intenso. Le immigrazioni dall’Est europeo, da alcune regioni dell’Africa e più
recentemente di alcune popolazioni curde, che interessano in modo particolare
l’Italia sono ormai divenute fenomeni sociali di grande importanza. La convivenza
sempre più stretta nel nostro paese deve tener conto di alcune caratteristiche
peculiari del “nostro” caso -l’Italia si presenta come una nazione a carattere
prevalentemente monoculturale religioso, linguistico, di costume nonché un paese
prevalentemente formato da gente bianca-, rispetto ad altri stati dell’Europa,
abituati a fronteggiare questa convivenza di pluralismi. L’Italia si è trasformata in
alcune decine di anni da paese di emigrazioni a paese d’immigrazioni.
Nelle società moderne dunque il contatto con altre popolazioni è sempre
più frequente e continuo, ma spesso non si è preparati a comprendere il senso di
tali culture e di siffatte tradizioni. Questo è solo un problema di non– conoscenza,
di non- preparazione?
L’incontro con altre culture diverse dalla propria potrebbe essere un
momento ricco d'opportunità. Opportunità che vanno dall’estensione della
propria identità, del singolo io, fino alla compenetrazione dell’identità altrui.
Invece del diffondersi di una cultura della convivenza e della tolleranza, la
vicinanza con l’altro fa emergere settarismi ed infondate paure.
Sta di fatto che l’incontro con altre culture è disorientante, non solo perché
ci si pone in diretto contatto con ciò che non è noto e familiare, ma anche per la
difficoltà di comprendere quell’estensione della propria identità, che il contatto
con l’altro fa emergere. Rispettare la cultura altrui non è naturale, occorre uno
sguardo critico attraverso il quale guardare e guardarsi. Una capacità di porsi in
discussione e porre in discussione la propria cultura, pensandola una delle culture
tra le altre e non “la cultura” assoluta ed unica (Vettorato, G., 1996, pp.495/512).
Una delle difficoltà con le quali l’individuo viene a contatto quando osserva
gli altri e se stesso sono i propri pregiudizi. Questi giudizi errati che di fronte a
fatti evidenti ne invalidano le stesse basi, rimangono tenacemente saldi alle
convinzioni, alle credenze, agli stereotipi di cui si nutrono e vivono. In un mondo
che è sempre più “costretto” a convivere con tradizioni e valori diversi e distanti
tra loro, nasce e si sviluppa maggiormente lo stimolo e la necessità di spiegare, o
tentare semplicemente di capire, il pregiudizio.
Il nostro studio si focalizza su di un gruppo particolare e cioè gli Ebrei. Gli
Ebrei, un popolo senza terra, almeno fino a qualche decennio fa, un popolo nel
popolo, senza particolari segni di riconoscimento. Con una cultura ed una
religione che saranno tra gli stimoli più importanti per la nascita dell’occidente, ma
che proprio in quel patrimonio di conoscenze strettamente occidentale troverà il
suo maggior “nemico” (Campelli, E., Cipollini, R., 1984, p.10).
Abbiamo analizzato più da vicino il pregiudizio antisemitico, per alcune
ragioni di carattere storico e culturale, e per alcune ragioni che riguardano le
caratteristiche soggettive ed oggettive degli Ebrei. Le ragioni di carattere storico-
culturale riguardano la tendenza a sottovalutare una parte della nostra storia che,
ci ha veduto protagonisti della promulgazione delle leggi razziali nel 1938 nei
confronti degli Ebrei e non meno importante la presenza costante in questi ultimi
anni d’episodi più o meno gravi d’intolleranza nei loro confronti (riguardo anche
ad altre minoranze). Le ragioni soggettive-oggettive del gruppo Ebrei è che questi
rappresentano il popolo più cosmopolita che si conosca a causa della propria
storia millenaria di convivenza ed integrazione in altri popoli; malgrado ciò il
pregiudizio nei loro confronti è sempre esistito, e la ragione traspare a nostro
avviso dalle parole di Sartre (1954) “L’antisemitismo non è una semplice opinione, appare
più come una passione, un sentimento di odio, che nasce al di la di ogni possibile frequentazione,
dell’esperienza stessa, non è, infatti, attraverso l’esperienza che nasce l’idea dell’Ebreo, ma è
l’idea stessa che chiarisce e da modo di interpretare l’esperienza Ebreo” (Sartre, J., P., 1954,
p.23).
L’antisemitismo ha provocato e continua a provocare effetti che si diramano
in due opposte direzioni, la prima verso l’Ebreo che è costretto ad un'incessante
rivalutazione del proprio io e della propria identità. Gli Ebrei dopo la guerra,
dopo la Shoah sono costretti ad una “Revisione unica del principio stesso
d’identità” (Meghnagi, D., 1997) e quindi a nascondere o scoprire, secondo un
percorso del tutto personale, la propria cultura, le proprie radici, la propria
religione. La seconda direzione che intravediamo riguarda il resto degli uomini e
delle donne non Ebrei che continuano a chiedersi ed a riflettere su come può un
pregiudizio provocare la morte di milioni d’uomini, donne e bambini, in nome
della difesa della razza (Meghnagi, D., 1997).
Gli Ebrei sono oggetti di pregiudizi in un intervallo di tempo quasi
indefinibile. Odio e persecuzioni caratterizzano la loro storia insieme con un altro
aspetto che è ormai parte integrante della loro cultura: la dispersione di questo
popolo in ogni territorio del globo.
L’origine di quest'avversione è senza dubbio religiosa, ma è un’ostilità che
permane e si evolve anche quando la società si laicizza, quando la modernità e la
scientificità fanno il loro ingresso nella nostra cultura. Da una parte si va
affermando l’uguaglianza degli uomini, dall’altra s'impone la scientificità della
razza con tutte le sue conseguenze storiche ed umane. Il pregiudizio in generale, e
quello antisemitico in particolare, hanno una resistenza che stupisce; nonostante il
progredire delle scienze e del “vivere civile” essi si riproducono, si sviluppano, si
ampliano e soprattutto sembrano adattarsi di volta in volta alle nuove condizioni
sociali.
Crediamo per queste ragioni che l’antisemitismo rappresenti uno dei
pregiudizi per eccellenza, e pertanto attraverso la storia di questo popolo si può
cogliere anche la storia del pregiudizio stesso. Il pregiudizio antisemita non si
discosta dagli altri preconcetti, in modo particolare, anzi spesso convive con
questi in forme strutturate, in semplificazioni della selettività umana, ma è
sicuramente uno dei pregiudizi più persistenti di cui si ha conoscenza.
1.Cenni Storici.
1.1.Gli Ebrei, popolo, razza o religione.
Il pregiudizio antiebraico, che copre un arco di circa 2000 anni, rilevandosi
in culture ed epoche molto distanti tra loro, mostra nel corso del tempo
somiglianze non indifferenti. Un tale fenomeno non può essere descritto
unicamente in relazione ad eventi singoli o a ragioni specifiche, è comprensibile
attraverso uno sguardo multiplo, che analizza specificità storiche, culturali e
psicosociali.
Il problema dell’antisemitismo sembra sfuggire alle categorie che
normalmente interpretano il pregiudizio, lungi dall’esaurirsi come una condizione
di patologia individuale; le sue caratteristiche appaiono invece rinviare ad una
“normalità” storica particolare della cultura occidentale. E’ un pregiudizio che
convive nell'esperienza quotidiana senza grandi conflitti, accettato in un insieme
d'immagini tradizionali e socialmente ammesse e trasmesse (Campelli, E.,
Cipollini, R., 1984, p.10).
Il pregiudizio antiebraico si è avvalorato, secondo il momento storico, di
differenti motivazioni per sostenere le proprie discriminazioni ed aggressioni:
l’Ebreo come religione, l’Ebreo come razza, l’Ebreo come nazione.
Chi è veramente Ebreo? E che cosa significa essere Ebreo?
Secondo la tradizione ebraica, per essere Ebrei esistono due strade: nascere
da madre ebrea oppure convertirsi alla religione ebraica e seguirne i precetti, da
una parte un dato di fatto oggettivo e dall’altra una scelta personale, soggettiva.
L’Ebreo non è quindi una razza, come spesso è stato definito, ma un'identità
culturale e religiosa con tradizioni specifiche, che si delineano mediante una
componente collettiva, attraverso una serie determinata d'avvenimenti storici (P.
Stefani, 1997, p.12).
Ciò che ha caratterizzato maggiormente gli Ebrei e la loro storia è l’assenza
millenaria di una patria dove radicare le proprie tradizioni e la caratteristica
cultura. Si teme lo straniero, ma si ha maggiore timore ancor di più quando si
pensa non provenire da nessun luogo. Una delle accuse mosse verso gli Ebrei
dagli antisemiti è di dissimulare la propria appartenenza, la propria identità,
nascondendosi tra gli altri. Al pari l’altra accusa è quella che vede gli Ebrei come
coloro che ostinatamente non abbandonano le loro pratiche religiose, di non
assimilarsi agli altri ritenendosi superiori e detentori di verità divina (Voghera, G.,
L., 1994, p. 35). Questi due pregiudizi si annullano l’uno con l’altro eppure hanno
convissuto e convivono tuttora senza il minimo dubbio nei loro sostenitori,
evidenziando la prevalenza della funzionalità intrapsichica delle valenze ostili
verso l’ebreo sul generale bisogno di congruenza-razionale tra credenze pertinenti.
La storia ebraica è un avvenimento millenario che per circa due terzi si è
svolta in assenza di un'istituzione politicamente riconosciuta, ed è caratterizzata da
una gran dispersione demografica (Voghera, G., L., 1994, p.12.). Proprio nella
diaspora - nella dispersione degli Ebrei presso altri popoli - va letta l’identità
ebraica. Un'identità che, non potendosi riconoscere e farsi riconoscere in un
territorio, in una nazione, si è saldata attraverso una serie di precetti sociali, civili,
religiosi e penali, contenuti nella Toràh -la legge- dove gli Ebrei si sono legati
facendone un continuo rimando e riferimento.
La difficoltà che la gente comune trova nel definire gli Ebrei, ha portato a
diffidenze e falsi giudizi; alla domanda “chi è l’Ebreo” -una religione, una razza,
un popolo?- corrisponde una difficoltà di collocazione spesso dovuta ad
un'insufficienza di notizie, o ad indicazioni stereotipate o addirittura false. La
complessità della realtà ebraica ha comportato un utilizzo -improprio o accurato-
di questa difficoltà, facendo ricorso a pregiudizi, discriminazioni, aggressioni
(Stefani, P., 1997, pp.17/22) fino a conseguenze estreme come quella della Shoah.
L’Ebreo si riconosce e modula il suo comportamento in relazione a tre
ambiti: “La Toràh”, “il popolo” e “la terra d’Israele”, che corrispondono a
significati religiosi, d'identità culturale, e socio-politici. Nel tempo il popolo
ebraico si è definito in queste tre grandi aree, e non è casuale che nei secoli
proprio mediante questi ambiti si sia sviluppata l’avversione verso gli Ebrei
(Stefani, P., 1997). L’antigiudaismo, l’antisemitismo e l’antisionismo altro non
sono che avversioni contro “la religione”, contro “il popolo” e contro “la terra”.
La sproporzione fra quantità -gli Ebrei sono oggi soli quattordici milioni nel
mondo e la loro presenza in Italia è meno di quarantamila unità- e la dimensione
qualitativa, non fa che aumentare l’interesse scientifico intorno alle discrimina-
zioni e ai pregiudizi di cui sono oggetto. L’avversione, la diffidenza, l’odio verso
gli Ebrei ha dato origine a molte interpretazioni, specie in tempi recenti.
Fra ebrei e cattolici duemila anni di bisticci. Per che cosa sostanzialmente?
Per la questione del Messia. Ma in fondo che differenza c’è tra ebrei e cattolici?
I cattolici sono degli ebrei impazienti. Volevano il Messia e l’hanno fatto venire.
E adesso come stiamo? Più o meno alla pari. Gli ebrei aspettano l’arrivo del
Messia per la prima volta. I cattolici in qualche misura ne attendono il suo
ritorno. Ma ne valeva la pena?
Moni Ovadia 1998
1.2.L’antigiudaismo. Dal 70 al 1789.
Léon Poliakov (1955) descrive nella sua storia dell’antisemitismo come,
contemporaneamente agli insediamenti ebraici a noi più vicini e conosciuti, ve ne
furono altri in Mesopotamia, in India e probabilmente anche in Giappone.
Stanziamenti che si sono andati stabilendo senza la presenza d'episodi drammatici
ai quali noi solitamente facciamo riferimento parlando degli Ebrei. Gli Ebrei non
occidentali erano dunque un gruppo fra i tanti, senza episodi di caratteristica
rilevanza, senza particolare ostilità.
Nell’antichità pre-cristiana sembra non esserci notizia d'atteggiamenti
collettivi contro gli Ebrei se non in maniera sporadica; i conflitti che talora
nascevano nei loro confronti avevano in comune motivazione simile agli altri
popoli.
Una prima discriminazione collettiva nei riguardi di questo popolo è
testimoniata in un libro di un grammatico e retore greco - egiziano, Apione. Nel
III volume delle sue Aegyptiaca opera giunta a noi mediante lo storico ebreo-
romano Flavio Giuseppe, gli ebrei sono descritti come la parte impura dell’egiziano, il
malato, la tara fisica e mentale. L'Ebreo, sempre nella descrizione di Apione, è
cacciato dall’Egitto e costretto ad attraversare il deserto perché rappresenta il
negativo, ed è così che ha origine il mito della nascita d'Israele (Campelli, E.,
Cipollini, R., 1984 pp.25/27).
Apione rimane un caso isolato; anche altri popoli erano oggetto d'accuse
reciproche d'atrocità ed immoralità dovute a processi di difesa e protezione, alla
non conoscenza, alla figura ostile dello straniero, di chi è fuori della propria
comunità, poiché la distinzione, in fondo, è liberatoria: “L'altro” è in ogni modo il
male, il “Noi” è il bene.
Il problema da focalizzare è quello di comprendere come mai i miti, i
pregiudizi su gli Ebrei siano restati e si siano consolidati così fortemente solo nella
cultura e nella tradizione occidentale, fino a giungere alle estreme conseguenze
della Shoah. L’ipotesi è che alcune caratteristiche storiche e culturali hanno reso
possibile il consolidamento di stereotipi e pregiudizi antiebraici.
Dopo la distruzione del secondo Tempio nel 70 d.C. per mano delle legioni
romane, a Gerusalemme inizia la dispersione degli Ebrei, la Diaspora, ed è
probabilmente in questa condizione storica che si può far risalire una delle cause
del pregiudizio anti ebraico. Gli Ebrei monoteisti si distinguono in maggior
misura dagli altri popoli politeisti per la loro ortodossia, per il loro forte legame
alle tradizioni, ai riti, alla religione, vivendoli nella quotidianità. Cosi l’Ebreo
presso altri popoli sarà caratterizzato dal suo particolarismo, ma paradossalmente
vivrà e si realizzerà attraverso un universalismo cosmopolita (Saccardi, S., 1997,
pp.16/25).
Nell’Impero Romano, al tempo di Augusto, l’insediamento ebraico a Roma
era circa dieci volte maggiore di quanto non sia oggi. Gli Ebrei vivevano
esercitando ogni sorta di mestiere, separati da un punto di vista religioso, con i
loro riti e con le loro norme alimentari. Essi appartenevano ad un popolo vinto
ma non per questo assoggettato ai romani, vi erano numerose complicazioni e
incomprensioni a causa di principi religiosi e morali opposti. Non si hanno però
notizie di fratture o d'ostilità particolari, il nazionalismo romano “colpiva” tutte le
minoranze che affluivano nel proprio Impero, senza distinzioni, gli Ebrei
vivevano in condizioni analoghe ad altri popoli vinti. Alcune accuse antigiudaiche
di cui si trova traccia storica sono giudizi individuali ai quali manca la diffusione di
massa.
I rapporti fra gli Ebrei ed i Cristiani in Palestina, nei primi anni dell’Impero
Romano, non furono inizialmente conflittuali; canoni e condotte della vita d'ogni
giorno seguivano medesimi percorsi. Il pensiero di Gesù affidato all’oralità non
aveva nulla d'estraneo alla concezione ebraica. “Ciò che non desideri per te, non fare al
tuo prossimo” è l’insegnamento di Hillel il Vecchio, che si trova nella Toràh, la legge
ebraica; così come lo stesso precetto s'incontra nei Vangeli in una formula
positiva “Fai ciò che desideri per te al tuo prossimo” (Campelli, E., Cipollini, R., 1984
p.32).
Solo dopo il IV secolo, quando il Cristianesimo diviene la religione ufficiale
dell’Impero Romano, la distinzione fra Giudei e Cristiani è sottolineata, vennero
imposte restrizioni e limitazioni alla libertà religiosa e civile degli ebrei che ebbero
una prima sistemazione legislativa nel codice pubblicato da Teodosio II nel 438 e
successivamente vennero aggravate dal codice di Giustiniano nel 529 ( AA.VV.
,1998, p.34).
La Chiesa assume una posizione di forza politica notevole e gli Ebrei,
tenacemente legati alle proprie tradizioni, diventano maggiormente visibili. Nasce
così nella Chiesa il bisogno di una maggiore distinzione, che porterà alla nascita di
conflitti e tensioni.
Il Giudaismo fu dichiarato l’unica “religio licita” non cristiana, in altre
parole la sola religione ammessa nell’Impero Romano, i diversi culti e credenze
furono tutti banditi ed i templi chiusi. Al popolo fu sottratta la maggior parte dei
propri culti così in molti, indifferentemente, si recavano sia alla Sinagoga sia in
Chiesa; la diversificazione non era ancora così evidente e troppe cose in comune
si evidenziavano fra le due religioni. Nella prima comunità cristiana si crea quindi
una transizione con gli Ebrei, i rapporti erano di continuità e non di scontro
(Campelli, E., Cipollini, R., 1984, p.31). Però la derivazione dallo stesso ceppo
doveva essere dimenticata, si era costretti a recidere il legame, poiché gli Ebrei,
non accettando in Gesù la figura del Messia, negavano la validità e la verità del
Nuovo Testamento, il fondamento della Chiesa Cristiana.
Il Cristianesimo sembrava trovarsi in un paradosso, poiché gli insegnamenti
ebraici non potevano essere rifiutati senza smentire se stessi. Nasce il bisogno di
un addottrinamento sistematico, mediante decreti e conversioni forzate, bisognava
interrompere il legame con i “fratelli maggiori”, allontanarsi per affermare con più
vigore la propria verità, l'esclusiva assoluta universalità. La prima forma di
giudizio negativo “istituzionalizzata” nei confronti degli Ebrei ha dunque origini
religiose. Ma le cause dell’azione antiebraica cristiana, oltre ad un'origine religiosa,
sono di natura politico–sociale ed ideologica, giacché la Chiesa si affermava come
un potente polo decisionale.
Il mito del deicidio, è denso d'incongruenze e d'inesattezze, la condanna fu
pronunciata da un magistrato Romano, eseguita da soldati romani, con un
supplizio tipicamente romano (Piperno, R., 1964), anche se richiesta dal Sinedrio e
conseguentemente dal popolo da esso controllato. L’autorità romana non può
essere interpretata come semplice esecutrice della volontà della classe dirigente
ebraica, Gesù è probabilmente condannato per ragioni politiche, ragioni del volere
dell’establishment romano ed ebraico. Mediante una trasposizione si accusano gli
Ebrei dell’uccisione di Cristo scagionando così i romani.
I Cristiani trovano nell’Ebreo nell’arco dei secoli, il loro principale “capro
espiatorio” la “mitologia negativa” cui attingere, quel popolo al quale imputare il
tradimento e l’accusa di deicidio. Inizia, così, il lungo percorso di questo popolo.
L’uccisione di Cristo è così proiettata privandola di ogni spiegazione temporale e
razionale verso chi non riconosce la verità, coloro che si ostinano nella loro
ortodossia, l’Ebreo va odiato e colpevolizzato. Gli Ebrei sono così trasformati,
nei secoli, attraverso continue e sapienti omelie dei Padri della Chiesa, nella
mitologia negativa del Cristianesimo. La terribile accusa di deicidio ritornerà ogni
volta con ossessiva e martellante costanza in tutta la storia dei rapporti fra
Cristianesimo e gli Ebrei. La preghiera “Pro perfidis Judaeis” è stata, fino al 1959 –
anno in cui fu abolita per volontà di papa Giovanni XXIII- per quasi mille e
duecento anni ininterrottamente parte integrante della funzione liturgica del
Venerdì Santo.
Gli Ebrei, per i Cristiani, continuavano però ad essere il Popolo Eletto,
poiché Dio non altera i suoi progetti. S. Agostino li definisce così: ”Gli Ebrei sono i
nostri inservienti di biblioteca, ci portano i libri, la cui lettura ci può arrecare un beneficio”. Essi
attraverso la loro miseria, con la distruzione del Tempio e la Diaspora, sono i
testimoni della volontà di Dio e della fede cristiana. Sono testimoni di chi non si
converte e soffre a causa di ciò, quindi devono rimanere in vita com’esempio
vivente.
La colpa degli Ebrei come popolo deicida è ripetuta, senza mai diminuire di
vigore, per secoli nelle omelie, nelle agiografie, nei catechismi, ampliata e
sostenuta in migliaia di scritti, descritta nei drammi, rappresentata, ritualizzata.
Anche se nella quotidianità Ebrei e Cristiani continuano a vivere pacificamente
insieme, giorno dopo giorno l’immagine negativa si è andata fissando
nell’immaginario collettivo, “educando” centinaia di generazioni. Diffusa attraverso
mille diversi modi, ha coinvolto ogni strato del popolo cristiano, fissandosi con
forza incredibile nel profondo della cultura occidentale. Il “deicidio”, imputato
agli Ebrei, non è quindi un'astratta e lontana immagine teologica, ma un racconto
vivo e ripetuto all’infinito dall’infanzia in poi, per essere ravvivato ogni volta
attraverso infiniti canali che invadono in modo quasi diretto l’individuo (Finzi, R.,
1997, p.13). L’Ebreo è diverso non tanto per avere un differente Dio, ma per aver
ucciso Dio.
Il mito ha bisogno di continui rinforzi e così, nel susseguirsi dei secoli,
l’Ebreo sarà di volta in volta il protagonista di diversi stereotipi. L’Ebreo è
indicato come l’Anticristo, il figlio del diavolo; S. Tommaso, S. Vincenzo Ferrer,
Bernardino da Feltre o S. Giovanni da Capistrano, sono solo alcuni dei personaggi
che nelle loro diserzioni attestano santità e autorità al mito. L’Ebreo deicida, Ebreo
giuda, Ebreo diavolo: il cristianesimo ha inventato il suo “altro”. L’altro è
semplicemente il male. Gli Ebrei rifiutano la salvezza offerta dai Cristiani; ed il
loro rifiuto mette in crisi, installa il dubbio, e l'incertezza è il male.
L’intolleranza si manifesta attraverso iniziative di proibizione, d'esclusione,
di persecuzione. Nell’epoca Medioevale, dove sono poste le basi dei valori e dei
comportamenti occidentali, è anche uno dei periodi dove il cristianesimo acquista
una sua salda struttura sociale e politica. Il mondo cristiano, che si va formando
ed organizzando, ha vivo il ricordo dei propri martiri uccisi dai pagani, malgrado
ciò i Cristiani applicheranno lo stesso trattamento subito a chi pratica culti diversi
dal proprio: Ebrei, Eretici, Musulmani. Verso l’820, alcuni nuclei ebraici ottennero
da Ludovico il Pio una specie di passaporto che li proteggeva, ma vi erano elencati
anche i doveri che li legavano ai propri protettori.
Dal XI al XIV secolo, il mondo Cristiano acquista sempre più potere
attraverso una forte spinta demografica, economica, militare, politica, e si affianca
alle grandi potenze, trasformandosi sempre di più in una società di persecutori.
Gli Ebrei ed i Musulmani sono il principale oggetto di tali persecuzioni.
Nelle terre poste sotto il dominio arabo-islamico, gli Ebrei convivono in
un'atmosfera di relativa libertà e prosperità, la Spagna in modo particolare si
caratterizza fra l’undicesimo e il quindicesimo secolo come luogo di cultura del
pensiero ebraico. Una tranquillità che non poteva perdurare, l’evento che porterà
un notevole cambiamento nella vita degli Ebrei fu la conquista dei Cristiani su i
mussulmani nella terra di Spagna, la cristianizzazione dell’Europa e l'espugnazione
della Terra Santa erano iniziate.