendimento, come
anticipato in precedenza e come verrà chiarito in seguito.
Il “ risveglio “ dell’interesse della disciplina nei confronti dell’apprendimento è da
attribuirsi sostanzialmente al fatto che esso costituirebbe la migliore delle risposte
possibili ad una realtà che il concetto di turbolenza ( intesa come uno stato in cui “ le
grandi minacce/opportunità si sviluppano ad una velocità tale che, se l’azienda risponde
quando il loro impatto e le loro conseguenze possono essere accuratamente valutate, sarà
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troppo tardi per lanciare una risposta tempestiva “ - Ansoff, 1987, pag. 499 ) non basta
più a descrivere, in quanto sempre più complessa e sempre meno prevedibile.
L’attivazione della conoscenza ad ogni livello dell’azienda fornirebbe, cioè, il
presupposto necessario per l’esistenza della flessibilità e proattività necessarie a non
subire l’ambiente, bensì a sfruttarne le occasioni, mediante la valorizzazione delle doti di
adattabilità ed iniziativa tipiche delle persone.
La manifestazione più evidente di tale intensificazione dell’interesse per l’argomento è
che sull’apprendimento si basano, in ultima analisi, i paradigmi organizzativi più in voga,
quali Total Quality, Learning e Lean Organization, Business Process Reenginering, i
quali propongono cambiamenti operativi che trovano la loro ragion d’essere
nell’esistenza di una “ cultura dell’apprendimento “ che interessa ogni aspetto
dell’attività aziendale.
L’apprendimento assume, così, la valenza di un elemento indispensabile, i cui benefici
effetti dovrebbero diffondersi dalle persone all’organizzazione, migliorando in modo
consistente e duraturo le prestazioni individuali ed aziendali.
Pur concordando senza riserve sull’insostituibilità dell’ ” organizational learning “ nella
sfida quotidiana all’ambiente, l’impressione che si trae dalla letteratura organizzativa più
recente in materia riporta ad un concetto di apprendimento un po’ superficiale,
vagamente miracoloso, tanto facile da creare e da gestire quanto automaticamente
efficace.
L’ ” organizational learning “ non sembra, da tale punto di vista, molto diverso da una
nuova tecnica produttiva o da un nuovo impianto che consenta di ridurre i costi mediante
lo sfruttamento delle economie di scala.
Pur senza rifarsi al concetto “ sacro “ e vagamente esoterico di Conoscenza, le
caratteristiche dell’apprendimento organizzativo appaiono a chi scrive un po’ più
sfuggenti ed un po’ meno gestibili di quelle di un impianto.
Esso non è, sempre secondo il parere di chi scrive, equiparabile o riducibile ad una
semplice reazione aziendale, ad un cambiamento di strategia, ad una risposta alle minacce
ambientali: l’apprendimento non può essere visto semplicemente come l’effetto di una o
più cause, concezione che, oltre ad apparire superficiale, dà solo una vaga idea del
potenziale di ciò di cui si sta parlando.
Il punto di vista che si vuole proporre guarda all’apprendimento come ad un fenomeno
profondamente radicato nell’organizzazione, ad un elemento fondante, sulle cui
dinamiche di produzione e rinnovamento si basa l’esistenza stessa dell’azienda.
In tale ottica esso è veramente insostituibile, poiché solo mediante la sua attivazione
quotidiana da parte degli attori organizzativi l’organismo aziendale è in grado di imparare
dalle proprie esperienze e di adattarsi all’ambiente in cui vive, garantendosi così la
sopravvivenza.
Secondo tale prospettiva, l’apprendimento organizzativo non è più, quindi, l’effetto della
causa “ minacce ambientali “, relazione lineare che lo ridurrebbe a risposta ex post, solo
parzialmente e momentaneamente efficace, bensì costituisce un elemento continuamente
presente nell’organizzazione, che interessa ognuna delle sue funzioni vitali e che
consente, mediante le proprie dinamiche, di non subire la complessità, bensì di sfruttarla
a proprio favore, incorporando nell’azienda stessa le risultanti di continui feedback
ambientali.
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Si ritiene che la superficialità del concetto di apprendimento proposto dalla letteratura
organizzativa più recente dipenda, ancora una volta, da una trattazione “ a compartimenti
stagni “ , come già sottolineato in precedenza, da un approccio, cioè, squisitamente
organizzativo all’argomento, riconducibile essenzialmente a due elementi, di natura sia
teorica che pratica.
Per quanto riguarda l’aspetto teorico, la caratterizzazione dell’apprendimento come “
effetto “ rispetto ad una “ causa “ rispecchia in modo immediato il determinismo che
caratterizza l’approccio scientifico classico, il quale trova uno dei suoi esempi più
eclatanti nella sequenzialità del taylorismo economico.
Nello stesso modo, infatti, in cui quest’ultimo comporta una parcellizzazione del lavoro
in una serie di unità semplici e sequenzialmente ordinate, l’approccio classico che guida
la ricerca scientifica da secoli comporta la semplificazione della realtà ad una serie di
relazioni causali, non consentendo una rappresentazione efficace di un fenomeno
complesso come l’apprendimento, prodotto delle dinamiche non lineari che si verificano
tra l’organizzazione e l’ambiente.
Per quanto riguarda l’aspetto pratico, si ritiene che gli attuali sistemi operativi di gestione
delle risorse umane orientati alla posizione gerarchica, con particolare riferimento ai
meccanismi retributivi e di gestione delle carriere, non consentano un’adeguata
incentivazione a livello personale alla produzione e circolazione della conoscenza,
circostanza che si ripercuote dal livello individuale al livello organizzativo, comportando
quella semplificazione dell’apprendimento a semplice reazione agli avvenimenti esterni
precedentemente citata.
Da tale serie di critiche prende l’avvio questa tesi. In essa ci si concentrerà soprattutto
sull’aspetto pratico, in quanto più prettamente organizzativo, proponendo una
metodologia di gestione delle risorse umane alternativa rispetto a quella basata sulla
gerarchia ed evidenziandone la correlazione positiva con le dinamiche di produzione e
diffusione della conoscenza nell’azienda.
Tale metodo, basato sul concetto di competenza professionale, consentirebbe, infatti,
all’azienda di concentrarsi sull’apprendimento, ponendo le basi per una sua gestione
efficace, mediante l’esistenza di condizioni che ne favoriscano le dinamiche a livello sia
individuale che organizzativo.
Al fine di dimostrare la validità di tale metodologia in un’ottica di gestione della
conoscenza organizzativa (e la sua superiorità rispetto al classico metodo orientato alla
posizione gerarchica) si è ritenuto opportuno far riferimento ad alcuni concetti, sia di
natura organizzativa che “ presi in prestito “ da altre discipline, i quali verranno utilizzati
nel corso dell’argomentazione.
Più precisamente, nel primo capitolo si propone una prospettiva di ricerca alternativa al
determinismo classico precedentemente citato, rappresentata dalla teoria del caos,
approccio mutuato dal campo della fisica quantistica e della teoria dei sistemi dinamici.
Tale impostazione teorica consente di analizzare l’organizzazione in modo più efficace
ed appropriato ai fini che ci si propone, descrivendola come un sistema sociale, dinamico
e complesso, risultante dall’azione degli attori organizzativi, aperto all’interazione con
l’ambiente e che basa la propria sopravvivenza sulla continua “ produzione “ di
apprendimento, il quale viene ad assumere, in tale prospettiva, il valore di elemento
fondante dell’esistenza dell’organismo aziendale, in linea con la concezione
dell’argomento adottata in questa tesi.
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Nel capitolo successivo si effettua una rassegna delle principali teorie organizzative
sull’apprendimento, evidenziandone le peculiarità in vista di un loro richiamo nel corso
dell’argomentazione.
Tra le teorie proposte si scelgono, in particolare, la teoria evolutiva, applicazione di una
prospettiva “ biologica “ allo studio dell’apprendimento organizzativo, ed il modello dei
sistemi basati sulle regole, prodotto di una “ contaminazione “ tra psicologia, filosofia e
studi sull’intelligenza artificiale, come riferimenti principali relativi alle dinamiche di
produzione della conoscenza aziendale.
A tali contributi teorici, preferiti rispetto agli altri in quanto particolarmente compatibili
con la descrizione dell’organizzazione come sistema effettuata nel primo capitolo, e
quindi compatibili con i concetti teorici posti alla base della discussione, si farà
costantemente riferimento nel corso dell’argomentazione in cui si cercherà di dimostrare
la superiorità dei sistemi orientati alle competenze rispetto ai sistemi orientati alla
posizione gerarchica, in un’ottica di gestione efficace della conoscenza.
Il concetto di competenza professionale, “ trait d’union “ tra le teorie sull’apprendimento
prescelte ed i metodi gestionali basati sulle competenze, è analizzato nel terzo capitolo.
Ad esso ci si riferisce non tanto in un’ottica strategica, cioè in quanto “ core
competence “ alla base dei comportamenti aziendali di successo, bensì da un punto di
vista “ microeconomico “, relativo alla conoscenza delle persone all’interno
dell’organizzazione, per il quale si utilizzano concetti propri della psicologia cognitiva.
Nel quarto capitolo si espongono i presupposti teorici di base e gli strumenti pratici
utilizzati nell’implementazione delle due metodologie gestionali di cui si sta parlando;
successivamente si concentra l’attenzione sulle relazioni tra i sistemi retributivi e di
gestione delle carriere orientati alla posizione e le dinamiche dell’apprendimento,
ponendo in evidenza le rigidità del sistema che ostacolano o impediscono tali dinamiche.
Alla medesima analisi, effettuata, però, relativamente ai sistemi basati sulle competenze,
è interamente dedicato il quinto capitolo.
In esso si fa riferimento ad una metodologia esistente orientata alle competenze,
denominata Skill-Based Pay System, della quale si evidenziano pregi e difetti; in seguito
si suggeriscono alcuni correttivi ai difetti individuati e, sulla base di un sistema SBP
“ modificato “ si mette in luce la superiorità dell’orientamento alle competenze nel
supportare le dinamiche dell’apprendimento.
Infine, si propongono i risultati di un questionario sottoposto ad un campione di
dipendenti di due aziende, una delle quali usa i sistemi orientati alle competenze, a
differenza dell’altra che utilizza meccanismi retributivi e di gestione delle carriere
orientati alla posizione.
L’obiettivo di tale analisi empirica è chiarire le relazioni tra sistemi operativi ed
apprendimento organizzativo, supportando con dei dati la tesi sostenuta di una maggior
efficacia dell’orientamento alle competenze, rispetto all’orientamento alla posizione,
nella gestione della conoscenza aziendale.
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CAPITOLO 1
Complessità ed apprendimento organizzativo :
relazioni tra i due fenomeni.
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La parola d’ordine utilizzata dalla teoria organizzativa più recente è
“ complessità “.
Con questo termine si cerca di riassumere la situazione attuale che le aziende
si trovano a fronteggiare, caratterizzata da tutta una serie di cambiamenti
velocissimi ed inaspettati, relativamente ai quali la previsione e la reazione
risultano estremamente difficili.
Tali cambiamenti interessano la realtà sia esterna che interna alle aziende e
possono essere individuati in relazione a fenomeni di tipo sociale e politico,
oppure di carattere più prettamente economico.
Benché una descrizione esauriente della situazione attuale sia estremamente
difficile, vista l’abbondanza degli elementi che la determinano e la complessità
delle loro interazioni, si ritiene opportuno tentare almeno di ordinare i principali
fenomeni, distinguendoli tra variabili ambientali e variabili interne al sistema
organizzativo ( Rugiadini, 1979 ), soprattutto al fine di dare un’idea di ciò che la
teoria organizzativa intende col termine “ complessità “.
Tra le variabili ambientali, definite come esterne all’azienda e relative a
fenomeni socio economici culturali, sono senz’altro da comprendere le crisi
congiunturali di tipo recessivo-deflattivo estese su scala mondiale e tutta una
serie di cambiamenti sociali e politici.
Ad un livello più strettamente economico è poi da citare il grado sempre più
elevato di internazionalizzazione e globalizzazione dei mercati, il quale,
sommato ad un’evoluzione tecnologica vertiginosamente rapida, comporta un
costante aumento dell’intensità e della difficoltà della competizione a livello
mondiale.
Anche il concetto di prodotto cambia: esso contiene quantità crescenti di
tecnologia ed attività di servizio, necessarie per fornire ai clienti, che non
s’accontentano più delle produzioni di massa, soluzioni ad hoc; per tali motivi il
suo sviluppo diviene sempre più complesso e rischioso e inoltre, a causa del
continuo emergere di tecnologie sostitutive, il time-to-market tende a ridursi,
insieme al ciclo di vita.
Il combinarsi di tutte queste condizioni contribuisce a dar vita ad uno
scenario competitivo estremamente mutevole, nel quale ha luogo una continua
“ rincorsa “ delle aziende per adeguarsi ai continui cambiamenti di tendenza nel
mercato e nei metodi di produzione.
Tale “ rincorsa “ non consente, naturalmente, all’organizzazione di restare
uguale a sé stessa, ossia di continuare ad utilizzare i meccanismi gestionali che
funzionavano in epoche di maggiore stabilità; la “ complessità “ si ripercuote,
dunque, anche all’interno dell’azienda, coinvolgendo nel cambiamento le
variabili interne, cioè quei fattori determinanti il comportamento organizzativo,
comprendenti le variabili individuali, sociali, tecniche, istituzionali ed
organizzative ( Rugiadini, 1979 ).
Riguardo a tale seconda classe di elementi è possibile individuare,
innanzitutto, un progressivo “ appiattimento “ dell’organigramma, dovuto
all’abbandono di forme classiche di gerarchia - sostituite da meccanismi
d’integrazione e controllo più “ soft “, come la progettazione delle mansioni,
l’implementazione dei sistemi informativi, i sistemi di ricompensa, oppure da
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tipologie di leadership e di cultura ( Lawler, 1995 ) - e ad una crescente
tendenza alla delega ed allo sviluppo dell’imprenditorialità interna
( Invernizzi, Molteni, Sinatra, 1988 ).
I tre elementi citati come cause dell’” appiattimento “ aziendale sono, in
realtà, a loro volta effetti di una causa principale: la continua ricerca della
flessibilità, elemento indispensabile per far fronte alle minacce/opportunità
dell’ambiente.
Il medesimo obiettivo sta alla base della nascita di nuovi modelli
organizzativi, i quali dovrebbero essere in grado di migliorare la comunicazione
sia interna ( tra funzioni aziendali, gruppi, individui ) che esterna ( con clienti,
fornitori e stakeholder in generale), in modo tale da consentire all’azienda di
rispondere in modo pronto ed efficace al cambiamento.
Un esempio di tale cambiamento nelle tipologie organizzative sono le
imprese a rete o a cluster ( Mills & Friesen, 1994 ): tali aziende sono
tipicamente strutturate in business unit di dimensioni medie o piccole, le quali
sono specializzate per funzioni e supportate da unità manageriali sotto forma di
gruppi non gerarchici; le imprese in questione operano, inoltre, con un numero
relativamente limitato di manager, poiché le mansioni comprendono funzioni di
gestione di livello medio, da eseguire come parte dei compiti previsti nella
descrizione del job.
E` immediato notare come in una struttura organizzativa di questo tipo sia
possibile ritrovare gli elementi precedentemente citati, ossia la destratificazione
e la delega, il comportamento imprenditoriale, la collaborazione e la
comunicazione interna ed esterna necessarie a “ costruire “ la flessibilità e
l’adattabilità aziendale.
Tali caratteristiche, secondo gran parte della letteratura in materia, sono in
realtà riconducibili alla presenza di un solo elemento organizzativo, ossia il
lavoro in team, che ne faciliterebbe la creazione e la diffusione.
Nel modello triangolare ( Keidel, 1995 ) esso viene, per tale motivo,
“ promosso “ dal rango di fattore residuale e secondario rispetto alla struttura, o
di fenomeno aziendale spontaneo, a variabile organizzativa esplicitamente
considerata nell’ambito della progettazione insieme ad altre due variabili
“ classiche “, cioè centralizzazione e decentralizzazione.
L’azienda si caratterizza, secondo tale modello, come il risultato del
combinarsi dei tre criteri di progettazione citati (riconducibili a cooperazione,
controllo ed autonomia), o meglio, dell’equilibrio tra i possibili trade-off tra tali
variabili, equilibrio che si presenta diverso non solo a livello di azienda, ma
anche di singola unità organizzativa.
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Tali trade-off fondamentali sono, come mostrato nella Figura 1:
· Autonomia/Controllo, che contrappone la conoscenza parziale, “ sul campo “
della realtà quotidiana nella quale l’azienda opera, alla visione globale,
comprensiva di tutte le variabili delle quali essa deve tener conto ( in pratica, tra
la visione del tutto e delle singole parti );
· Controllo/Cooperazione, che vede in antitesi rigidità e flessibilità, in relazione
sia alla strategia aziendale che alla gestione dei rapporti interni;
· Autonomia/Cooperazione, che contrappone l’apporto individuale ( del singolo
come dell’unità organizzativa ) alla creazione di sinergie.
L’autore del modello individua sei possibili forme organizzative, tre
“ pure “, che si concentrano intorno all’autonomia, o al controllo o alla
cooperazione e tre “ibride “, che considerano unitamente due delle tre variabili
considerate.
Tali configurazioni si caratterizzano come degli “ stadi “ della vita
aziendale, delle fasi che l’impresa attraversa nel tentativo costante di far fronte
in modo efficace alla varietà e variabilità ambientale.
La progettazione organizzativa triangolare costituisce, in conclusione, un
esempio di “modello per il cambiamento“, il risultato di uno sforzo, da parte
dell’organizzazione aziendale, teso a fornire uno strumento che possa servire
all’azienda da “ bussola “ per orientarsi in una realtà estremamente mutevole.
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A tal fine esso si concentra, come descritto in precedenza, su poche variabili,
ritenute essenziali per affrontare la sfida ambientale ( tra cui, finalmente, il
lavoro in team ), dal cui equilibrio dinamico dovrebbero scaturire la flessibilità e
l’adattabilità ricercate.
Dal panorama disegnato, sia pur per sommi capi, risulta in modo piuttosto
chiaro come lo stato dell’ambiente nel quale l’azienda vive ed agisce sia
decisamente lontano dalla stabilità: i cambiamenti, termine nel quale si
ricomprendono sia le minacce che le opportunità, avvengono, infatti, ad una
velocità tale ed in modo talmente interconnesso che il loro riconoscimento si
presenta particolarmente difficile ed ancora più difficile una reazione efficace e
tempestiva.
Per una situazione così “ mobile “ nemmeno la definizione di “ turbolenza “,
come già anticipato, è sufficiente e la stessa gestione “ per segnali deboli “,
generalmente indicata per livelli elevati di turbolenza ( Ansoff, 1987 ), risponde
solo in modo parziale alla necessità di fronteggiare quotidianamente l’impatto
col cambiamento.
Il termine col quale gli studiosi di organizzazione aziendale descrivono la
realtà attuale è, come anticipato in apertura, “ complessità “.
La complessità investe, in base a quanto si è detto finora, sia i problemi che
l’azienda deve affrontare quotidianamente, i quali si presentano in modi sempre
nuovi e diversi, sia le risposte a tali problemi, le quali dovranno, a loro volta,
essere in grado di fronteggiare situazioni nelle quali l’informazione è parziale o
assente, sia la struttura aziendale, che dovrà cambiare ed adattarsi ai mutamenti
in modo tale da permettere all’organizzazione di risolvere in modo efficace ed
originale i nuovi problemi ( Rullani, 1987 ).
L’apprendimento organizzativo si caratterizza, nell’ambito del panorama
disegnato, come l’elemento che permette più di ogni altro di affrontare in modo
vincente l’ambiguità ambientale.
L’aggiornamento continuo della conoscenza aziendale consente, infatti,
attraverso l’operare di una dinamica che si sviluppa a livello di singolo attore
per poi diffondersi a tutta l’organizzazione, di creare e valorizzare quelle doti di
flessibilità e rapidità di reazione che consentono di far fronte all’imprevedibilità
dell’ambiente ed al cambiamento in modo sempre nuovo ed originale.
L’apprendimento cui l’organizzazione aziendale attribuisce attualmente
un’importanza centrale è inteso, tuttavia, come anticipato nell’introduzione, da
gran parte della letteratura in materia come una reazione aziendale a fatti
esogeni, oppure una nuova strategia, cioè, in sostanza, come il semplice effetto
della causa “ complessità “.
La prospettiva che sta alla base di questa tesi guarda, invece,
all’apprendimento come ad un elemento “ vitale “, alla base dell’esistenza
dell’azienda, sempre presente e che si rinnova continuamente insieme ad essa,
assicurandone il successo e la sopravvivenza.
La differenza di punti di vista non è affatto irrilevante, secondo chi scrive,
poiché comporta ripercussioni, oltre che a livello teorico, anche ad un livello più
propriamente pratico e strettamente operativo, come si evidenzierà nel resto
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della tesi; per tale motivo si intende, innanzitutto, chiarire le ragioni ed i
presupposti teorici alla base dei due diversi concetti richiamati, mettendo
successivamente in rilievo come la visuale che si è scelto di adottare in questa
argomentazione consenta, sempre secondo il parere di chi scrive, di studiare
secondo modalità che si ritengono più chiare ed efficaci caratteristiche e
potenzialità dell’apprendimento organizzativo.
Si è detto, innanzitutto, che il concetto di apprendimento che emerge dalla
maggioranza della letteratura organizzativa si configura come l’effetto della
causa “ complessità “: per comprendere la ragione di quella che si considera
una semplificazione, riprendiamo, dunque, la causa che provocherebbe l’effetto-
apprendimento.
Si è già parlato all’inizio del capitolo della complessità, descrivendo
sommariamente i principali elementi di cambiamento interno ed esterno
all’azienda che determinano lo stato attuale della realtà descritta mediante
questo termine.
Ma, in conclusione, cos'è veramente la complessità ?
Quali sono le sue caratteristiche fondamentali ?
Come la si può definire ?
A tutte queste domande la teoria organizzativa non da` una risposta.
Ciò che si è fatto in apertura di capitolo, rifacendosi all’orientamento
prevalente in materia, è stato semplicemente citare alcune manifestazioni di
complessità, senza dare ad essa una ben precisa identità, come se si cercasse
di definire compiutamente un pinguino dicendo solo che è un animale con le
zampe.
L’organizzazione aziendale si serve del termine “ complessità “ in
un’accezione che lo riduce a sinonimo di “ confusione “, lo usa, cioè,
secondo l’impressione di chi scrive, semplicemente come un’etichetta
mediante la quale catalogare una volta per tutte un insieme di fenomeni
eterogenei, scarsamente comprensibili e controllabili ( e perciò
preoccupanti ).
Ciò che si intende dire è che la complessità “ organizzativa “ ( ossia la
nozione di complessità utilizzata dalla letteratura in materia ) non assume
mai il valore di concetto scientificamente definito, studiabile ed
osservabile, restando, invece, solo un termine ambiguo mediante il quale
definire l’ambiguità.
L’organizzazione aziendale non è in grado, del resto, di fare altrimenti.
L’economia, e, di riflesso, l’organizzazione, basa infatti, come anticipato
nell’introduzione, la propria prospettiva di ricerca su di un’assunzione di
stabilità e su di una visione quasi-meccanicistica della realtà; essa si fonda,
quindi, sostanzialmente su quelli che sono gli elementi principali
dell’approccio classico alla ricerca, cioè causalità e semplificazione
gerarchico-deterministica del mondo, trasformando quest’ultimo in modello
ideale, funzionante senza attriti.
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Appare piuttosto evidente come questo “ patrimonio culturale “ di base
non sia il più adatto a “ catturare “ e studiare la complessità, intesa, per ora,
come fenomeno emergente dal verificarsi di più eventi correlati in modi
diversi e, comunque, senz'altro non riducibile ad un insieme di lucide
relazioni causa-effetto.
Il paradigma dell’organizzazione, dove per paradigma s’intende “ un
sistema di idee guida che orientino ed organizzino una certa area di
investigazione scientifica, rendendola prontamente comunicabile e
modificabile all’interno di una comunità che usa lo stesso linguaggio “
( Perrone, 1991, pag. 15 ) non comprende, cioè, gli strumenti concettuali
necessari ad esprimere e, quindi, a studiare la complessità, a causa delle sue
basi deterministiche e della “ causalità gerarchica “ (Perotto, 1993, pag. 71 )
che essa impone ai fenomeni che rientrano nel suo campo d’analisi.
Tale approccio, mutuato dal mondo delle scienze fisiche, funzionava,
indubbiamente, in passato, in un mondo caratterizzato da una maggior
stabilità (intesa sostanzialmente come minore velocità di cambiamento ), il
quale poteva essere rappresentato in modo sufficientemente soddisfacente da
un modello ideale, a patto di attribuire le deviazioni rispetto a tale modello
all’imperfezione ed alla irrazionalità della realtà.
Poiché, però, il livello di irrazionalità è aumentato, negli ultimi decenni, in
modo esponenziale, l’approccio deterministico appare ormai come un
paradigma di ricerca decisamente poco efficace e, soprattutto, uno strumento
poco “ potente “ per cogliere e studiare fenomeni nuovi e sconosciuti come,
appunto, la complessità.
Tutto ciò si ripercuote, tornando al punto di partenza e mantenendo
l’impostazione classica causa-effetto, sull’apprendimento organizzativo.
Esso si configura, in conseguenza di ciò che si è appena detto, come
l’effetto di una causa non sufficientemente definita, assumendo l’aspetto
superficiale di semplice reazione a fatti esterni all’azienda che si è criticato
nell’introduzione.
Il paradigma classico della ricerca scientifica caratterizza, in sintesi, in
due modi l’approccio organizzativo nei confronti dell’apprendimento: ad un
primo livello riduce lo sviluppo della conoscenza aziendale a semplice
effetto della causa complessità, a “ scudo “ nei confronti dell’imprevisto e
dello sconosciuto, mantenendo la semplificazione causale che
contraddistingue la prospettiva di ricerca; tale semplificazione comporta, ad
un secondo livello, poiché l’organizzazione aziendale non è in grado di
esprimere compiutamente la natura della causa-complessità, in quanto non ha
gli strumenti adatti per farlo, un approccio superficiale nei confronti
dell’effetto-apprendimento, le cui caratteristiche e, soprattutto, potenzialità,
emergono solo in modo parziale.
L’approccio classico utilizzato dall’economia ed ispirato al determinismo
ed alla semplificazione causale appare, in conclusione, inefficace
relativamente allo studio di un fenomeno non lineare come la complessità,
inefficacia che si ripercuote sulle relazioni esistenti tra complessità ed
apprendimento.
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