4
INTRODUZIONE
L’attività bancaria si distingue dall’attività degli altri intermediari finanziari principalmente
per due caratteristiche: da un lato, parte rilevante delle sue passività ha natura monetaria ed è
normalmente accettata come mezzo di pagamento, dall’altro lato, l’attivo del suo bilancio è
costituito in gran parte da prestiti non liquidi. Quindi, le banche operano attraverso una
significativa trasformazione delle scadenze che potrebbe rendere difficoltoso onorare gli
impegni presi e garantire la liquidità anche alla classe più debole dei finanziatori, ovvero i
depositanti. Per questo motivo, e per l’importante ruolo che il comparto bancario ha acquisito
nel tempo all’interno del sistema finanziario, specialmente nei paesi bank-oriented come
l’Italia, si delineò la necessità di qualche forma di controllo pubblico sull’attività delle stesse.
L’idea di una regolamentazione finanziaria ha avuto sempre maggiore importanza dalla più
grave forma di fallimento di mercato del XX secolo, ovvero con la Grande crisi, da allora è
divenuta sempre meno plausibile la teoria liberista della “mano invisibile del mercato” e il
dibattito si è centrato sul quantum di regolamentazione e non sul se la regolamentazione fosse
opportuna. In particolare, all’interno della vigilanza bancaria vennero inizialmente enfatizzati
i “controlli strutturali” che caratterizzarono la Vigilanza strutturale, controlli che
rappresentano delle barriere all’entrata e che hanno avuto come risultato quello di ridurre le
spinte competitive di un settore che di per sé rappresenta una predisposizione naturale a
tenersi lontano dalle condizioni di concorrenza perfetta. Il quadro regolamentare uscito dalla
grande crisi si è profondamente modificato nel corso del tempo, così da sentire la necessità di
abbandonare i controlli ti tipo strutturale, il denominatore comune delle trasformazioni
normative che si sono succedute nel corso del tempo è stato lo sforzo di aumentare
progressivamente la concorrenza nel settore bancario. In uno scenario dominato dalla
liberalizzazione dei movimenti di capitale, dalla crescente integrazione fra mercati e
dall’aumento dei titoli detenuti dai risparmiatori si delineò un graduale abbandono dei
controlli strutturali per aumentare la concorrenza nei mercati ed adottare una vigilanza di tipo
prudenziale. Quest’ultima riguarda l’uso di strumenti di controllo dei rischi bancari. In questo
contesto l’ammontare di capitale detenuto è diventato il perno della disciplina comune degli
intermediari finanziari. A partire dagli anni ottanta il patrimonio costituisce il principale punto
5
di riferimento per le valutazioni dell’autorità di vigilanza ai fini della stabilità delle banche.
Su di esso è stato costruito il complesso di norme e regolamenti riconducibili all’attività del
Comitato di Basilea. L’obiettivo di questa regolamentazione sulle banche è quello di evitare o
diminuire l’effetto che eventuali crisi finanziarie potrebbero avere sul comparto bancario e
sull’economia in generale. Dal 1988 ad oggi numerose modifiche sono state apportate
sull’originario accordo sul capitale delle banche, sia per quanto riguarda la misurazione dei
rischi, sia per la stessa composizione del patrimonio. Ma nonostante la presenza di un sistema
di vigilanza prudenziale volto a correlare l’entità dei rischi con la dotazione patrimoniale, si è
dimostrato negli ultimi anni come le perdite potenziali, in presenza di scenari non previsti dai
modelli quantitativi di stima dei rischi, possano assumere un’entità tale da ridurre
notevolmente i buffer di capitale, anche in breve periodo. Infatti, la crisi finanziaria ha
ricordato l’importanza del patrimonio delle banche, come presidio a fronte delle perdite
inattese. Lungo l’evolversi della crisi, il patrimonio è stato soggetto di una continua attenzione
da parte del mercato e dalle autorità di vigilanza. Sotto questo punto di vista il ruolo del
capitale di vigilanza ha assunto una crescente rilevanza non solo a livello di supervisione delle
singole istituzioni, ma anche in una nuova prospettiva di macro-supervisione, ovvero a tutela
della stabilità finanziaria. Particolare attenzione è stata posta sui livelli di capitale, che seppur
rispettassero le normative di Basilea si sono rilevati, in diversi casi, inadeguati a fronte dei
rischi assunti dalle banche. La crisi finanziaria ha quindi suggerito che il capitale deve essere
valutato non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente.
Quindi, la crisi finanziaria del 2007 ha messo in luce alcune lacune del sistema di
regolamentazione basato sui coefficienti patrimoniali delle banche, tanto da richiedere
interventi volti ad una nuova regolamentazione. In questa sede non si vogliono esaminare le
cause della crisi, piuttosto si vorrebbero evidenziare le implicazioni della stessa sul capitale
delle banche. L’intento è quello di capire cosa potrebbe non aver funzionato nel ruolo di
protezione del capitale di vigilanza. Si vuole riflettere sul funzionamento del capitale
bancario, in particolare quello di vigilanza, e cercare di capire le misure recentemente
introdotte per fronteggiare le emergenze delineate e gettare le basi di un sistema finanziario
più robusto e resiliente. L’analisi verrà effettuata tenendo in considerazione anche che
nell’ultimo decennio vi è stata una profonda trasformazione dell’attività bancaria. Il modello
di business tradizionale, basato sulla relazione con la clientela è stato progressivamente
sostituito da un modello più standardizzato basato sulle relazioni impersonali. Questo
cambiamento ha generato una elevata finanziarizzazione dell’economia, con l’attività
bancaria sempre più dipendente dai mercati finanziari. Molte banche, infatti, sono passate da
6
un modello di intermediazione denominato “originate to hold”, caratterizzato dal
mantenimento degli attivi fino a scadenza, ad un modello chiamato “originate to distribuite”,
che usa l’innovativo strumento della cartolarizzazione per spostare gli attivi ad altri soggetti
del sistema finanziario, ma, come ha dimostrato la crisi, non spostando del tutto i rischi
relativi a tali attività, venendosi a formare il mito della shadow banking. Si ricordi che la crisi
finanziaria del 2007 ebbe inizio a causa dell’erogazione di prestiti di bassa qualità che sono
successivamente stati cartolarizzati. La crisi ha messo in chiara evidenza, come uno sviluppo
sostenuto della finanza se non accompagnato da una adeguata gestione dei rischi, finisca per
generare gravi disfunzioni nell’attività degli intermediari e dei mercati, con effetti disastrosi
sull’intera economia. Il tema dell’adeguatezza patrimoniale, quindi, è di particolare rilievo in
questo caso, su di esso si sono focalizzate l’attenzione di operatori, mercati e autorità.
Negli ultimi anni spesso si è sentito parlare della solidità del sistema bancario italiano e di
come abbia ben reagito alla crisi finanziaria. Per questo, nel lavoro presentato si cerca anche
di individuare le differenze di operatività tra le banche con sede in Italia e le principali banche
europee.
Il lavoro presentato è stato suddiviso in quattro capitoli. Nel primo capito si descrive la
peculiarità dell’attività bancaria e si tengono in considerazione le principali forme di capitale
che la banca detiene e le possibili relazioni tra esse. Nel secondo capitolo si considerano le
regole per la composizione del patrimonio di vigilanza analizzando anche le possibili forme di
capitale ibrido computabili nel patrimonio di vigilanza e si descrivono brevemente le diverse
regolamentazioni nazionali su queste tipologie di strumenti. Nel terzo capitolo si affronta
un’analisi empirica, inizialmente si analizzerà il patrimonio di vigilanza delle banche italiane
grazie ai dati presenti nella relazione annuale di Banca d’Italia. Inoltre si effettua un’analisi
del patrimonio di vigilanza delle principali banche italiane ed europee cercando di delinearne
le differenze. Nel quarto capitolo si considerano le nuove regole proposte dal Comitato di
Basilea che riguardano il rafforzamento del patrimonio bancario, studiando anche la
possibilità di introdurre misure di capitale contingente. Infine, si allegano i dati utilizzati per
l’analisi del terzo capitolo.
7
1
IL CAPITALE DEGLI INTERMEDIARI BANCARI:
UN’ANALISI DELLE DIVERSE CONFIGURAZIONI
1.1. L’attività bancaria
La banca è l’intermediario finanziario che storicamente ha assunto un ruolo di rilievo nel
sistema finanziario. L’intermediario bancario si caratterizza per due caratteristiche
fondamentali: da un lato parte rilevante delle sue passività ha natura monetaria ed è
normalmente accettata come mezzo di pagamento; dall’altro, l’attivo del suo bilancio è
costituito, in gran parte, da prestiti non liquidi. Le principali caratteristiche e funzioni
dell’attività bancaria sono:
Funzione monetaria: per il corretto funzionamento di tale caratteristica è necessaria la
fiducia che il pubblico pone sull’attività dell’intermediario bancario. Tale fiducia fa in
modo che vi sia una generale accettazione del debito bancario come mezzo di pagamento
e che il sistema predisponga una serie di procedure operative che rendano sicuro l’uso
della moneta bancaria. A questa specificità sono legati i controlli di politica monetaria, in
questo caso le banche rappresentano il canale di trasmissione verso l’economia reale.
Trasferimento delle risorse tra unità finali in surplus e deficit: questa è una attività
che viene svolta anche da altri intermediari finanziari oltre che dalle banche. L’utilità
principale di tale attività è quella di cercare di allocare le risorse nel miglior modo
possibile; gli intermediari finanziari, a differenza dei singoli prestatori di fondi, hanno
strutture, capacità e tecniche per valutare e/o controllare la redditività e la rischiosità di un
determinato investimento.
La funzione di trasferimento delle banche è singolare rispetto ad altri intermediari finanziari
perché si inseriscono nel circuito creditizio assumendo posizioni di negoziazione in proprio.
Inoltre, attuano una trasformazione delle scadenze e dei rischi grazie anche a speciali
metodologie per la valutazione e per il controllo del merito creditizio.
8
La trasformazione delle scadenze consiste nell’assumere posizioni nell’attivo e nel passivo
che implicano una trasformazione delle scadenze dal breve al medio-lungo periodo. Questo è
un aspetto cruciale dell’attività bancaria a cui si legano in particolar modo il rischio di tasso
d’interesse e il rischio di liquidità.
L’intermediario bancario svolge anche un’attività di selezione ex ante e di controllo ex post
sul merito creditizio della controparte.
La valutazione del “merito di credito”, cioè la stima della probabilità di rimborso, è uno degli
elementi cruciali dell’attività bancaria e dell’efficienza della stessa, sia in termini micro che
macro-economici. Nel mondo reale, in presenza di asimmetrie informative, il problema è
quello di individuare la relazione che consente di minimizzare i rischi di selezione avversa
(possibilità di non saper selezionare adeguatamente i clienti migliori) e di moral hazard
(possibilità che il debitore, dopo aver ottenuto il credito, ponga in essere comportamenti che
aumentino il rischio per la banca). Per minimizzare i problemi di selezione avversa e di moral
hazard, la banca pone in essere le azioni di “screening” e di “monitoring”. La prima azione
riguarda la valutazione iniziale del cliente e l’opportunità di concedere o meno il prestito, la
seconda svolge un’attività durante la vita del contratto che porta nuove informazioni
sull’andamento del debitore. Quindi l’intermediario bancario attraverso la sua capacità di
informazione e di valutazione riesce a discriminare la domanda di finanziamenti tra accettabili
o meno e riesce a sorvegliare i soggetti finanziari perché non tengano comportamenti di moral
hazard.
Trasformazione e gestione del rischio: per la gestione del passivo la diversificazione
delle posizioni rende stabile la disponibilità di fondi, dal lato dell’attivo, si verifica un
analogo vantaggio di diversificazione che permette di rendere accettabile il rischio di
portafoglio pur con singoli prestiti caratterizzati da elevata incertezza.
Nonostante le profonde innovazioni susseguite nel tempo si può dire che le caratteristiche
sopra delineate colgono ancora l’unicità economica della banca rispetto agli altri intermediari
finanziari.
Per quanto riguarda la definizione giuridica di banca non si fa riferimento alla funzione
monetaria della stessa ma al contemporaneo esercizio di attività di raccolta di risparmio e di
erogazione dei prestiti. Nell’ordinamento europeo, fin dalla prima direttiva in materia
bancaria del 1977 si definisce come banca un’istituzione che eroga credito e raccoglie depositi
presso il pubblico. Nel nostro ordinamento l’attività bancaria è regolato dal T.U.B. (D.lgs n°
385 del 1993), il quale riprende le definizioni principali del contesto europeo.
9
L’art. 10 (Attività bancaria) del T.U.B. recita: 1) la raccolta di risparmio tra il pubblico e
l’esercizio del credito costituiscono attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa; 2)
l’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche; 3) le banche esercitano, oltre
all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna,
nonché connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge.
Per quanto riguarda la raccolta del risparmio l’art. 11 del T.U.B. recita: 1) Ai fini del presente
decreto legislativo è raccolta del risparmio l'acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia
sotto forma di depositi sia sotto altra forma.
Innanzi tutto bisogna sottolineare la duplice riserva di attività bancarie: quella dell’esercizio
dell’attività bancaria e quello della raccolta del risparmio fra il pubblico. La banca, quindi, è
definita dall’esercizio congiunto della raccolta dei fondi e dell’impiego in prestiti. In seguito
va affermato il carattere d’impresa enunciato dall’art.10. Si tratta di una dichiarazione di
principio che trova la sua giustificazione nel fatto che fino all’inizio degli anni Novanta le
banche italiane erano di proprietà pubblica, molte sotto forma di ente pubblico. Si era diffusa
la convinzione che questi intermediari bancari dovessero proseguire fini più ampi rispetto a
quelli aziendali, in particolare fini sociali spesso in conflitto con l’equilibrio economico e
patrimoniale. La legge del 1990 (c.d. legge Amato) ha aperto la strada alle privatizzazione del
sistema bancario, imponendo a tutte le banche pubbliche il modello di società per azioni e
successivamente distinguendo l’istituto pubblico di origine dall’azienda bancaria.
Dal tipo di servizi offerti, che riguardano qualsiasi servizio finanziario, l’intermediario
bancario è chiamato banca universale.
Per quanto riguarda il modo di operare delle banche, fino all’inizio degli anni Novanta la
banca tradizionale poteva essere denominata originate-to-hold. Infatti, non essendo ancora
sperimentate forme di cartolarizzazione dei prestiti, si registrava la permanenza degli
impieghi nell’attivo dell’intermediario fino alla loro scadenza. La portata delle innovazioni
che si sono rapidamente diffuse in materia di prodotti finanziari hanno dato luogo al modello
originate-to-distribuite (ovvero originate, re-package and sell) ove le banche trasformano i
presiti erogati con determinate caratteristiche in strumenti finanziari chiamati Asset Backed
Securities (ABS) da collocare sui mercati, e cioè presso altre imprese finanziarie (fondi
comuni di investimento, fondi pensione, hedge fund, ecc..), ma il cui destinatario finale resta
sempre il pubblico, ovvero le famiglie. Quindi tramite l’attività di cartolarizzazione le attività
detenute dalla banca divengono liquide per l’originator, grazie alla vendite di queste tramite
società veicolo (Special Purpose Vehicle, Spv), ad altri intermediari che ne assumono i rischi
collegati. Questi ultimi, a loro volta, assemblano queste attività in portafogli titoli e
10
trasferiscono rischi (di credito e di liquidità) al mercato, ovvero ai consumatori finali che sono
impreparati a fronteggiare tali rischi. L’originator grazie alle operazioni di cartolarizzazione
non solo ci guadagna in termini di liquidità, ma ha anche il vantaggio di poter ricomporre
sistematicamente il proprio attivo con combinazioni di rischio-rendimento maggiormente
adeguate alle nuove situazioni. Ovviamente grazie al modello originate-to-distribuite le
banche hanno la possibilità di aumentare notevolmente il loro ciclo d’affari potendo
impiegare la stessa quantità di fondi più volte, rispetto a quanto avrebbero potuto fare
mantenendo nel proprio attivo i crediti erogati fino alla scadenza. Per cui si hanno maggiori
profitti, impiegando in un anno, per esempio, un volume di risorse che altrimenti si sarebbero
potute impiegare in un lasso di tempo notevolmente maggiore.
Inoltre, una banca soggetta ai requisiti minimi patrimoniali per il rischio di credito può
rendere meno oneroso il vincolo patrimoniale perché ogni volta che è in grado di cedere rischi
di credito di un determinato livello per acquisirne altri di livello inferiore “libera” mezzi
propri regolamentari. A parità di mezzi propri, la banca è in grado di aumentare i propri
volumi d’affari con favorevoli ripercussioni sulla gestione dei costi, dei ricavi e degli utili, in
forza della dispersione del mercato dei rischi assunti. Gli investitori, dall’altra parte, hanno la
possibilità di diversificare i propri investimenti, potendo così adeguare i portafogli detenuti
alle rispettive combinazioni di rischio-rendimento. L’evidente elasticità che se ne ricava non
può che rappresentare un elemento positivo per gli intermediari che percorrono questa strada
al fine di distribuire i rischi su scala globale. Il modello OTD, se accompagnato da adeguati
sistemi di analisi e di gestione del rischio da parte degli intermediari offre una serie di
benefici ai soggetti che fanno parte della filiera.
Negli ultimi anni questo schema sembra essersi indebolito a causa di motivazioni di difficile
identificazione, tra cui l’eccessiva semplificazione nella misurazione dei rischi, elevati volumi
di attività finanziarie impiegate nella ricerca di profitti, complessità degli strumenti finanziari
strutturati, ecc. Nel tempo, infatti, la complessità delle operazioni e degli strumenti è
progressivamente aumentata, accompagnandosi ad una riduzione del grado di accettabilità
degli standard di credito per alcune classi di attività, come ad esempio una particolare
categoria di mutui ipotecari statunitensi: i sub-prime. Si può dire che il modello OTD è stato
talmente sfruttato negli ultimi anni da far conoscere quali sono i suoi possibili limiti. La crisi
del 2007, il suo propagarsi e la sua estensione nel 2008 ha palesato eccessi nel ricorso al
modello OTD. Infatti resta la constatazione che oggi si ritiene che la pratica delle
cartolarizzazioni andrebbe ridimensionata, oltre che accompagnata da una maggiore
attenzione sui controlli per la concessione dei prestiti e sugli effettivi livelli di rischio assunti.