5
Introduzione
Nel presente elaborato, attraverso l’analisi bibliografica si è cercato di proporre
una panoramica sistemica sui contributi e sugli autori che si sono dedicati ad un costrutto
poliedrico come l’empowerment, conteso da diversi ambiti, ma in maniera indifferenziata
proteso all’aumento del senso di potere personale e a fornire agli individui una nuova
capacità di lettura dei diversi paradigmi sociali, per individuarne i condizionamenti e le
opportunità che influiscono sulla loro vita quotidiana. Un antico proverbio affermava che
«non è possibile dirigere il vento, ma si possono aggiustare le vele nella giusta direzione»;
in questo senso, fare chiarezza su un concetto non inequivocabilmente definibile, in
quanto assai sfaccettato e collocabile a diversi livelli d’analisi, si ritiene possa essere utile
per rispondere alle sfide poste dai rapidi mutamenti che avvengono nella società, e
specificatamente nel mondo del lavoro. L’intento è quindi quello di fornire una
conoscenza approfondita dell’empowerment sia come caratteristica relativa al rapporto tra
la persona e gli ambiti in cui vive, che come approccio, metodo e strumento capace di
fornire principi operativi aggiuntivi, rispetto a quelli già presenti, all’interno della
Psicologia del lavoro e dell’organizzazione.
Il primo capitolo definisce il costrutto di empowerment e ne identifica le radici
nelle discipline e nei contesti dove il termine è stato consapevolmente coniato e utilizzato,
senza dimenticare di approfondire il rapporto che detiene con il potere e le dinamiche ad
esso interconnesse.
6
Il secondo capitolo è dedicato in generale alle ricerche psicologiche che hanno
originato le categorie concettuali collegabili all’empowerment. In questa parte, nel
considerarlo come un concetto ponte tra pubblico e privato, si è sottolineata la sua natura
multidimensionale. Inoltre si è analizzata l’influenza che alcuni teorici come Kurt Lewin,
Albert Bandura e Julian Rotter hanno avuto nella sua concezione.
Il terzo capitolo è dedicato a colui che può essere definito l’autore che più di ogni
altro ha studiato questo costrutto, lo psicologo americano Marc Zimmerman. Egli ha
infatti definito la tripartizione fra empowerment individuale, organizzativo e comunitario,
che ha condizionato profondamente gli studi successivi sull’argomento.
Il quarto capitolo è dedicato agli approcci di empowerment che assumono come
centrale lo sviluppo dell’individuo, come ad esempio il self-empowerment. Ampio spazio
è stato qui dedicato ai lavori di Gheno e Buscaglioni e a quello della Spreitzer. Con
questa parte dell’elaborato si introduce uno sfondo di riferimento dove l’approccio
dell’empowerment ha riscosso notevoli consensi, vale a dire l’ambito degli studi
organizzativi. Ed infatti con il quinto capitolo si chiude questo lavoro, analizzando
l’orientamento operativo che il costrutto indica per questo campo, evidenziando sia le
proposte metodologiche che i riscontri effettivi di un loro utilizzo in ambito aziendale.
7
1
Le Origini dell’Empowerment
«Non guardare dove sei finito
cadendo, ma dove sei scivolato».
(Proverbio africano)
1.1 Storia e definizione del costrutto
Una delle peculiarità della lingua inglese è il fatto di potersi avvalere di singole
parole in grado di sintetizzare differenti nozioni, ma che spesso risultano intraducibili
letteralmente nella nostra lingua. I tentativi di traduzione del termine empowerment sono
stati pertanto infruttuosi: «potenzializzare», «responsabilizzazione», «potenziamento»,
«possibilitazione», «impoteramento» (Dallago, 2006). Per riuscire a definire chiaramente
il significato nella nostra lingua è stato necessario utilizzare locuzioni verbali più
complesse: accrescere il potere, favorire l’acquisizione di potere, sviluppare e aumentare
le potenzialità e le possibilità di scelta o rendere un individuo o un gruppo in grado di
agire. Va specificato che la definizione stessa del termine contenuta nei maggiori
dizionari d’inglese non è univoca, poiché l’empowerment è di per sé un concetto assai
sfaccettato che mette in campo, per così dire, molti aspetti. L’Oxford English Dictionary
definisce il verbo to empower sia «investire legalmente o formalmente di poteri,
autorizzare, dare licenza», che «impartire il potere, mettere in grado, permettere»;
8
empowerment, poi, significa sia l’azione di investire, che lo stato di chi ne è oggetto: una
situazione, quindi, sia attiva che passiva; significa incremento delle proprie competenze
mediante l’esperienza di sé e delle proprie potenzialità (learning by experience).
Il termine empowerment ha dunque nel panorama attuale, diversi significati a
livello concettuale che configurano una rara ricchezza semantica, da renderlo assimilabile
ad ambiti e a situazioni molto diversificate.
Per introdurre l’origine di un concetto si è soliti partire dall’etimologia propria del
termine che lo rappresenta. In questa sede vorrei invece sovvertire questa modalità di
presentazione, motivandola con un estratto dell’avvertenza alla prima edizione del
Dizionario etimologico (Devoto, 1968, p. 7), il quale fa un’interessante riflessione
sull’etimologia e sugli effettivi propositi di tale scienza:
L’etimologia in sé non significa niente: è un fatto erudito, per il quale una
parola, staccatasi a suo tempo da un’altra parola, e per ciò stesso dimentica dell’antico
legame, viene ricondotta alla sua origine grazie ad un procedimento di ricerca della
paternità. Se noi ci rendessimo conto o avessimo sempre presente che «cattivo»
significava un tempo, come detto in questo libro, «prigioniero (del diavolo)», noi
falseremmo il significato della parola italiana, oppure le assegneremmo nel quadro del
lessico italiano, un campo di azione diverso da quello che le è proprio.
Ammesso che l’etimologia insegni cose non vere rispetto ai valori attuali,
essa deve proporsi di ricostruire situazioni proprie di altri tempi, con caratteri formali
fonetici e morfologici diversi dai valori attuali, con valori semantici propri di questi
altri tempi. Solo così la parola diventa fonte di storia, solo così l’etimologia diventa
cosa importante.
In questo senso, l’intento in questo capitolo non è quello di ricorrere ad una
scienza che ricerchi il significato e la storia di una parola, ma alle scienze e agli ambiti di
studio che hanno fatto proprio il termine empowerment e hanno contribuito a coniare la
sua moderna concezione.
9
Come ha evidenziato Piccardo (1995), l’empowerment ha una dimensione
poliedrica e per questo è stato adottato negli ultimi decenni da aree differenti quali quella
medica-psicoterapeutica, quella pedagogica, quella politica-istituzionale e quella
organizzativa. Ci occuperemo in seguito di analizzare nel dettaglio i campi di
applicazione, per ora va indicato il fatto che il rapido e contemporaneo successo
dell’empowerment, in mondi così differenti, è probabilmente dovuto anche ad una sintesi
originale che esso propone tra forza e debolezza, tra benessere e disagio, tra capacità e
difficoltà, tra disponibilità e lacuna (Bruscaglioni, Gheno, 2000), e come esso riesca a
trasformare la negatività in positività, sintetizzando sinergicamente le qualità di un
individuo per rendere possibile una ridefinizione e rivalorizzazione dei suoi punti forti e
deboli, facendogli così acquisire piena coscienza della loro esistenza.
L’empowerment oggi viene definito un costrutto, ovvero «un processo mediante il
quale gli individui aumentano le possibilità di esercitare un controllo attivo sulla propria
vita, sviluppando abilità che consentono loro di fare una lettura critica della realtà sociale
e stimolando l’elaborazione e l’assunzione di strategie opportune al raggiungimento degli
obiettivi personali e sociali» (Lavanco, 2002, p. 78). In altri termini l’insieme di
conoscenze, competenze e modalità relazionali, che permette ad individui, gruppi e
organizzazioni di effettuare un progetto di ampliamento di possibilità; l’empowerment
rappresenta dunque un «processo-risultato» (Spreitzer, 1997), in quanto si riferisce sia al
percorso per raggiungere un risultato, che al risultato stesso, che caratterizza lo stato
empowered degli individui interessati.
Alcuni autori (Sangiorgi, 2005) individuano le basi teoriche dell’empowerment nei
lavori di Bandura (1977, 1989) e nella nozione di locus of control di Rotter (1966). Il
primo, rinomato psicologo canadese, è l’autore maggiormente legato al costrutto
10
dell’autoefficacia (self-efficacy), che definisce in una delle sue prime opere in termini di
credenze nutrite dalla persona a proposito delle proprie capacità di attuare i
comportamenti necessari per raggiungere determinati obiettivi e risultati (Bandura, 1977).
Di recente lo stesso autore ha introdotto il concetto di controllo, inteso come la percezione
nell’individuo di poter padroneggiare gli eventi di vita attivando le risorse necessarie e
utilizzando appieno le proprie capacità nel raggiungimento degli obiettivi prefissati
(Bandura, 1989). Pertanto la persona con elevata autoefficacia è in grado di percepirsi
empowered relativamente ad un compito, così da poter raggiungere perfomance elevate
nelle situazioni di problem solving.
Analogamente, negli studi di Rotter (1966) sugli stili di attribuzione causale e
sull’interpretazione da parte degli individui degli avvenimenti della propria vita, la self-
efficay è associata alla capacità del soggetto di avere pieno controllo delle proprie
competenze, prospetto tipico del processo di empowerment, che in questo senso è
considerato come la via per rafforzare la propria autodeterminazione e autoregolazione,
capace di sviluppare appunto, parallelamente, un solido sentimento di autostima e
autoefficacia.
L’effettiva nascita del costrutto è però da contestualizzarsi nell’ambito della
psicologia di comunità, dove l’empowerment diviene l’obiettivo guida della disciplina.
Kieffer (1984) fu tra i primi psicologi che valorizzarono tale concetto definendolo come
un processo scandito da tre passaggi fondamentali:
• sviluppo di un potente senso di sé in rapporto con
l’ambiente;
• costruzione di una comprensione più critica delle forze sociali che
impattano la propria quotidianità;
11
• elaborazione di strategie funzionali e di reperimento di risorse per
raggiungere scopi personali e obiettivi sociopolitici.
Zimmerman e Rappaport (1988), due importanti ricercatori americani, studiarono
il rapporto tra empowerment personale e partecipazione alla vita di comunità. Rappaport
(1977; 1981), che per primo coniò il termine, lo accomunò alla possibilità dei singoli e dei
gruppi di controllare attivamente la propria esistenza, enfatizzando l’idea di «acquisizione
di potere». Fu principalmente Zimmerman che contribuì in modo determinante alla teoria
dell’empowerment in questo ambito di studio. La sua intuizione più grande è l’aver
donato al costrutto una natura multidimensionale, ideando una tripartizione tra livello
individuale, organizzativo e comunitario (Zimmerman, 2000). Nei capitoli successivi ci
focalizzeremo limitatamente alle prime due dimensioni, senza dimenticare come i tre
livelli siano però considerati come parte di un continuum dove il soggetto è in grado di
progredire attraverso un percorso dinamico.
1.2 Contesti disciplinari
Come precedentemente accennato passeremo brevemente in rassegna gli ambiti di
studio dove il concetto di empowerment è stato maggiormente impiegato, anche per
comprenderne pienamente il valore attraverso una visione olistica, rinviando ai capitoli
successivi un’analisi specifica delle are psicologiche e di quelle organizzative,
considerate centrali in questo lavoro.
Politica. Riprendendo alcuni principi aristotelici, il concetto di empowerment
sottolinea in ambito politico la stretta interdipendenza che esiste tra cambiamento
12
individuale e cambiamento sociale, «[…]già Aristotele, infatti, indicava come la
partecipazione fosse un modo per sviluppare la crescita morale e intellettuale nei cittadini
e come questa a sua volta fosse necessaria per la presa di decisioni condivise » (Dallago,
2006, p 11).
La diffusione più ampia del concetto si ebbe negli Sessanta relativamente ai
movimenti per i diritti civili. Gli studi di politologia statunitensi di quegli anni, dove il
quadro storico era appunto caratterizzato dall’emancipazione delle donne e dalla lotta
contro la discriminazione razziale, associano l’empowerment con l’azione sociale delle
minoranze oppresse. Il termine entra così a far parte della letteratura socio-politica e nella
moderna teoria della democrazia (Clegg, 1960), inteso, a livello politico-istituzionale,
come un processo democratico fondante, capace di consentire ai cittadini di ridefinire
liberamente ogni dimensione della vita comune, dell’organizzazione del governo, della
proprietà, del lavoro e delle relazioni interpersonali. Unger (1987) in questi termini
definisce l’empowerment in un’ottica di revisione del passato e di messa in discussione
critica di ciò che spesso viene dato per dovuto, riferendosi alla democrazia empowered
come all’allontanamento dalla totale dipendenza e accondiscendenza alle decisioni
dell’autorità, per avvicinarsi a una situazione dove l’autorità stessa sia messa in
discussione e sia trasformata a favore di un arricchimento sociale ed individuale. Anche
Bacharch (1993) prospetta con l’empowerment una rottura con una logica di passività e
subordinazione da parte di gruppi sociali più svantaggiati, attraverso il rafforzamento
dell’autonomia, l’assunzione di responsabilità e l’adeguato accesso alle risorse.
Weissberg (1999) associa il concetto di empowerment alla formazione di
organizzazioni, nelle minoranza etniche, finalizzate a migliorare le competenze fra gli
13
individui, attraverso la condivisione di risorse e informazioni, favorendo reciprocamente
la mobilità sociale e il miglioramento del proprio status.
Studi più recenti (Banducci, Donovan e Karp, 2004) si sono focalizzati sul definire
i gradi attraverso i quali i gruppi svantaggiati raggiungono l’empowerment
rintracciandone principalmente tre:
• rafforzare i legami rappresentazionali tipici del gruppo;
• promuovere gli atteggiamenti positivi nei loro confronti da parte del resto
della popolazione;
• incoraggiare una partecipazione politica finalizzata al miglioramento.
Va specificato però che i concetti che guidano le forme di empowerment politico
risultano particolarmente difficili da attuare, seppur estremamente validi teoricamente,
poiché nel lavoro sul campo «la purezza dei concetti e delle azioni legate
all’empowerment dovrebbe essere abbandonata in favore di compromessi che tengano
conto maggiormente dei contesti in cui si opera» (Friedmann, 1992).
Medicina. Il termine empowerment è stato introdotto in questo settore dallo
psicologo americano Bob Anderson (2000), precisamente nell’analisi del rapporto tra
medico e paziente, ridefinendo appunto la relazione di dipendenza che caratterizza i due
soggetti. Tradizionalmente l’utente doveva sempre sottostare alle decisioni del
professionista per fronteggiare i mali che lo affliggevano. Da un lato questa situazione
forniva al medico una positiva libertà decisionale, ma al tempo stesso veniva però
investito di elevate aspettative da parte del paziente, che si ritrovava in una dimensione
condizionata da un elevato grado di passività nella scelta della terapia. Ciò a sua volta
favoriva un abbassamento dell’umore e un’accettazione del disturbo che poco facilitavano