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1. Un lungo passato ma una storia breve
Parafrasando una celebre espressione di Hermann Ebbinghaus, famoso per gli
studi sperimentali sulla memoria, si potrebbe affermare che la teoria del doppio
processo di ragionamento “ha una storia breve ma un lungo passato”, evidenziando
in tal modo quanto fosse stato nei secoli continuo e fondamentale l‘ interesse degli
studiosi riguardo le origini del pensiero, i processi sottostanti il ragionamento, la
natura ed il funzionamento della mente e, più in generale, la razionalità umana.
Il lungo passato inizia con la tripartizione dell‘anima sia di Platone che di
Aristotele, che contiene in germe la distinzione tra sistema intuitivo e sistema
analitico, prosegue con la maggior parte degli altri filosofi, da Agostino a Frege, per
approdare infine alla psicologia sulle due sponde dell‘atlantico, da una parte, in
Europa, con Sigmund Freud e dall‘altra parte, negli Stati Uniti, con William James.
(Evans 2004; Frankish e Evans, 2009; Osman e Stavy, 2006; Sanfey e Chang, 2008,
Sloman, 1996;).
A partire da Platone, la cui concezione della ragione è molto simile a quella che
emerge dalla teorizzazione del doppio processo (Evans, 2004), la maggior parte dei
sistemi filosofici della tradizione occidentale ha sempre indagato il pensiero umano e
quasi tutti i filosofi, anche se in maniera diversa, concordavano nell‘individuare
nell‘anima umana due parti bene distinte e spesso in conflitto tra loro: una parte
controllata, riflessiva, razionale, e logica, che medita, riflette ed è attenta ai principi del
ragionamento e del buon senso; ed in antitesi un‘altra parte che è invece impulsiva,
irriflessiva, irruente, intuitiva e facilmente sviata dalle sensazioni e dai desideri. Tale
condizione dell‘anima umana è ben evidenziata dalla metafora platonica dell‘auriga
che cerca di controllare una biga tirata da due focosi cavalli che spingono in direzioni
opposte.
Per quanto riguarda l‘aspetto psicologico della distinzione tra le diverse
modalità di pensiero e di ragionamento, possiamo rintracciare già in Sigmund Freud,
nella ―interpretazione dei sogni‖ la differenziazione tra un sistema primario,
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associativo, implicito ed inconscio, che non segue le regole della logica ma è anzi
spronato dal principio del piacere ed un sistema secondario analitico, esplicito,
astratto, consapevole, capace di formulare pensieri razionali e di inferire regole
logiche, che obbedisce invece al principio di realtà. Si può a buona ragione ipotizzare
che tale distinzione tra sistema primario e sistema secondario in un certo senso anticipi
alcuni aspetti fondamentali della grande teorizzazione del processo duale. Il sistema
primario, così chiamato perché precede il secondario nell‘ evoluzione dello sviluppo
ontogenetico, è predominante fino a circa sette anni di età ma continua anche quando
viene in parte rimpiazzato dal processo secondario e, in coesistenza con quest‘ultimo,
continua ad operare in maniera inconscia influenzando spesso ed anche
significativamente il comportamento dell‘individuo, e divenendo consapevole solo in
situazioni particolari come quelle provocate da stress e conflitti.(Brakel e Shevrin,
2003).
Anche William James, dal canto suo, aveva individuato nel ragionamento due
separate modalità di pensiero, di cui una associativa ed esperienziale e l‘altra
analitica e deliberativa (Osman, 2004). Non è un caso che per questo autore ―tutto il
pensiero umano è essenzialmente di due specie - da una parte il ragionamento e
dall‘altra il pensiero narrativo, descrittivo, contemplativo‖ (James, 1878),
distinguendo di fatto tra un sistema associativo ed intuitivo, dominato dalla similarità
e dalla somiglianza e ed un sistema simbolico e razionale, governato da regole.
La storia breve riguarda invece gli ultimi 40/50 anni, in cui, con l‘affermarsi
della psicologia cognitiva si è passati dal paradigma della mente intesa come ―scatola
nera‖, per sua natura inconoscibile ed indagabile, da cui consegue che ciò che avviene
all'interno dell'individuo non è degno di attenzione, al paradigma della mente come
―sistema di elaborazione di simboli‖, cioè un elaboratore che controlla in
continuazione la congruenza tra il proprio comportamento e le condizioni oggettive
esistenti nell‘ambiente, compiendo esclusivamente scelte intenzionali. Anche se il
cognitivismo di fatto risultò essere una diretta filiazione del comportamentismo, alcuni
psicologi ritennero che fosse avvenuta una vera e propria rivoluzione di tipo
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Kuhniano, con una drastica e perentoria sostituzione del vecchio paradigma, che aveva
dominato per almeno mezzo secolo la psicologia statunitense, con uno nuovo e più
moderno.
La ―scatola nera‖, completamente ignorata dai comportamentisti e fino ad allora
appannaggio della sola metafisica, divenne oggetto di studio privilegiato da parte dei
cognitivisti. Non più incomprensibile ed inaccessibile, i suoi processi interni poterono
essere intuiti ed indagati sulla base del comportamento del soggetto. Con il
cognitivismo si sottolineò il ruolo del pensiero e del ragionamento, di come gli stati
interni ed anche gli eventi esterni possano influenzare il comportamento umano; si
cominciò a studiare la mente in maniera ―scientifica‖, tenendo presente che essa è il
luogo in cui si generano i processi e le rappresentazioni simboliche che producono le
prestazioni dell‘individuo nei diversi compiti cognitivi.
Nacque pertanto una gran messe di studi e di prove sperimentali che avevano
per oggetto i processi implicati nella conoscenza (percezione, immaginazione,
memoria, tutte le forme di pensiero e di ragionamento, decisione, scelta) considerati
funzionalmente elementi di direzione del comportamento. Tutti gli esperimenti
eseguiti avevano un potente obiettivo comune: ridurre sempre più l‘ampiezza della
―black box‖ e rendere sempre più accessibili i suoi meccanismi interni (Bargh e
Ferguson, 2000).
Un primo risultato piuttosto sorprendente cui giunsero i cognitivisti studiando
le abilità di ragionamento in laboratorio fu che, diversamente da quanto si credeva,
l‘essere umano, nell‘affrontare semplici compiti simili a quelli che realizzava nel suo
―quotidiano‖, spesso commetteva una serie di errori logici nel ragionamento e che
questi errori non erano per niente idiosincratici o casuali, ma erano piuttosto
caratterizzati dall‘essere sistematici, regolari e continui.
Va notato che fino a quel momento le scorrettezze e gli errori nel ragionamento
erano ritenuti molto poco rilevanti, perché considerati l‘effetto essenzialmente della
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disattenzione, dell‘incomprensione del compito o addirittura della stanchezza del
soggetto.
Come osserva Alexander Todorov “negli anni sessanta il quadro della
razionalità umana era molto chiaro ed ottimistico; si credeva che nella soluzione di
problemi induttivi le persone ragionassero secondo le leggi statistiche e nella
soluzione di problemi deduttivi in accordo con le regole logiche … … Negli anni
settanta ed ottanta le cose cambiarono drammaticamente: ci si accorgeva che le
persone non erano poi così razionali e logiche.‖ (Todorov 1997)
In effetti la tradizionale visione del pensiero umano era quella filosofica
secondo cui l‘anima razionale è in grado di conoscere la realtà in virtù delle sue
facoltà innate: scienza, intelligenza e sapienza. Di conseguenza si riteneva che anche
le persone poco esperte fossero in grado di trarre inferenze corrette utilizzando le
regole formali tramandate dalla logica aristotelica.
Inoltre va osservato che a partire dal Cartesiano ―cogito‖ in poi i filosofi e gli
psicologi hanno sempre più valorizzato gli aspetti cognitivi ed analitici del pensiero e
le capacità di ragionamento dell‘essere umano: per Jakob Bernoulli la legge dei
grandi numeri era una regola universale conosciuta anche dall‘uomo della strada, una
specie di istinto di natura; per Pierre Simon de Laplace la teoria della probabilità non
era altro che una formalizzazione del senso comune, ridotto a calcolo; a parere di
George Boole non esisteva solo una forte analogia tra il ragionamento e l‘algebra ma
anche una forte correlazione tra le loro leggi. Successivamente Piaget, riprendendo
una convinzione già espressa da Aristotele, arrivava a postulare che il ragionamento
non fosse altro che il calcolo proposizionale in quanto tale, cioè che ad un certo punto
del suo sviluppo intellettuale il bambino costruisce nella sua mente un insieme di
regole formali analoghe a quelle della logica proposizionale, una specie di ―logica
mentale‖ innata, che l‘individuo applica per ricavare inferenze sulla conoscenza del
mondo.
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Il paradigma dominante al tempo era dunque quello dell‘‖homo economicus‖,
secondo il quale l‘individuo agisce in tutti suoi comportamenti cercando di ottenere il
massimo risultato con il minimo sforzo; un modello di essere umano che non pone
limiti alle capacità ed alle risorse cognitive dell‘individuo, considerato estremamente
razionale. Questo modello verrà successivamente ridimensionato da Herbert Simon
(1956) con il suo concetto di ―razionalità limitata‖, secondo cui l‘essere umano, a
causa della complessità dei problemi da affrontare, della scarsa disponibilità di
informazioni e delle proprie limitate capacità di memorizzazione ed elaborazione delle
informazioni, non è in grado di prendere decisioni in modo ottimale, ma deve
piuttosto accontentarsi di scelte ―sufficientemente soddisfacenti‖, così come viene
efficacemente palesato dal neologismo coniato per l‘occasione da Simon: ―satisfice‖,
composto dall‘elisione delle parole inglesi “satisfy‖ (soddisfazione) e ―suffice”
(sufficienza), piuttosto che “optimize” (ottimizzazione).
In una cornice teorica di questo tipo era quindi ragionevole che in sede di
sperimentazione i cognitivisti si aspettassero risultati in linea con tali convinzioni,
mentre invece dal‘esito delle prove di laboratorio emergeva chiaramente che talvolta i
soggetti pensavano, decidevano ed agivano in maniera molto grossolana, diversamente
da quanto i filosofi, gli psicologi, i matematici e gli economisti ritenevano che
dovessero comportarsi seguendo i canoni dei modelli prescrittivi illustrati dal
paradigma della razionalità umana.
Un altro fatto abbastanza sorprendente era che questo tipo di errori nel
ragionamento sembrava generalizzato e ricorrente, nel senso che, indipendentemente
dalle differenze di sesso, di età, di censo, di intelligenza, era commesso
indifferentemente ed irrimediabilmente da una gran parte di persone. Anche una volta
riconosciuto razionalmente l‘ errore, si perseverava nel commetterlo, come se una
forza magnetica spingesse a ripetere con continuità l‘opzione errata, come se volesse
farsi largo ad ogni costo un ―insopprimibile pensiero intuitivo‖. (Hadar e Leron, 2006)
L‘evidenza che esistesse una forte discrepanza tra la competenza razionale
dell‘individuo e la performance nel ragionamento ha prodotto quello che fu definito
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“dibattito sulla razionalità” (rationality debate”) e che ha occupato ed ancora occupa
la scena delle discussioni tra gli psicologi. Con questo termine venne definita una viva
disputa sorta attorno alla possibilità che le azioni ed i comportamenti degli esseri
umani fossero o meno dotati di razionalità. I quesiti attorno ai quali si svolgeva il
dibattito erano del tipo:
perché persone notoriamente abili nelle congetture logiche (ad esempio
matematici, ingegneri, economisti, ecc) spesso commettono errori durante le prove
sperimentali di laboratorio?
Forse esistono diversi tipi di razionalità?
Ma gli esseri umani sono davvero razionali? E se lo sono, di quanto sono
razionali?
Può essere che in certe condizioni sia richiesto un tipo di razionalità diverso?
Se esiste questa difformità tra norme e comportamenti è realistico pensare di
prevedere i comportamenti umani?
Sono quesiti non di poco conto, incessantemente dibattuti dai maggiori filosofi
lungo i secoli, completamente rimossi dal comportamentismo nella prima metà del
ventesimo secolo e ricollocati empiricamente al centro dell‘interesse da parte degli
psicologi cognitivisti. (Leron e Hazzan, 2004).
Nel corso del dibattito si fronteggiarono da una parte coloro che, avendo
verificato che il ragionamento umano presenta nel quotidiano buchi, errori,
incongruenze di ogni genere, ritenevano il comportamento dell‘essere umano
completamente irrazionale, ed invece dall‘altra parte coloro (specialmente filosofi) che
ritenevano concettualmente impossibile togliere all‘uomo l‘unica caratteristica, la
mente razionale, che lo contraddistingue dagli altri esseri viventi. Essi affermavano
che i principi della razionalità fanno parte integrante della mente umana, perché se gli
esseri umani fossero stati così irrazionali fin dal principio, probabilmente la nostra
comune antenata ―Lucie‖ ed i suoi coetanei non avrebbero avuto alcuna probabilità di
sopravvivenza nelle selvagge savane della Rift Valley dell‘Africa sudorientale.
Altri studiosi osservavano che di norma l‘essere umano, anche se talvolta
commetteva errori madornali nei compiti di ragionamento, riusciva comunque ad
utilizzare delle strategie, che, sia pur diverse dalle regole tradizionali, si rivelavano
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spesso più veloci, più efficaci e più corrette. In caso di errore l‘individuo era
comunque in grado di comprendere come e perché vi era incappato e di capire il
percorso necessario per arrivare alle corrette soluzioni. Inoltre, secondo costoro, tutto
sommato, le regole logiche (normative) che ci permettono di giudicare la razionalità
sono prodotte dallo stesso essere umano e rappresentano quindi l‘effetto della stessa
logica umana.
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2. Errori sistematici nel ragionamento
Questa specie di attrazione fatale che spingeva gli esseri umani verso le
scorciatoie del giudizio e del ragionamento, producendo spesso come conseguenza
errori sistematici, ha attirato l‘attenzione di molti psicologi cognitivi, che hanno
iniziato ad indagare questo tema. Su tutte almeno due ricerche sembrano degne di
attenzione o per il carattere pionieristico (le ricerche di Wason) oppure per il
riconoscimento decretato loro dalla comunità scientifica: il premio Nobel 2002 a
David Kahneman (le ricerche di Kahneman e Tversky).
2.1 Le ricerche di Peter Wason
Il primo esperimento, divenuto anche il più famoso ed il maggiormente studiato
è stato effettuato nel 1968 in Inghilterra da Peter Wason con il cosiddetto ―compito di
selezione‖ o ―selection task‖, attraverso il quale egli intendeva individuare quali
elementi fossero necessari e rilevanti per decidere della verità o della falsità del forse
più importante costrutto della logica, il sillogismo condizionale nella forma ―se p …
allora q‖ in cui “p‖ è la premessa e “q” è la conclusione e che invece dimostrò
paradigmaticamente l‘insufficienza del ragionamento umano, molto spesso intriso di
errori e inesattezze.
La versione standard consisteva nel proporre quattro carte aventi su un lato una
lettera e sull‘altro lato un numero, così come evidenziato qui di seguito:
p non p q non q
Ai partecipanti venivano date le seguenti istruzioni: ―La regola è che ogni
carta con una vocale su un lato ha anche un numero pari sull‟altro lato. Il vostro
compito consiste nel selezionare solo quella (e) carta (e) che potrebbero violare la
regola.‖
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La ratio di tale compito consiste nel fatto che se il ragionamento umano segue le
regole della logica formale dovrebbe risultare relativamente semplice la soluzione del
sillogismo. Da un punto di vista logico il criterio da utilizzare per indicare le risposte
corrette corrisponde alla regola della falsificazione, indicata da Popper per la verifica
logica delle ipotesi; pertanto si dovrebbero sempre selezionare la carta p (A) e la carta
non q (7), le sole in grado di falsificare la regola, se si scopre sul lato nascosto
rispettivamente un numero dispari ed una vocale.
Al contrario le carte aventi la consonante (q) o il numero pari (non-p) su un lato
potrebbero mostrare qualsiasi simbolo sull‘altro lato, senza con ciò riuscire a
falsificare la regola. La scelta corretta consiste dunque nell‘ optare sempre per la carta
con il numero dispari (non q), l‘unica, oltre alla carta con la vocale (p) che potrebbe
falsificare la regola. Tuttavia solo il 4% sceglieva le carte ―A‖ (p) e ―7‖ (non q) in
conformità con il criterio della falsificazione Popperiana, mentre la maggior parte dei
soggetti di solito sceglieva le carte p (A) e q (K) o solamente la carta p (A).
Anche nelle repliche dell‘esperimento le selezioni corrette venivano effettuate
molto raramente perché i partecipanti tendevano spesso a scegliere erroneamente le
carte che di fatto avrebbero invece dovuto confermare la regola, (confirmation bias=
tendenza alla conferma), oppure le carte nominate nella regola (matching bias=
tendenza al riscontro), mentre quasi nessuno si orientava invece verso le carte che
avrebbero potuto falsificarla (Wason, 1968). L‘incongruenza tra lo standard
normativo imposto dal criterio di falsificazione ed il comportamento utilizzato per
convalidare la regola fece sorgere seri dubbi sull‘esistenza della razionalità umana
(Todorov 1997 ) e suggerì anche che spesso non ci si rende conto delle falle esistenti
nel ragionamento.
Una vasta letteratura psicologica ha tentato nei successivi 40 anni di chiarire
perché così poche persone riescano a compiere la corretta selezione, ma ancora oggi
non si è arrivati ad una spiegazione condivisa. Sono state date molte spiegazioni, ma le
più probabili sono le seguenti :
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1. ―confirmation bias‖ o tendenza alla conferma: è l‘errore sistematico consistente
nel desiderio di confermare la regola. In effetti la strategia falsificante non è
molto congeniale all‘essere umano, non è così spontanea come la strategia
confermante e richiede uno sforzo cognitivo superiore, per cui la maggior parte
dei soggetti spesso cerca subito ed individua facilmente i casi con cui
confermare l‘ipotesi, mentre cerca di evitare i casi che la falsificano.
2. ―matching bias‖ o tendenza alla riscontro: con questo errore sistematico il
soggetto tende a focalizzarsi ed a scegliere i casi espressamente citati nella
domanda; questa trappola mentale, corrisponde alla tendenza a scegliere le carte
indicate nella regola, indipendentemente dal ragionamento.
Va notato che queste prime due propensioni conducono i soggetti allo stesso risultato quando
la seconda parte della regola viene formulata in termini positivi (“se da un lato c‟è una
vocale allora sull‟altro lato c‟è un numero pari”) mentre differiscono tra loro se invece la
seconda parte della regola è formulata in termini negativi (“se da una lato c‟è una vocale
allora sull‟altro lato non c‟è un numero pari”). Nel primo caso il ragionamento corretto
dovrebbe indicare le carte p e non q (vocale e numero dispari) mentre il confirmation bias ed
il matching bias indicano entrambi p e q (vocale e numero pari); nel secondo caso il
ragionamento corretto dovrebbe indicare p e q (vocale e numero pari), il confirmation bias
porta ad indicare p e non q (vocale e numero dispari) mentre il matching bias induce ad
indicare p e q (vocale e numero pari).
3. ―contesto deontico‖: se il compito viene presentato in un contesto in cui sia
necessario concretizzare un obbligo od un permesso viene facilitata la
produzione di risposte corrette. (Johnsons-Laird, Legrenzi, Legrenzi, 1972; cfr.
anche Mosconi 1990).
I primi ad usare nello stesso esperimento sia una versione tematica che una
versione deontica furono Griggs e Cox (1982), i quali idearono il “Drinking
Age Problem‖ durante il quale sottoponevano al soggetto le seguenti carte,
raffiguranti su un lato una bevanda e sull‘altro lato l‘età del bevitore :
BIRRA 21 ANNI ARANCIATA 18 ANNI
(p) (q) (non p) (non q)
e, definendo la regola ―se una persona beve birra deve avere almeno 21 anni‖,
invitavano l‘esaminando a girare le carte che a suo parere avrebbero potuto
violare la norma. In questo caso le risposte corrette aumentavano sensibilmente
e drasticamente (oltre il 70%) a conferma che quando si deve agire sulla base di
obblighi, permessi e proibizioni il ragionamento viene largamente agevolato.
Come osserva Stanovich (2003) dopo 15 anni di ricerca, con la trovata del