5
INTRODUZIONE
“La politica estera americana sta diventando particolarista e sempre più volta a
promuovere all’ estero interessi specificatamente commerciali ed etnici. (…) Le
istituzioni e le risorse politiche, militari, economiche e di intelligence, create durante la
Guerra Fredda per essere al servizio di un grande fine nazionale, sono ora reindirizzate a
servire fini subnazionali, transnazionali e perfino a-nazionali. Sempre più persone
sostengono che non sono questi gli interessi che la politica estera americana dovrebbe
servire (…) Gli Stati Uniti sono diventati sempre meno un attore e sempre più
un’arena.
1
”
In questo modo, otto anni dopo la caduta del muro di Berlino, Samuel P. Huntington,
uno degli studiosi di Relazioni Internazionali più importanti della nostra epoca,
esprimeva la preoccupazione, condivisa da molti, per l’aumento dell’interferenza dei
gruppi etnici nella politica estera americana. Infatti il venir meno della minaccia
sovietica e delle costrizioni strategiche da essa determinate ha prodotto, in modo
abbastanza prevedibile, un aumento dell’ importanza dei fattori interni nell’
elaborazione e dell’ implementazione della politica estera americana e, tra questi, grazie
ad un aumento dell’ immigrazione e al diffondersi di dottrine multiculturaliste, un ruolo
rilevante lo ricoprono i gruppi di pressioni etnici che, a detta di molti, sono diventati
così influenti da dettare l’agenda di Washington in campo internazionale.
Questo fenomeno ha prodotto un vivace dibattito fra gli studiosi fra chi vede la
partecipazione delle lobbies etniche al processo di foreign policy making come un
segno della raggiunta maturità di un sistema politico, quello americano, che per secoli
aveva escluso le minoranze etniche dal processo di elaborazione delle decisioni e chi
invece guarda con preoccupazione a quella che sembra oramai una “domecistizzazione”
della politica estera che rende gli Stati Uniti sempre più incapaci di sganciarsi dalle
pressioni di gruppi interni e quindi di promuovere un’ azione internazionale che sia
espressione degli interessi dell’intera nazione e non di realtà particolaristiche.
Questo tema, sebbene sia poco studiato nel nostro paese, è molto rilevante per varie
ragioni. Innanzitutto perché, nonostante il dibattito sul ruolo dei gruppi etnici nella
politica estera americana abbia assunto dei toni accesi solo con la fine della Guerra
1
Huntington S.P. (1997), The erosion of American national interest, Foreign Affairs, 76:2.
6
Fredda, questa è una questione per nulla recente anzi possiamo dire che risalga al
momento fondativo stesso degli Stati Uniti. Infatti, dato che la nazione americana è
nata come una nazione di immigrati provenienti da vari paesi, ci si è sempre chiesti
quale dovesse essere il ruolo dei gruppi etnici minoritari nel processo di formulazione
delle decisioni in politica estera e in particolar modo quale dovesse essere il limite che
non potesse essere valicato affinchè tali pressioni potessero essere giudicate come
legittime. Il timore che minoranze etniche , che a prima vista sembrano ben assimilate
alla cultura americana, potessero agire come “agenti di paesi stranieri” è infatti presente
in tutta la storia degli Stati Uniti e non solo da quando è venuta meno quella minaccia
esterna che ha reso più incerta la direzione che l’azione americana dovrebbe avere nell’
arena internazionale.
In secondo luogo questo argomento è di grande interesse perché ci porta a discutere di
questioni che sono centrali nello studio della politica estera di uno stato. Infatti l’analisi
sull’ opportunità o meno che tali gruppi influenzino la politica estera ci spinge a
domandarci se le loro azioni siano dannose o benefiche, cioè, in altre parole, se
danneggiano o se invece recano vantaggi all’interesse nazionale americano. Pertanto
questo ci induce a domandarci quale è o quale debba essere l’interesse nazionale
americano, tema fondamentale dell’Analisi della politica estera. Ma poiché l’interesse
nazionale è il prodotto dell’identità di una nazione, dobbiamo interrogarci anche su
quale sia l’ identità nazionale americana, altro leit motiv da sempre presente nella storia
degli Stati Uniti che, ancora oggi, non sono giunti ad una enunciazione univoca e
soprattutto condivisa della loro identità che da sempre oscilla tra una definizione
pluralista, di chi considera gli Stati Uniti un mosaico di culture diverse unite solo dalla
fede nei valori civici americani e una unitaria, di chi invece ritiene la nazione americana
il prodotto di un’unica cultura, quella anglosassone.
Infine domandarsi se è desiderabile che i gruppi etnici influenzino la politica estera di
uno stato ci permette di addentrarci in quella che è la domanda di base dell’Analisi
della politica estera: chi o che cosa determina o dovrebbe determinare la politica estera
di uno stato? Tale questione ci spinge in particolare a chiederci se gli stati, quando
elaborano la loro condotta nell’ arena internazionale, debbano conformarsi alle pressioni
del sistema internazionale o debbano principalmente rispondere a quelle che sono le
spinte interne al loro sistema politico o comunque come si combinano le determinanti
7
sistemiche e quelle riduzionistiche. Questa domanda assume nel caso degli Stati Uniti
un’ importanza ancora più grande dato che essi non solo sono una democrazia e quindi i
suoi rappresentanti sono tenuti a tener conto di quelle che sono le richieste dell’
opinione pubblica anche in politica estera, ma sono anche l’unica superpotenza rimasta.
Pertanto è lecito chiedersi se sia auspicabile che lo stato che si trova sul vertice del
mondo elabori la propria condotta nell’arena internazionale in base alle pressioni e alle
sfide sistemiche o se, proprio in virtù del suo essere uno stato multietnico e
democratico, debba tener conto anche di quelle che sono le aspirazioni e i desideri dei
gruppi etnici che lo compongono o comunque in che misura si possono combinare le
due determinati. Questo interrogativo ha una rilevanza ancora maggiore in una fase
storica come quella attuale caratterizzata da un’enorme incertezza e in cui l’ egemone
del sistema internazionale, gli Stati Uniti, vede la sua posizione dominante pian piano
erodersi di fronte alle numerose sfide sistemiche come l’ascesa di nuove potenze, il
rischio della proliferazione nucleare, il terrorismo e l’instabilità di alcune regioni.
Infatti il rischio è quello che la nazione americana non sia in grado di affrontare queste
sfide epocali anche perché incapace di porre un freno alle pressioni interne che
sembrano assediare i suoi centri di potere e di elaborare quindi una politica estera che
sia veramente il prodotto condiviso degli interessi dell’ intera nazione.
La nostra argomentazione si sviluppa nel seguente modo. Dopo una breve introduzione
volta ad illustrare come avviene il processo di foreign policy making e in particolare
quelle che sono le determinati della politica estera, descriveremo l’evoluzione delle
lobbies etniche nella storia degli Stati Uniti mettendo in rilievo in particolar modo i
momenti storici in cui la loro influenza si è fatta sentire in modo decisivo. Infatti, come
abbiamo già detto, tale fenomeno non è per nulla recente, tanto che già i Padri Fondatori
come Madison e Washington avevano messo in guardia contro i pericoli derivanti dalla
presenza sul suolo americano di gruppi che difendevano interessi particolaristici anche
in politica estera. Il sistema politico americano infatti si caratterizza per una grande
apertura nei confronti dei gruppi d’interesse che vogliono influenzare il processo
legislativo ed esecutivo, quindi l’interferenza delle lobbies etniche è un fatto del tutto
normale e legale negli Stati Uniti. Come tutti gli altri gruppi di pressione statunitensi, le
lobbies etniche cercano di fare in modo che vengano eletti politici che sostengano le
8
loro posizioni, di influenzare la legislazione del Congresso e di modellare a proprio
piacimento gli orientamenti dell’opinione pubblica.
Non tutte i gruppi etnici sono però influenti allo stesso modo; esistono infatti alcuni
fattori (le caratteristiche della comunità etnica, le capacità organizzative, l’abilità di
inserirsi nei valori e negli interessi americani, il paese di affiliazione, la presenza di un
altro gruppo etnico che si oppone sulla stessa questione), che illustreremo attraverso la
descrizione di casi empirici, che fanno sì che alcune lobbies siano più efficaci di altre
nel determinare le azioni americane all’ estero. Ci concentreremo poi sul dibattito
emerso negli ultimi vent’anni, descrivendo le argomentazioni di chi ritiene che il
coinvolgimento di questi gruppi nel processo di elaborazione della politica estera sia
dannoso per gli Stati Uniti in quanto le minoranze etniche sono promotrici di una
politica estera incoerente, che antepone interessi particolaristici a quelli nazionali e che
rischia di coinvolgere Washington in conflitti in cui non è in gioco l’interesse nazionale
americano, e di chi lo ritiene invece benefico in quanto una politica estera multiculturale
rispetta la diversità presente negli Stati Uniti, permette di diffondere il credo americano
nel mondo ed è utile per resistere alle tentazioni isolazioniste che sono tipiche
dell’anglo-prostestantesimo.
Infine cercheremo di dare una nostra valutazione della questione, in particolare
descrivendo i casi empirici in cui l’ influenza delle lobbies etniche si è dimostrata così
forte da condizionare in modo rilevante la politica estera americana danneggiando gli
interessi dell’ intera nazione. Concluderemo poi la nostra argomentazione illustrando
alcuni rimedi che i policy makers americani potrebbero adottare per fare in modo che la
condotta americana in politica estera possa essere sempre più l’espressione degli
interessi dell’intera comunità e non di singole realtà particolariste.
9
CAPITOLO PRIMO:
IL PROCESSO DI FOREIGN POLICY MAKING
10
1. LE RELAZIONI INTERNAZIONALI E L’ANALISI DELLA
POLITICA ESTERA
La disciplina delle Relazioni Internazionali si occupa di studiare fenomeni aggregati
come la pace e la guerra, le relazioni tra i principali attori del sistema internazionale e il
funzionamento del sistema stesso. La disciplina che studia invece i comportamenti
degli stati in maniera disgregata è conosciuta con il nome di Analisi della politica estera.
Lo scopo di questa disciplina, nata negli anni ’50, è infatti quello di spiegare eventi
internazionali facendo riferimento ai singoli comportamenti degli attori invece che al
sistema delle loro relazioni. In particolare l’Analisi della politica estera si concentra
sulla costellazione di decisioni prese in riferimento ad una singola situazione e alle loro
cause. Tradizionalmente questa sottodisciplina delle Relazioni Internazionali, per
spiegare la politica estera, si è occupata di analizzare ciò che sta sotto il livello statuale,
di formulare delle spiegazioni multi causali del comportamento degli stati e di
esaminare come avviene il processo di foreign policy making
2
. Infatti l’ Analisi della
politica estera si fonda sulla convinzione secondo cui noi possiamo pienamente
comprendere ciò che gli stati fanno solo se rivolgiamo la nostra attenzione ad una
duplice interazione: quella tra la posizione internazionale che uno stato ricopre e il suo
contesto interno e tra il problema che uno stato deve risolvere e la natura del processo di
decision making impiegato per pervenire a quella decisione. Pertanto questa disciplina
si basa sul presupposto secondo cui la politica estera sia, come sostiene Christopher
Hill, “ un complesso processo di interazione tra molti attori, differentemente incastrati
in un’ ampia gamma di differenti strutture. La loro interazione è un processo dinamico,
che conduce ad una costante evoluzione sia degli attori che delle strutture”
3
. Soprattutto
dopo la fine della guerra fredda si sono diffusi molti studi volti a mettere in risalto tale
complessità, perché con la fine della logica bipolare, i comportamenti degli stati sono
diventati sempre meno prevedibili e le determinanti interne sembrano avere un peso
maggiore nel determinare ciò che avviene nell’ arena internazionale.
2
Smith S., Hadfield A., Dunne T. (2008), Foreign policy: theories, actors, cases, Oxford University
Press.
3
Hill C. (2003), The changing politics of foreign policy, Houndmills Palgrave Macmillan.
11
2. IL PROCESSO DI FOREIGN POLICY MAKING NELLE
SCUOLE DI PENSIERO DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Gli studiosi non hanno la medesima opinione riguardo a come avvenga l’ elaborazione
della politica estera; queste divergenze trovano la loro radice nella diversa concezione di
chi sia l’attore fondamentale nell’arena internazionale e chi sia quindi il soggetto che
guidi tale processo.
2.1 IL REALISMO
È la scuola di pensiero fondamentale delle Relazioni Internazionali attorno a cui sono
nate tutte le altre. Per il realismo la politica estera deve essere descritta e spiegata come
l’esito di lotte inter statali, in quanto l’attore più importante nell’arena internazionale è
lo stato, inteso come soggetto unitario, razionale ed autonomo. La struttura interna di
uno stato ha un impatto minimo sul suo comportamento: che uno stato sia
democratico, totalitario, o autoritario la natura anarchica del sistema internazionale lo
obbliga a perseguire il suo interesse nazionale se vuole sopravvivere. Ciò spiegherebbe,
secondo gli studiosi di questa scuola di pensiero, perché stati profondamente diversi per
regime politico o ideologia si comportano, se sottoposti alle medesime pressioni, allo
stesso modo.
La politica estera è pertanto formulata da un élite politica che, sotto l’influenza della
natura anarchica del sistema internazionale, definisce l’interesse nazionale ed agisce in
conformità ad esso. Per spiegare un evento internazionale dobbiamo quindi rivolgere la
nostra attenzione alla struttura del sistema internazionale in particolare a come è
distribuito il potere, perché gli stati elaborano la loro politica estera in base ad essa.
Implicita nella teoria realista c’è anche una componente normativa: la politica estera
deve essere immune dall’influenza di fattori interni in quanto impediscono allo stato di
perseguire il suo vero interesse nazionale che coincide con degli obiettivi permanenti
elaborati ad un alto livello di generalizzazione e che quindi non possono e non devono
essere definiti da un’opinione pubblica interna capricciosa o volubile
4
.
4
Smith S., Hadfield A., Dunne T. (2008), Foreign policy: theories, actors, cases, Oxford University
Press.
12
2.2. IL LIBERALISMO
Gli assunti della scuola di pensiero liberale contrastano nettamente con quelli del
realismo. La tesi chiave del liberalismo è che gli attori principali della politica
internazionale non sono gli stati bensì gli individui che definiscono i loro interessi
materiali e ideazionali indipendentemente dalla politica e poi li promuovono attraverso
lo scambio politico e l’azione collettiva. Questa, diversamente da quella realista, è una
teoria “dal basso in alto”, in cui si ritiene che la politica estera, come qualsiasi altra
policy, sia un prodotto delle preferenze e delle scelte degli individui che compongono
la società. Da qui consegue il fatto che lo stato non è un vero e proprio attore ma un
istituzione rappresentativa costantemente soggetta alla conquista e alla riconquista da
parte di coalizioni di attori che, sulla base dei loro interessi, definiscono le preferenze
dello stato. Aprendo la “scatola statuale” e affermando che le idee, gli interessi e le
istituzioni interne hanno delle conseguenze sulle relazioni fra gli stati, il liberalismo
complica lo studio della politica estera. Non è infatti solo la struttura del sistema
internazionale, come ritengono i realisti, a determinare il comportamento statuale, bensì
sono le pressioni della società trasmesse alle istituzioni rappresentative ad alterare le
preferenze dello stato che sono pertanto definite indipendentemente dalle strategie degli
altri attori internazionali. Le teorie liberali si concentrano quindi sulle conseguenze, per
il comportamento dello stato, di cambiamenti nelle preferenze degli attori interni, non
sui cambiamenti nelle circostanze strategiche esterne
5
. Di conseguenza i liberali
rivolgono più attenzione alle strutture interne e alle differenze individuali rispetto ai
realisti e credono che il sistema internazionale abbia un’influenza meno costringente sul
comportamento statuale. Pertanto per gli studiosi di questa scuola di pensiero, a
differenze dei realisti, la struttura interna e le preferenze degli individui rivestono una
grande importanza nel determinare come agisce uno stato nell’arena internazionale.
Questa considerazione è alla base della teoria della pace democratica: una tradizione di
ricerca di matrice liberale che afferma l’esistenza di un nesso causale tra la natura
democratica del regime e la guerra, sottolineando la natura intrinsecamente pacifica
delle democrazie . Da qui la rilevanza data all’ opinione pubblica, considerata dai
5
Moravcsik A. (1997), A liberal theory of international politics, International Organization, 51: 513-
553.
13
liberali stabile, razionale e in grado di fissare una serie ampia di limiti, identificando un
range di politiche tra cui i decision makers possono e devono scegliere se vogliono
rimanere al potere
6
. Anche questa scuola di pensiero, come il realismo, ha una
componente normativa; ritiene infatti che la politica estera debba essere guidata dai
principi liberali, vale a dire debba cercare di preservare ed espandere la comunità delle
democrazie liberali evitando però di avventurarsi in “crociate per la democrazia” che
potrebbero destabilizzare l’intero sistema
7
.
2.3. IL COSTRUTTIVISMO
L’ assunto principale del costruttivismo è che il mondo sia socialmente costruito. Ciò
significa che i costruttivisti vedono il mondo non come qualcosa di dato bensì come
qualcosa che è posto in essere attraverso un processo di interazione tra gli agenti e il
loro ambiente. Invece di assumere che lo stato ha interessi dati, questa scuola di
pensiero indaga come essi vengono costruiti nell’ambito del processo di interazione
sociale e quindi, essendo parti di esso, gli interessi sono considerati come endogeni. In
particolare si concentra su come le norme sociali o le idee possono condurre gli stati ad
adottare nuovi interessi. Quindi per comprendere la politica internazionale, sostengono i
costruttivisti, non è sufficiente guardare alla distribuzione delle risorse materiali
nell’arena internazionale o alle preferenze degli individui, bensì è necessario guardare
anche ai fattori ideazionali che sono alla base delle norme sociali che, a loro volta,
plasmano le identità e gli interessi. Tale scuola di pensiero supera decisamente il
paradigma statocentrico, sia rivalutando il ruolo degli attori non statuali, sia guardando
“dentro” agli stati per accertare come avviene il processo di formazione degli interessi.
Se l’interesse nazionale non è qualcosa di oggettivo ma è endogeno, cioè prodotto
all’interno delle strutture statali, allora è necessario infatti focalizzare la nostra
attenzione sugli attori interni che sono preposti all’elaborazione di tali interessi. Da qui
l’attenzione nei confronti della burocrazia e del processo decisionale in generale, ma
anche nei confronti degli attori non statuali (organizzazioni internazionali,
6
Guraziu R. (2008), To what extent is foreign policy making affected by public opinion in a liberal
democracy?, Middlesex University of London School of Health and Social Sciences Principles and
Practice of International Relations Political & International Studies MA International Relations.
7
Smith S., Hadfield A., Dunne T. (2008), Foreign Policy: theories, actors, cases, Oxford University
Press.
14
multinazionali ecc) la cui influenza sulla politica estera degli stati negli ultimi anni è
andata crescendo. Inoltre i costruttivisti, esplorando i meccanismi che legano l’ambiente
interno ed esterno, ci permettono di avere un approccio più globale della politica
estera
8
.
3. LE DETERMINANTI DELLA POLITICA ESTERA
Mettendo insieme questi approcci, possiamo pervenire ad una visione globale del
processo di elaborazione della politica estera. Infatti se il realismo ci invita a guardare al
sistema internazionale, il liberalismo ci induce ad aprire la scatola statuale per
osservare le determinanti legate alle preferenze degli individui e dei gruppi organizzati
ed infine il costruttivismo ci spinge ad andare ancora più in profondità per esaminare
come vengono elaborate le idee e le norme sociali che definiscono le identità e gli
interessi degli attori. Diamo ora un rapido sguardo di insieme a tutte le determinati
della politica estera, dividendole in due gruppi: quelle esterne allo stato e quelle interne.
La differenza fondamentale tra queste determinanti è che mentre le pressioni interne
possono essere particolarmente costringenti e insistenti, ma sono anche effimere, le
pressioni internazionali hanno invece implicazioni di lungo periodo perché fanno
riferimento a fattori che mutano più lentamente.
3.1 LE DETERMINANTI ESTERNE DELLA POLITICA ESTERA
Gli approcci che più di tutti hanno enfatizzato l’importanza dell’ambiente esterno nelle
relazioni internazionali sono la geopolitica, il realismo e le teorie sistemiche. Tutti e tre
questi approcci, condividono l’idea secondo cui è la struttura del sistema internazionale
in tutte le sue dimensioni (quella geografica, quella della distribuzione del potere e il
sistema delle relazioni tra gli stati ) a condizionare la politica estera di uno stato. L’idea
centrale è che la politica estera di ciascuno stato è il risultato di un’ interazione
dialettica tra la strategia che un attore ha e il contesto . L’ esistenza di altri attori, la
loro interazione, la complessa aggregazione degli interessi è infatti ciò che rende
8
Ibid.
15
l’ambiente internazionale un ambito ineguale. Infatti la probabilità da parte di un attore
di raggiungere un determinato obiettivo dipende da come esso è posizionato nel sistema
internazionale su una data questione: data la sua posizione in relazione al contesto,
alcune azioni, in altre parole, hanno più successo di altre. Joseph Frankel ad esempio ha
distinto l’ambiente internazionale in due componenti: quella fisica e quella sociale.
L’ambiente fisico include elementi della politica estera più o meno permanenti come la
collocazione, le dimensioni e le caratteristiche geografiche di un paese (es la presenza di
uno sbocco al mare, il clima, le sue risorse sia naturali che militari ed economiche ecc).
L’ambiente sociale ha invece a che fare con il sistema internazionale nella sua interezza
(la distribuzione del potere, la presenza di istituzioni e regimi internazionali ecc) e con i
singoli comportamenti degli altri stati. Il sistema internazionale influenza la politica
estera nel senso che pone dei limiti ai comportamenti degli stati che non si trovano
infatti ad agire in un ambiente libero
9
. La scena internazionale è infatti composta da
attori statali e non, ciascuno dei quali con una gamma di obiettivi, interessi e priorità,
non necessariamente in conflitto gli uni con gli altri, ma comunque distinti tra loro.
3.2 LE DETERMINANTI INTERNE DELLA POLITICA ESTERA
Se agli albori della disciplina delle Relazioni Internazionali dominata dal paradigma
stato centrico realista, gli studiosi tendevano ad ignorare le variabili interne, oggi molti
studiosi esaltano il primato dei fattori interni nel determinare la politica estera degli
stati. Le variabili interne hanno rilevanza non solo nelle democrazie ma anche nei
sistemi autoritari nei quali la politica estera è ugualmente soggetta alle pressioni
domestiche. Secondo questi approcci gli stati non sono concepiti come attori unitari, ma
piuttosto come strutture all’interno dei quali e per conto dei quali, i decision makers
agiscono. Però non sempre è chiaro chi rappresenti lo stato nell’arena internazionale:
infatti quando diciamo “lo stato x decide di fare y”, cosa intendiamo per lo “stato x”?
Chi e perchè prende in realtà una determinata decisione? Il presidente, il parlamento, il
9
Frankel J. (1963), The making of foreign policy : an analysis of decision-making, London: Oxford
University Press. Citato in Rahman Al-Angari A. (2007), Domestic and external factors as sources of
foreign policy (1955-1975), JRL of the Facolty of Commerce for Scientific Research Alex.Univ. ,44.
16
ministero degli esteri, la popolazione nella sua interezza, il mondo degli affari o i mass
media?
Nella nostra analisi, seguiamo la classificazione di James Rosenau che identifica
quattro categorie di fonti interne: lo scenario governativo, i ruoli ricoperti dai decision
makers, l’ ambiente societario e le caratteristiche individuali delle elite che fanno
politica estera. Secondo Rosenau, tutte queste fonti sono interrelate e collettivamente
determinano le decisioni in politica estera e quindi gli esiti; qualsiasi spiegazione che sia
uni fattoriale è pertanto riduttiva e non è in grado di spiegare a pieno la complessità
della realtà
10
.
3.2.1 LE FONTI GOVERNATIVE E I RUOLI: LA POLITICA ESTERA FRA
BUROCRAZIA E POLITICA
Tradizionalmente si tende a trattare gli stati come se fossero attori unitari e compatti,
ignorando che in realtà sono costrutti mentali dietro ai quali si cela una complessa rete
che comprende persone, ruoli ed organizzazioni. Innanzitutto la politica estera
raramente è il prodotto di una decisione di un singolo attore che si trova al vertice del
governo, bensì è il risultato di negoziazioni tra le istituzioni di un paese. Perciò
innanzitutto bisogna guardare, per comprendere a pieno come viene elaborata una certa
politica, anche alla struttura costituzionale di un paese, a quali sono gli organi preposti
all’elaborazione della politica estera, a chi fra essi ha più potere, a quali sono le
relazioni esistenti tra loro. Nel caso americano ad esempio, le fonti governative possono
essere descritte come una serie di cerchi concentrici al cui centro sta la figura del
presidente circondato in successione dai suoi più stretti consiglieri, dai Segretari che
formano la sua amministrazione, dai Dipartimenti e dalle Agenzie
11
.
Un attore governativo molto importante nell’elaborazione della politica estera e che
merita alcune precisazioni, è il servizio di intelligence. La sua rilevanza deriva dal fatto
che chi formula la politica estera, lo fa spesso sulla base delle informazioni e delle
indicazioni che riceve dai servizi segreti. Pertanto alcuni studiosi hanno ipotizzato che il
10
Rosenau J. (1967), Domestic source of Foreign Policy, New York Free Press, citato in Kegley C. W. ,
Wittkopf E. R. (1987), American foreign policy: pattern and process, St. Martin's Press.
11
Hilsman R. (1967), To move a nation: the politics of foreign policy in the administration of John F.
Kennedy Garden City, N.Y.: Doubleday. Citato in Kegley C. W. , Wittkopf E. R. (1987), American
foreign policy: pattern and process, St. Martin's Press.