5
Introduzione
La sala buia, il silenzio, il fascio di luce violenta sullo schermo, le
ombre che si muovono, il suono che arriva non si sa da dove … niente
paura, non ci troviamo in nessun luogo spaventoso: siamo solo al
cinema.
Guardare un film è un’esperienza magica, prodigiosa. Non appena il
fascio di luce raggiunge lo schermo, quest’ultimo si spalanca, come una
finestra, e si affaccia su un mondo meraviglioso, affine al nostro, ma
diverso, sconosciuto. Lo spettatore si tuffa ogni volta in questo universo
incantato, è rapito dalle enormi immagini che fuoriescono dallo schermo
e gli vanno incontro. Le immagini lo catturano, lo afferrano attraverso lo
sguardo, quella fune invisibile che resta sospesa fra gli occhi e lo
schermo: una volta agganciato dalla trappola del dispositivo, lo
spettatore vive dentro il film, perfettamente a suo agio, come nel ventre
materno. Quel mondo fittizio sembra fatto su misura per lui.
Il cinema, la piø ingannevole tra tutte le arti, regala allo spettatore
un’esperienza straordinaria, totalizzante: egli dimentica che sta vedendo
il film di qualcun altro, gli sembra di vivere un sogno, il proprio sogno.
Sullo schermo proietta se stesso, i propri desideri. Alla proiezione del
dispositivo si accompagna così un’altra proiezione: le immagini sullo
schermo lasciano spazio anche all’immaginario di chi guarda. Lo
6
spettatore mescola i propri desideri a quelli del regista creando una
confusione tale che non è piø possibile distinguere gli uni dagli altri. Egli
può trovarsi così a provare un desiderio che non era il proprio in origine,
ma che il dispositivo lo ha indotto a desiderare.
Lo spettatore scambia se stesso per il regista, si identifica con lui, anzi
con un’immagine migliore di lui: egli si identifica con un essere
onnipotente in grado di guardare e dominare ogni cosa. Lo spettatore
scambia l’altro, il regista, con il Grande Altro lacaniano, da qui nasce il
rispetto, il timore reverenziale, ma anche l’amore: amare qualcuno
significa investirlo di autorità.
Il regista si identifica con lo spettatore, con colui che guarda il proprio
film, nel momento stesso in cui lo realizza, anzi è proprio per lui che lo
realizza. Egli pensa continuamente allo spettatore, presenza
ingombrante, anche quando non c’è, Grande Altro anche lui, da
rispettare e riverire.
Il film è un incontro tra due innamorati, ciascuno finge di ignorare
l’altro, ma la finzione fa parte del gioco. La partita che si disputa nella
sala buia è quella della seduzione. Il regista ci affascina con quel tripudio
di immagini, colori, suoni che invade la sala e sfonda le pareti,
trasportandoci lontano, negli sconfinati territori della fantasia; noi lo
seduciamo con la nostra disponibilità: abbiamo occhi e orecchi solo per
lui, il che vuol dire controllo, ma anche ammirazione.
7
L’arte: un’irrimediabile bugiarda
- L’arte imitativa è lungi dal vero e, come sembra, per questo eseguisce ogni
cosa, per il fatto di cogliere una piccola parte di ciascun oggetto, una parte che è
una copia. Per esempio, il pittore, diciamo, ci dipingerà un calzolaio, un
falegname, gli altri artigiani senza intendersi di ciascuna delle loro arti. Tuttavia,
se fosse un buon pittore, dipingendo un falegname e facendolo vedere da
lontano, potrebbe turlupinare bambini e gente sciocca, illudendoli che si tratti di
un vero falegname. […]
La pittura e in generale l’arte imitativa, da un lato compie l’opera sua restando
lontano dalla verità, dall’altro si rivolge a ciò che c’è in noi di piø lontano
dall’intelligenza, e gli si fa amica e compagna per nulla di sano nØ di vero. […]
SicchØ l’arte mimetica, già di per sØ modesta di valore, unendosi a una facoltà
altrettanto modesta, non può che generare frutti modesti. La pittura (e, in genere,
l’arte imitativa) elabora la propria opera lontano dalla verità. Essa è in intima
relazione, compagna e amica di quel nostro interiore elemento che sta lontano
dall’intelligenza, senza alcuna meta sana nØ vera.
- Assolutamente - rispose.
- Allora l’arte imitativa, che ha scarso pregio, trovandosi insieme con un
elemento pure poco pregevole, dà luogo a prodotti che valgono poco.
- Può darsi.
- Si tratta – continuai - soltanto dell’arte che riguarda la vista o anche di quella
che concerne l’udito e che denominiamo appunto poesia?
- ¨ naturale – rispose – anche di questa.
Platone, Repubblica, X (V-IV secolo a.C.)
1
Nel determinare l’essenza, il valore e il compito dell’arte, Platone si
preoccupa fondamentalmente di stabilire quale sia il suo valore di verità.
1
Platone, Repubblica X , in Umberto Eco (a cura di), Storia della bellezza , Bompiani, Milano 2004, p. 38
8
L’arte non può essere considerata una forma di conoscenza: se essa ri-
vela la verità lo fa solo nella misura in cui le getta sopra un’altra coperta.
In tutte le sue espressioni (pittura, scultura, poesia ecc.) l’arte è sempre
una “mimesi”, ossia un’“imitazione” di eventi sensibili.
Secondo la metafisica platonica tutte le cose sensibili sono delle “copie”:
tutto il mondo è una “copia”, un’“immagine” dell’eterno “paradigma”
dell’Idea. Ne deriva che l’arte è “una imitazione di una imitazione” e
quindi essa è “tre volte lontana dalla verità”. L’arte è menzognera e
diseducatrice. Non migliora l’uomo, lo corrompe. Deve essere perciò
bandita dallo Stato perfetto, a meno che essa non si sottometta alle leggi
del “bello” e del “vero”. Tendenzialmente l’arte serve il falso. Per
redimersi deve assoggettarsi alla filosofia, che invece serve il vero.
L’artista deve quindi sottostare alle regole del filosofo.
2
Platone arriva dunque ad ammettere una valenza educativa anche per
l’arte, ma solo per quella che sappia allontanarsi dalla propria natura.
Questo paradosso è dovuto al fatto che, dopo aver fatto rientrare
negativamente il tema dell’arte all’interno del suo pensiero filosofico, egli
si trova tuttavia di fronte alla necessità di doverne riconoscere
l’importanza e soprattutto l’utilità sociale e politica. L’arte può educare sia
al bene che al male. Conviene farne un buon uso affinchØ educhi al
bene.
Non deve essere “bella” solo la forma dell’oggetto artistico: ciò che è
maggiormente importante è il suo contenuto. Gli uomini imitano ciò che
vedono. Se, ad esempio, un pittore dipingesse attraverso belle forme
contenuti deplorevoli ne deriverebbe un danno per tutti coloro che si
trovassero ad ammirare il quadro: affascinati dalla bellezza dei colori o
2
Cfr. Giovanni Reale, Dario Antiseri, Storia della filosofia , Volume 1, “Dall’Antichità al Medioevo”, Editrice La
Scuola, Brescia 1997, pp. 146-150
9
del disegno, essi potrebbero essere indotti a compiere le azioni turpi
rappresentate dal pittore.
Gli antichi greci avevano sostanzialmente capito come sfruttare a
proprio vantaggio la naturale tendenza umana all’imitazione. Tutto
questo molto prima della scoperta, da parte di Giacomo Rizzolatti e del
suo gruppo, dell’esistenza dei neuroni specchio. Tali neuroni
costituiscono una particolare classe di cellule nervose che, oltre a
sovrintendere all’attività motoria mentre siamo impegnati in determinate
azioni, si attivano anche quando vediamo compiere lo stesso tipo di
azione da qualcun altro. Ciò vale naturalmente anche se osserviamo
l’imitazione dell’azione offerta da qualsiasi forma artistica.
3
Ne parla
Maria Luisa Catoni nel suo libro La comunicazione non verbale nella
Grecia antica:
La comprensione delle azioni e delle emozioni degli altri avverrebbe perciò in
maniera non mediata, grazie alla specializzazione visuo-motoria dei neuroni
specchio. L’osservatore di una determinata azione produrrebbe una sorta di
«imitazione in piccolo», un atto motorio potenziale tramite l’attivazione delle
proprie conoscenze motorie, cioè del proprio vocabolario d’atti: lo stesso
vocabolario che utilizza per eseguire egli stesso quella determinata azione.
Imitazione ed empatia si configurerebbero, nell’accezione dei neurofisiologi,
come risposte neurali, involontarie. Su di esse si fonderebbero i processi di
apprendimento, di costruzione di sØ e dell’altro, di elaborazione del
comportamento sociale. […]
I Greci non conoscevano i neuroni specchio. Affidarono però all’imitazione un
ruolo centrale nelle loro società. […]
… nell’Atene del V e IV secolo a.C. … la nascente filosofia politica analizzò e
formalizzò il ruolo delle arti mimetiche in funzione della costruzione di un’etica
3
Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio , Raffaello Cortina
Editore, Milano 2006
10
sociale e politica condivisa. L’energia prescrittiva e la concreta scelta di affidarsi
alle immagini per diffondere valori da parte della cultura greca riposano su un
assunto di fondo: gli esseri umani, per natura, imitano ciò che vedono e, nel farlo,
provano piacere. A partire da questa osservazione la cultura greca elaborò
strategie e analisi al fine di funzionalizzare e controllare nel dettaglio la capacità
delle arti mimetiche di plasmare l’animo degli uomini e determinarne i
comportamenti.
4
Pensiamo alle nostre reazioni quando guardiamo un film: ci
emozioniamo e ci identifichiamo con i personaggi sullo schermo grazie ai
neuroni specchio. Spesso capita che di fronte ad un colpo di scena i
nostri muscoli si muovano del tutto inconsapevolmente. Balziamo sulla
sedia, ci accovacciamo su di essa o, al contrario, ci protendiamo in
avanti, quasi volessimo toccare ciò che stiamo vedendo.
Platone naturalmente non conosceva il cinema, ma possiamo essere
certi che se questo fosse esistito nel V secolo a.C. avrebbe senza
dubbio catturato la sua attenzione e su di esso egli avrebbe concentrato
le sue maggiori preoccupazioni. Per forza di cose il filosofo si concentra,
invece, su quella che nell’antichità era «la piø icastica, utile e potente
forma di mimesi»: la mousike, unione di musica e danza, ma potremmo
anche dire di immagini e suoni, ossia la stessa commistione che sta alla
base dell’arte piø giovane, l’ultima fra le arti. ¨ proprio dall’efficace
mescolanza di immagini e suoni che deriva l’enorme capacità di “presa”
sullo spettatore. Una presa a distanza, certo, senza alcun tipo di
contatto, ma piø efficace della colla o di una corda.
Ripercorrendo alcuni passi del II libro delle Leggi di Platone, Maria
Luisa Catoni scrive a proposito della danza e della musica:
4
Maria Luisa Catoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica , Bollati Boringhieri Editore, Torino 2008,
pp. 11-13
11
… per il loro carattere imitativo «di ciò che viene detto» e «di caratteri»
assumono straordinaria importanza, e quindi pericolosità, nell’additare ai giovani i
modelli e i comportamenti cui assimilarsi, nell’insegnare il bene ed il male e, di
piø, ad amare il bene e ad odiare il male.
Il carattere imitativo di poesia, musica e danza, in Platone finalizzate
all’educazione, consente l’assimilazione di queste technai a quelle che noi
chiamiamo arti figurative e individua un vero e proprio terreno comune fra di
esse. […] Tale procedimento assimilativo non comporta tuttavia l’equivalenza
delle diverse forme di rappresentazione: è anzi la mousike che riveste un ruolo
guida nel dotare di un corretto criterio di giudizio del bello e del brutto rispetto a
tutti i tipi di imitazione, ed è perciò su di essa che va esercitato il piø stretto
controllo e ne vanno stabilite fermamente le «regole».
5
Il problema che si pone Platone è ancora attuale, ma la pericolosità
che egli un tempo poteva attribuire al complesso di musica e danza è
oggi molto piø facilmente additabile al cinema. Non a caso è sul cinema
e sulla televisione che il legislatore si preoccupa maggiormente di
intervenire, ponendo regole e limitazioni che talvolta possono sembrare
eccessive. ¨ significativo quanto scrive a tale proposito Salvatore Settis:
Val la pena rilevare quanto la riflessione di Platone si appunti su temi delicati,
certo in termini diversi, ancora per noi oggi: l’influenza di alcune forme di
intrattenimento sui comportamenti e, in particolare, il grande potere della
dimensione visuale, la capacità delle immagini cui siamo sottoposti di dar forma a
valori e reazioni comportamentali, il problema dell’emulazione. In forme e in un
contesto senz’altro diversi, noi stessi ci poniamo domande molto simili quando
solleviamo il problema dell’influenza sul comportamento dei piø giovani della
rappresentazione realistica della violenza, ad esempio, nei film; quando ci
interroghiamo circa l’opportunità o meno di mettere a punto forme di controllo in
grado di regolare la circolazione di tali rappresentazioni, o quando cerchiamo di
valutare le conseguenze dei videogiochi sui comportamenti nella vita reale e, piø
in generale quando ci interroghiamo sul problematico rapporto fra realtà e
5
Ivi, pp. 270-271
12
finzione, sulla possibilità della confusione fra i due piani. Le nostre analisi
tendono a considerare la problematicità di questo rapporto un tema tutto
moderno, legato soprattutto all’altissimo livello tecnologico raggiunto dalle società
occidentali che permetterebbe una mimesi della realtà così perfetta da generare
dei «doppi», sì da rendere sempre piø difficile la distinzione fra il piano della
realtà e quello della finzione. Ebbene, la questione è certo legata, ma solo in
minima parte, alla perfezione tecnologica con la quale si è in grado di esercitare
la mimesi. Ma anche la perfezione tecnologica è un fatto di percezione, tant’è che
il problema poteva ben essere vivo e pressante nell’Atene di IV sec.
6
Eccoci dunque arrivati al cuore del nostro problema: l’inganno, la
perfetta mimesi della realtà resa possibile dai sofisticati strumenti
tecnologici che sono oggi a nostra disposizione. Quando guardiamo un
film l’impressione di realtà può essere talmente forte da farci dimenticare
tutto il resto: la nostra realtà, dove siamo, chi siamo. Questo
incantamento può durare anche solo pochi istanti (ciò dipende anche dal
nostro personale gradimento del film, dalle condizioni di visione ecc.),
ma sono molti i film che riescono a tenerci “incollati” allo schermo per
quasi tutta la loro durata, con l’eccezione di alcuni istanti di distrazione
inevitabili. Anche qualora riuscissimo a chiuderci in una campana di
vetro durante la visione di un film la nostra mente ci ricorderebbe
all’improvviso che abbiamo una telefonata importante da fare, che
domani è il compleanno della nostra fidanzata e un mazzo di fiori come
quello che il protagonista del film regala alla sua ragazza forse sarebbe
molto gradito … insomma, qualsiasi cosa ci riporti alla realtà.
Normalmente siamo immersi in un mondo ben diverso da quello fittizio
che prende forma sullo schermo, una forma inconsistente e soprattutto
priva del peso e della sostanza della realtà vera nella quale viviamo.
6
Ivi, pp. 8-9
13
Forse ciò che ci attira di piø di un film è proprio l’immaterialità e la
leggerezza di ciò che appare e scompare con estrema facilità sullo
schermo: queste figure non sono neppure “dipinte” sullo schermo, non
possiedono nemmeno la piatta materialità della pittura. Esse sono delle
“ombre di luce”, la cui evanescenza è tutta racchiusa in questa
contraddizione in termini che non possiede neppure la “correttezza” di un
ossimoro. ¨ solo illegittimamente, infatti, che chiamiamo tali figure
“ombre”, poichØ anche se piatte, bidimensionali e prive di materialità,
non bisogna dimenticare che esse sono fatte di luce. Sono perciò l’esatto
opposto delle ombre vere e proprie. Anche se il cinema assomiglia al
gioco delle ombre cinesi, il meccanismo alla base dei due dispositivi è
esattamente l’inverso. Il cinema è fatto di luce, le immagini sullo schermo
sono proiettate da un cono luminoso. Le ombre cinesi, invece, sfruttano
l’assenza di luce: si interpone qualcosa fra la sorgente luminosa e lo
schermo, così da proiettare su quest’ultimo la sua ombra.
¨ proprio nell’immaterialità del cinema che, secondo Jean Leirens,
risiede il suo potere di fascinazione:
L’impressione di realtà non dipende assolutamente da una presenza marcata
dell’attore, bensì dal debole grado di esistenza di quelle creature fantomatiche
che si agitano sullo schermo, e che sono incapaci di resistere alla nostra
tentazione costante di investirle di una “realtà” che è quella della finzione, di una
realtà che non proviene che da noi, dalle proiezioni e dalle identificazioni che si
mescolano alla nostra percezione del film. Se lo spettacolo cinematografico dà
una forte impressione di realtà, è perchØ esso corrisponde a un vuoto nel quale il
sogno penetra agevolmente.
7
7
Jean Leirens, Le cinéma et le temps , Editions du Cerf, Paris 1954, p. 28, cit. in Lucilla Albano, La caverna dei
giganti , Pratiche Editrice, Parma 1992, p. 16
14
Le immagini cinematografiche sono dunque incorporee. Questo vuol
dire anche che possiamo godere di esse solamente ad una certa
distanza, altrimenti andremmo incontro alla loro inconsistenza. Tutto ciò
mi fa venire in mente quanto scrive Umberto Eco nella sua Storia della
bellezza:
L’arte greca e quella occidentale in generale privilegiano infatti, diversamente
da certe forme artistiche orientali, la giusta distanza dall’opera, con la quale non
si entra in contatto diretto: al contrario, una scultura giapponese si tocca, con un
mandala tibetano di sabbia si interagisce. La Bellezza greca viene così espressa
dai sensi che lasciano mantenere la distanza tra l’oggetto e l’osservatore: vista e
udito piuttosto che tatto, gusto e olfatto.
8
Se ci atteniamo a questa definizione della Bellezza, ci viene subito da
pensare che essa sia addirittura insita nel dispositivo cinematografico.
Forse il cinema è l’arte “bella” per eccellenza.
Kalón è ciò che piace, che suscita ammirazione, che attrae lo sguardo.
L’oggetto bello è un oggetto che in virtø della sua forma appaga i sensi, e tra
questi in particolare l’occhio e l’orecchio.
9
Occorre però una precisazione. Vista e udito sono i sensi che
riusciamo ad appagare a distanza, certo, e sono perciò quelli privilegiati
dalle arti occidentali. Tuttavia non sono situabili esattamente sullo stesso
piano:
8
Umberto Eco (a cura di), Storia della bellezza , Bompiani, Milano 2004, p. 57
9
Ivi, pp. 39-41
15
… Una seconda antitesi è quella tra suono e visione, le due forme percettive
privilegiate dalla percezione greca (probabilmente perchØ, diversamente
dall’odore e dal sapore, sono riconducibili a misure e ordini numerici): benchØ si
riconosca alla musica il privilegio di esprimere l’anima, è solo alle forme visibili
che si applica la definizione di bello (Kalón) come “ciò che piace e attrae”.
10
Le forme udibili, invece, come la musica, «suscitano sospetto» perchØ
coinvolgono eccessivamente l’animo dello spettatore: «il ritmo della
musica rimanda al fluire perenne (e disarmonico, perchØ privo di limite)
delle cose».
11
“Belle”, quindi, nel senso proprio del termine, sono solo le immagini,
poichØ esse richiedono una «pacata contemplazione» da parte
dell’uomo, mentre la musica è pericolosa perchØ «suscita passioni»
12
.
Non che la musica non possa essere “bella”, essa è semplicemente
portatrice di un’altra idea di “bellezza”, la quale non è legata all’ordine e
all’armonia, ma al caos e alla sregolatezza. Umberto Eco fa riferimento
alla distinzione inaugurata da Nietzsche tra Bellezza apollinea e
Bellezza dionisiaca.
13
Nel cinema le ritroviamo entrambe. ¨ chiaro: le immagini in movimento
ci sembrano la materia prima essenziale e bastano queste per parlare di
cinema, ma pensiamo a quanto sia importante la colonna sonora di un
film. Talvolta è addirittura l’unica cosa che ricordiamo. Anche quando era
muto il cinema si è sempre avvalso dell’accompagnamento di musica dal
vivo: un semplice pianoforte, un organo, talvolta anche un’intera
orchestra. Spesso effetti sonori di vario tipo venivano sincronizzati
all’azione sullo schermo. Qualche volta uno speaker presente in sala
10
Ivi, p. 56
11
Ivi, p. 57
12
Ibidem
13
Cfr. Friedrich Wilhelm Nietzsche, La nascita della tragedia , III, 1872
16
durante la proiezione del film spiegava agli spettatori alcuni passaggi
altrimenti difficilmente comprensibili.
14
Proprio gli albori del cinema ci mostrano in modo evidente l’aspetto
“dionisiaco” legato al suono: chi realizzava il film non aveva poi alcuna
possibilità di controllare la musica di accompagnamento, la quale era di
completo dominio dell’esercente. Gli effetti erano talvolta disastrosi. Con
l’introduzione del sonoro, ossia quando suono e immagine poterono
essere combinati insieme durante la lavorazione del film, l’effetto finale
risultò molto piø “armonico”. Fu il trionfo della Bellezza apollinea. La
Bellezza dionisiaca sembra però essersi presa la sua rivincita circa
trent’anni dopo, con l’avvento del cinema moderno, molto meno
armonioso e contrario alle rigide regole del cinema classico. Con il
cinema moderno la colonna sonora riconquista la propria autonomia
rispetto a quella visiva, si avvale della possibilità di non essere in
sincrono con le immagini.
Questo è il cinema dunque: immagini e suono, ordine e caos, docile
contemplazione e passione sfrenata. Doppiamente bello e, forse,
proprio per questo, doppiamente amabile, se è vero ciò che cantano le
Muse, figlie di Zeus:
«Ciò che è bello è amato;
ciò che bello non è, non è amato.»
15
I versi di Teognide evidenziano gli antichi legami tra il tema della
bellezza e quello dell’amore. Un legame le cui origini si perdono nel
tempo. Di esso parla anche Platone, in particolare nel Fedro e nel
Simposio. Egli lega l’Amore al Bello, al Bene e al Vero.
14
Cfr. David Bordwell, Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film (tit. orig. Film History: An Introduction ,
1994), vol. I, “Dalle origini al 1945”, Il castoro, Milano 1998, pp. 273-274
15
Teognide (VI-V secolo a.C.), Elegie , I, vv. 17-18
17
Eros non è nØ un Dio nØ un uomo, ma un demone, una forza
mediatrice fra il mondo sensibile e quello sovrasensibile. Non è bello, ma
desidera le cose belle. Non è buono, ma ha sete di bontà. Non è
sapiente, ma aspira alla sapienza, che è propria solo del Dio. L’anima,
nella sua vita originaria accanto agli dèi, ha visto le Idee nell’Iperuranio.
Poi ha perso le ali ed è precipitata nei corpi, dimenticando ogni cosa.
L’anima può ricordare le Idee viste un tempo avvalendosi della filosofia
(aspirazione alla Sapienza suprema). La Bellezza, fra tutte le Idee, è
quella che può essere ricordata con maggiore facilità, perchØ è quella
maggiormente evidente e amabile. La Bellezza ideale emerge nel bello
sensibile infiammando l’anima, la quale è presa dal desiderio di volare
per ritornare da dove è venuta. Eros dà all’anima le ali che le permettono
di elevarsi, attraverso i vari gradi della bellezza sensibile, fino a
raggiungere la Bellezza sovrasensibile.
16
Anche se noi non crediamo come Platone nell’Iperuranio, l’idea che
l’amore sia intrinsecamente legato alla bellezza è sopravvissuta sino ad
oggi. Un fenomeno a tutti noto, il classico colpo di fulmine, mostra che è
molto piø facile innamorarsi di una persona bella piuttosto che di una
brutta. Un detto abbastanza stupido, “Non è bello ciò che è bello, è bello
ciò che piace”, contiene indirettamente una verità fondamentale: non
esiste una bellezza assoluta. Gli antichi Greci ci insegnano che bello è
«ciò che suscita ammirazione, che attrae lo sguardo». Questo vuol dire
che non esiste un “canone” di bellezza assoluto perchØ “bello” è tutto ciò
che appaga i nostri sensi.
Pensiamo ora al cinema. Al di là del giudizio estetico esprimibile di
volta in volta su un singolo film, rimane indubbia la capacità del
16
Cfr. G. Reale, D. Antiseri, Storia della filosofia , cit. , pp. 150-151
Platone, Il Simposio
Platone, Fedro
18
dispositivo di attirare il nostro sguardo. Il cinema delizia le nostre facoltà
percettive. ¨ di per sØ bello e amabile.
Il cinema mente, su questo non c’è alcun dubbio: come tutte le arti
nasconde la verità. Ma quanto ci interessa questa verità? E soprattutto,
esiste questa verità? A volte non è piø interessante una bugia? Il cinema
ci permette di sognare e di staccarci dalla vita quotidiana, con le sue
noie e le sue storture. Perfino Platone gli avrebbe riconosciuto un’utilità
fondamentale, un valore paideutico: lo avrebbe descritto come un’arte
estremamente pericolosa, ma che, sottoposta a giuste regole, può
diventare un mezzo per elevarsi spiritualmente. In fondo non avrebbe
avuto torto.
19
Il mito della caverna
«… Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in una abitazione sotterranea a
forma di caverna che abbia l’ingresso aperto verso la luce con un’ampiezza
estendentesi per tutta la caverna medesima; inoltre che si trovino qui fin da
fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover star fermi e
guardare solamente davanti a sØ, incapaci di volgere intorno la testa a causa
delle catene, e che, dietro di loro e piø lontano arda una luce di fuoco; e, infine,
che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada, lungo la quale immagina di
vedere costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono tra sØ
e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini».
«Vedo» disse.
«Immagina, allora, di vedere, lungo questo muricciolo, degli uomini portanti
attrezzi di ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue ed altre figure
di viventi fabbricati in pietra e in legno e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale,
che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in silenzio».
«Parli di cosa ben strana» disse «e di ben strani prigionieri».
«Sono simili a noi» dissi. «Infatti, credi, innanzitutto, che vedano di sØ e degli
altri qualcos’altro, tranne le ombre che il fuoco proietta sulla parte della caverna
che sta di fronte a loro?»
«E come potrebbero» disse «se sono costretti a tenere la testa immobile per
tutta la vita?».
«E degli oggetti portati? Non vedranno, pure, la sola ombra?».
«E come no?»
«Se, dunque, fossero in grado di discorrere tra di loro, non credi che
riterrebbero come realtà appunto quelle che vedono?».
«Necessariamente».
«E se il carcere avesse anche un’eco proveniente dalla parete di fronte, ogni
volta che uno dei passanti proferisse parola, credi che essi riterrebbero che ciò
che proferisce parole sia altro se non l’ombra che passa?»