Accesso alla conoscenza e proprietà intellettuale 5
Introduzione
Sono un videomaker professionista da molti anni, durante i quali mi sono occupato
principalmente di audiovisivi industriali e di documentari. Volente o no, ho avuto a che
fare spesso con i problemi legati ai diritti d’autore. Mi sono trovato diverse volte nella
condizione di dover far valere la mia titolarità dei diritti su un’opera o di cercare un
modo per produrre un determinato audiovisivo senza ledere diritti altrui. La ricerca è
stata spesso faticosa e dai risultati incerti. Nella maggior parte dei casi, i miei diritti, sia
intellettuali sia patrimoniali, sono stati conculcati grazie alla diffusa convinzione che i
diritti d’autore (soprattutto quelli di un piccolo autore e produttore) non fossero
importanti. Ad esempio, molte aziende committenti si comportano, sia pur spesso in
buona fede, come se i diritti d’autore sugli audiovisivi prodotti fossero di loro proprietà.
Così come mi sono trovato, talvolta, nella necessità di mettere sull’avviso i responsabili
di diverse industrie perché, ignari degli illeciti in cui erano incorsi (e dei rischi ad essi
collegati), avevano in precedenza accettato audiovisivi corredati di colonne sonore
composte da musiche non autorizzate (in un caso che ricordo era addirittura stata usata
impunemente la musica del film “Il gladiatore” di Ridley Scott).
Il mio approccio a questa tematica era, quindi, essenzialmente di tipo pragmatico, anzi,
se vogliamo, addirittura utilitaristico. Nel momento in cui ho iniziato a pensare ad una
tesi di laurea sul diritto d’autore, confesso che l’ho vista come l’occasione per
approfondire la mia conoscenza delle normative vigenti, come un’opportunità, cioè, di
prendere i classici “due piccioni con una fava”.
Quando, però, ho letto alcuni dei vari testi che il relatore mi ha segnalato, ho iniziato a
considerare tutta la questione in modo completamente diverso. Ho capito che buona
parte dei problemi connessi con il rispetto dei diritti altrui, che avevo incontrato come
professionista nella realizzazione dei miei audiovisivi, non erano casi particolari, bensì
erano parte integrante ed organica di un problema di rilevanza mondiale.
Tra le altre, sono state illuminanti specialmente le letture dei testi di Lawrence Lessig e
Jeremy Rifkin, che mi hanno permesso di inquadrare il problema da un (per me) inedito
punto di vista.
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Queste parole di Rifkin, in particolare,
«[…] Non è un caso, dunque, che comunicazione e comunità abbiano la medesima radice linguistica:
le comunità esistono attraverso la condivisione di significati comuni e di forme comuni di
comunicazione. Questa relazione, così ovvia, viene spesso trascurata nel dibattito sulla
comunicazione, nell'implicito assunto che la comunicazione sia un fenomeno in sé e per sé,
indipendentemente dal contesto sociale che interpreta e riproduce. Gli antropologi affermano che la
comunicazione non può essere disgiunta da una comunità e da una cultura: l'una non può esistere
senza le altre. Se questo è vero, quando tutte le forme di comunicazione vengono trasformate in
merce, la cultura - materia della comunicazione - diventa inevitabilmente una merce. E questo è
proprio ciò che sta accadendo: la cultura - cioè le esperienze condivise che attribuiscono un
significato alla vita dell'uomo - viene spinta inesorabilmente verso il mercato dei media, dove viene
rielaborata secondo parametri commerciali. […]»
1
mi hanno permesso di comprendere meglio che il substrato culturale della nostra epoca,
così profondamente intriso di immagini, suoni, film, marchi, in massima parte altro non
è che merce. Finché ne siamo consumatori passivi, tutto va bene. Come “pretendiamo”
di diventarne “attori”, cioè interpreti, fruitori consapevoli, riutilizzatori, si ergono i
bastioni delle leggi a tutela della proprietà intellettuale. E quindi non si può prelevarne
nemmeno una minima porzione. Una delle frasi che più mi hanno colpito, durante le
letture dei testi, è quella che recita “if value, then right”
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, cioè “se vale (come contributo
per un altro prodotto culturale), allora c’è un diritto (da pagare con moneta sonante)”. Si
pensi ai logotipi più inflazionati del mondo occidentale (ad esempio ai marchi di una
qualsiasi griffe della moda): dopo aver pagato profumatamente l’oggetto che li reca
stampati in bella evidenza, possiamo indossarli (diventando così degli human billboards
- o uomini-sandwich - che pagano, anziché esser pagati!), ma se li inquadriamo con la
nostra telecamera e li inseriamo in un audiovisivo qualsiasi, corriamo il rischio di sentir
bussare alla nostra porta un avvocato che pretende il pagamento per la violazione della
proprietà intellettuale che abbiamo commesso.
In definitiva, quasi l’intero patrimonio culturale contemporaneo è al di fuori delle nostre
possibilità di rielaborazione, e questo vale ancor di più per gli autori indipendenti, quelli
che non sono organici ad alcun grosso gruppo editoriale.
Infatti, come microscopico produttore ed editore audiovisivo, mi sono trovato molte
volte a dover escogitare degli stratagemmi per girare una scena senza ledere diritti
d’autore o proprietà intellettuali altrui ma, così facendo, non ho fatto altro che falsare la
1
Cfr. Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, Oscar Mondadori, Cles, 2009, p. 186
2
Cfr. Lawrence Lessig, Free Culture, The Penguin Press, New York, 2004, p.18
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realtà, riducendo la possibilità, per gli eventuali fruitori, di riconoscere (e riconoscersi)
nella particolare porzione di universo che il mio lavoro si proponeva di rappresentare.
Certo, nel caso dei miei lavori, la perdita per la “Cultura” sarebbe da considerare
assolutamente trascurabile, ma che succederebbe qualora lo stesso fenomeno dovesse
riprodursi in ogni opera, audiovisiva, musicale, letteraria che sia?
Quella che, in precedenza, era solo un’idea che pensavo frutto di un certo qualunquismo
di maniera, e cioè che le leggi e i regolamenti a tutela del diritto d’autore (segnatamente
in Italia, giacché è qui che vivo e lavoro) erano concepite per favorire solo ed
esclusivamente i grandi gruppi editoriali, è divenuta un sospetto ben più corposo.
In sintesi, la tesi è la seguente: la tutela del copyright, soprattutto alla luce delle leggi
emanate dopo i trattati WIPO del 1996, è, prima di tutto, in conflitto con il rispetto dei
diritti democratici fondamentali, relativi alla libera informazione e circolazione delle
idee, alla segretezza delle comunicazioni, alla libertà di espressione del pensiero, ma,
come se ciò non bastasse comporterà, probabilmente, un progressivo impoverimento,
nel tempo, della produzione culturale non mercificata che, come dice ancora Rifkin,
svolge un insostituibile ruolo, perché
« […] la comunità sociale (cioè la cultura) precede il commercio: nel corso della storia gli uomini
hanno istituito prima le comunità, elaborato le regole dello scambio sociale, integrato i propri membri
in complesse relazioni reciproche e costruito la fiducia sociale; solo quando tali rotazioni - e la
fiducia da esse germogliata - sono divenute stabili, le comunità si sono dedicate agli scambi
commerciali e hanno organizzato i mercati. Questo perché i mercati, per propria natura, necessitano
di fiducia. L'antico detto “Caveat emptor” è vero oggi quanto duemila anni fa, ai tempi dei mercati
romani: il mercato è un'istituzione secondaria, non primaria; è -derivato- ed esiste solo se nella
società vi è sufficiente fiducia per assicurare i termini dello scambio.[…] In generale, le nazioni
concentrano la politica sul primo settore (il mercato) e sul secondo (lo Stato), dando spesso per
scontato il terzo [settore, la cultura], senza rendersi conto del ruolo fondamentale che quest'ultimo
gioca nel processo di formazione della fiducia sociale e, quindi, nella realizzazione degli scambi e nel
funzionamento del mercato. Le istituzioni culturali di una società - Chiese, associazioni civiche,
organizzazioni solidaristiche, circoli sportivi, gruppi artistici, organizzazioni non governative - sono
la sorgente della fiducia sociale: è la loro esistenza che rende possibile quella dei mercati. Nelle
comunità e nei paesi che hanno un terzo settore forte e ben sviluppato, i mercati capitalistici
prosperano; dove il terzo settore è debole, i mercati capitalistici hanno, in genere, assai meno
successo. [...] Sebbene molti neoliberali e neoconservatori, oltre a uno stuolo di liberisti, continuino a
proclamare che economie sane generano società solide e vitali, in realtà è più spesso vero il contrario:
una comunità forte è il prerequisito di una economia sana, dal momento che è l'elemento generatore
della fiducia sociale.[…]»
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La linea d’indagine per produrre un’argomentazione esauriente è scaturita dalla
considerazione che, anche da una prima analisi, appare chiaro come tutte le leggi in
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Cfr. Jeremy Rifkin, op.cit., pp. 323-324
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materia di d.d.a. siano fortemente promosse dai gruppi editoriali internazionali
(principalmente statunitensi) proprietari della stragrande maggioranza dei prodotti
culturali di tutto il mondo occidentale.
Dopo le rivelazioni di WikiLeaks, è di pubblico dominio il fatto che una delle attività
principali delle ambasciate statunitensi in Europa consiste nel fare pressioni presso i
governi locali perché adottino misure più restrittive a tutela del:
«It’s no secret that the US government has used its annual Special 301 Report to intimidate other
countries into adopting more stringent copyright and patent laws by singling out particular countries
for their "bad" intellectual property policies, and naming them on a tiered set of "watch lists". Listing
results in heightened political pressure and in some cases, the potential for trade sanctions, which
encourages foreign trading partners to change their laws to mirror those in the US. But now some of
the cables provided by WikiLeaks to Spanish newspaper El Pais confirm that the US government has
pushed other countries to adopt measures that go beyond US law, unleashing the fury of Spanish
Internet users»
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La citazione riguarda i cablogrammi pubblicati dal quotidiano spagnolo “El Paìs” e le
pressioni esercitate sul governo spagnolo, ma non è che l’Italia stia meglio, anzi! Come
vedremo, la legge Romani è addirittura andata tanto oltre le più rosee aspettative
americane da essere diventata eccessiva persino secondo i giudizi dell’ambasciatore
USA in Italia.
Quindi, data la natura internazionale delle organizzazioni e dei gruppi di pressione, è
parso che, per questo studio, la scelta migliore e più sintetica fosse quella di riferirsi
alla giurisprudenza statunitense.
Lo sviluppo del lavoro, quindi, è suddiviso in tre capitoli: il primo cerca di rendere
conto della storia del diritto d’autore nella prima parte della sua vita, quella che si è
svolta dall’invenzione della stampa fino agli anni ’80 del XX secolo, cioè durante l’era
“analogica”; il secondo descrive le mutate esigenze e le difficoltà connesse con la tutela
del d.d.a. nell’era “digitale”, cioè quella che va dalla fine degli anni ’80 ad oggi; il terzo
cerca di fare il punto sugli sviluppi della giurisprudenza e della tecnologia negli ultimi
anni, quelli successivi, cioè, all’emanazione dei trattati WIPO e del Digital Millennium
Copyright Act.
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Cfr. Gwen Hinze, “Not-So-Gentle Persuasion: US Bullies Spain into Proposed Website Blocking Law”,
Electronic Frontier Foundation, 17 dicembre 2010, http://www.eff.org/deeplinks/2010/12/not-so-gentle-
persuasion-us-bullies-spain-into-proposed-website -blocking-law
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Capitolo 1
Il diritto d’autore nell’era analogica
La storia complessiva del diritto d’autore, dai suoi prodromi ai giorni nostri, dura circa
mezzo millennio, ed è suddivisibile in due periodi molto diversi tra loro: il primo va
dall’invenzione della stampa fino ad Internet; il secondo dai tardi anni ’80 del XX
secolo in poi. Nonostante, però, la disparità della durata, i problemi che sono sorti nel
secondo periodo hanno portato all’emanazione di così tante leggi, concettualmente e
numericamente rilevanti, da quasi eguagliare quelle promulgate nel primo.
Ciononostante, è importante analizzare le motivazioni che hanno portato alla nascita del
d.d.a., per comprenderne meglio le implicazioni, le derive, i possibili futuri sviluppi.
1.1 L’invenzione della stampa e le prime tutele
Prima che il tedesco Johann Gutemberg, a cavallo del 1450, stampasse la sua famosa
Bibbia, i libri venivano prodotti per opera di amanuensi; il costo dei singoli esemplari
era molto alto e la loro diffusione estremamente limitata. Proprio la scarsa possibilità di
riproduzione e diffusione non fece avvertire la necessità di una tutela di tali opere
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.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili rese possibile la riproducibilità meccanica
delle opere letterarie, e quindi la produzione di molte copie di un testo in breve tempo
ed a costi relativamente contenuti.
Il successo della nuova tecnologia tipografica fu tale che, incredibilmente, nella sola
seconda metà del ‘400, furono stampate in Europa addirittura più di seimila opere ed il
numero dei tipografi aumentò, per i tempi, enormemente.
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Nel mondo antico greco-romano non erano previste particolari tutele giuridiche per le opere letterarie o,
più in generale, di quelle dell’intelletto; perciò non erano considerati illeciti la trascrittura e, con questa, le
probabili trasformazioni ed adattamenti del testo originale. Agli autori non veniva riconosciuto un diritto
patrimoniale sulle loro opere dato che, una volta divulgate, il corpus mysticus dell’opera, il testo, si
identificava con corpus mechanicus, cioè il sostrato materiale e, perciò, i diritti patrimoniali spettavano al
proprietario del manoscritto o a colui che lo aveva realizzato (finché questi non lo cedeva ad altri). Era
però riconosciuto, sia in Grecia, sia nell’antica Roma, il diritto dell’autore di non pubblicare l’opera,
potendo ricorrere all’actio furti qualora l’opera fosse stata trafugata, ed il diritto all’inedito, cui si
ricorreva tramite l’actio iniurarium aestimatoria: è celebre il caso del contenzioso che contrappose
Virgilio, che aveva composto il distico in onore di Cesare Augusto «divisum imperium cum Jove Caesar
habet», ed il giovane Batillo, che se ne era attribuito la paternità. Cfr. Roberto Barzanti, L’esperienza
europea: nuove vie della normazione, in Mauro Masi (a cura di), L’autore nella rete, Edizioni Angelo
Guerrini e Associati, Milano, 2000, pp. 88-90