PREMESSA
Il mio interesse per Bill Viola nasce qualche anno fa, quando, guardando un video di un concerto dei
Nine Inch Nails (era il Fragility Tour del 2000), rimasi affascinata dalle suggestive rappresentazioni video
che prendevano vita alle spalle dei musicisti: prati disseminati di fiori dall’arancione sgargiante alternati a
cieli infiniti e mutevoli, e soprattutto paesaggi marini di ispirazione nipponica squassati da onde lente e
devastanti; in seguito riscontrai la cifra stilistica dell’elemento acquatico nella maggior parte delle opere
di Viola, riconosciuto a livello internazionale come l’artista video più interessante dei nostri tempi.
Prendendo spunto dalla mostra partenopea Bill Viola per Capodimonte, da me visitata nel gennaio del
2011, ho dunque voluto analizzare la presenza quarantennale di questo videoartista in Italia, che ha tro-
vato nel nostro Paese terreno fertile per le sue sperimentazioni elettroniche, nonché un grande riscon-
tro di pubblico e critica.
Prima di parlare della fortuna di Bill Viola, però, ho voluto – in questo saggio – gettare un doveroso
sguardo d’insieme sulla multiforme e stimolante storia della videoarte, di cui l’artista italo-americano è
un protagonista di spicco, approfondendone soprattutto gli aspetti relativi al suo sviluppo nel nostro
Paese. L’Italia ha rappresentato infatti, nell’ambito delle arti elettroniche, una fucina di creatività d’im-
portanza fondamentale a livello internazionale: basti pensare all’esperienza fiorentina di art/tapes/22,
che ha permesso ad un giovanissimo Bill Viola di inserirsi in un ambiente di lavoro favorevole alle sue i-
stanze e alla sua sensibilità, accompagnandolo verso la ricerca della propria identità artistica.
Il primo capitolo tratta dunque della storia della videoarte, linguaggio che nasce canonicamente con
l’avvento della televisione, ma che in realtà è un coacervo di svariati apporti, dalla fotografia al cinema,
dal teatro alla musica elettronica. Verranno, in questa sede, presi in considerazione gli aspetti che hanno
portato, negli anni, ad uno spostamento di significato nel mondo del cinema, a causa del passaggio
dall’analogico al digitale, nonché le nuove prospettive delineatesi con l’avvento della cosiddetta interme-
dialità.
Per avvicinarsi al fulcro della questione, ho preso in esame le più importanti esperienze videoartistiche
italiane, come il già citato centro di produzione art/tapes/22 e il Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti
a Ferrara, entrambi guidati da donne curiose e carismatiche, Maria Gloria Bicocchi e Lola Bonora. Il di-
scorso si svolgerà poi sui sentieri meno convenzionali delle esperienze videoteatrali, che in Italia hanno
raggiunto livelli di eccellenza tramite le figure di Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Gianni Toti e Luca
Ronconi. Quindi l’incontro con Bill Viola, personaggio che in Italia ha trovato una sua dimensione arti-
stica particolare, da quando, giovane tecnico neolaureato, giunge a Firenze per intraprendere quella che
sarà la sua brillante carriera di videoartista. Dagli esordi quasi in sordina, quindi, alle esposizioni che lo
vedono protagonista assoluto, come Visioni Interiori al Palazzo Delle Esposizioni di Roma nel 2008, pas-
sando per una miriade di altre mostre sparse per l’Italia, dalle piccole chiese – visto il carattere religioso
di molte delle sue opere – agli spazi ipertecnologici e interattivi. Bill Viola rappresenta così il passato
che si proietta nel futuro, o viceversa, trasportando lo spettatore in un vortice emozionale che non può
lasciarlo indifferente: «I quadri antichi sono stati per me solo il punto di partenza; non sono affatto in-
teressato all’arte di appropriazione o parodia. Il mio intento era quello di aggredire, penetrare nel corpo
di queste immagini, incorporarle, abitarle, sentirle respirare», sostiene l’artista.
Questo saggio si propone dunque di analizzare – inserendola in un contesto storico ben preciso – la
presenza di Bill Viola in Italia dagli anni Settanta ad oggi, valutando anche come l’artista sia stato for-
temente influenzato dalla nostra cultura (e dall’arte rinascimentale in particolare), e come la sua presen-
za ricorrente nel nostro Paese ci aiuti anche a comprendere meglio noi stessi e il nostro passato, attra-
verso la sensibilità del suo sguardo elettronico.
5
CAPITOLO I
Il fenomeno della videoarte e i suoi sviluppi in Italia.
Gli esordi di Bill Viola.
1. La nascita della televisione
All’inizio degli anni Sessanta nascono le prime sperimentazioni sull’idea di vi-
deo (letteralmente “io vedo”, dal latino videre) inteso come linguaggio elettroni-
co, profondamente differenziato dalle modalità di espressione, realizzazione,
diffusione e fruizione del dispositivo cinematografico. La videoarte ha infatti
creativamente fatto uso di ciò che differenzia il modo di produzione elettro-
nico da quello ottico/meccanico/chimico proprio del cinema. Occorre tutta-
via fare un passo indietro per comprendere il percorso che ha condotto il
meccanismo video dalla sottoutilizzazione tecnica ed estetica fattane dalla te-
levisione al suo divenire oggetto di analisi artistica.
Prima ancora che la televisione divenisse un fenomeno di massa, alcuni teorici
e artisti provenienti dall’ambito cinematografico cominciarono ad interessarsi
ad un eventuale rapporto tra estetica e quello che potrebbe essere definito un
proto-linguaggio audiovisivo: Il cinema e le arti meccaniche
1
di Eugenio Giovan-
netti – redattore del Giornale d’Italia e del Resto del Carlino, nonché noto scrit-
tore e maestro di tanti giornalisti – parla, anticipando il famoso testo di Walter
Benjamin,
2
della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte: in questo innovativo
saggio si guarda al cinema non solo come a un’arte tecnica, ma come a un me-
dium dotato di leggi peculiari, anticipando così un indirizzo di studio tipico de-
gli ultimi decenni. Per il giornalista, il 1930 segna il dominio della ragione, in-
1
Eugenio Giovannetti, Il cinema e le arti meccaniche, Sandron, Palermo 1930.
2
Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technishen Reproduzierbarkeit, in “Zeitschrift für Sozialforsch-
ung”, Parigi 1936 [trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966].
6
tesa però come sintesi di organicità e meccanicità; l’arte, valendosene, non può
prescindere dal “subcosciente dinamico” già valorizzato da Freud e Joyce, “e-
sploratore degli abissi interiori”. Le “arti meccaniche”, basate sulla diffusione
e riproduzione meccanica, non potranno che permettere una nuova e più am-
pia democrazia della fruizione, come traspare dal caso del cinema, medium in
grado di coinvolgere tutte le classi. Giovannetti si esprime a favore del sonoro
e non manca di elogiare la standardizzazione (anche agricola), insieme a tutto
quanto abbia sentore di funzionalità. Il libro si chiude con un acuto capitolo
dedicato al futuro avvento della televisione. Dello stesso periodo il Discorso alla
prima conferenza sul cinema sonoro del regista e teorico cinematografico polacco
Dziga Vertov è ugualmente precursore: alfiere del vero cinema rivoluzionario
sovietico, Vertov, con la teoria del kino-glaz (cine-occhio),
3
pone le basi non
soltanto per il cinema documentario posteriore ma influenza anche i grandi
documentari di Ejzenstejn nonché la nuova letteratura costruttivistica sovie-
tica e la cosiddetta “letteratura del fatto” (per esempio Tret’jakov), che co-
struisce anch’essa i propri testi a partire da fatti e reportage, negando il roman-
zo di invenzione come cascame letterario borghese. Vertov e gli altri “kinogla-
zisti” (per esempio Kaufmann, Kopalin, Belakov, Turin) hanno l’intenzione di
offrire allo spettatore una visione del mondo più efficace di quella che coglie
l’occhio umano, privo di macchina da presa. Essi vogliono catturare la realtà e
la vita con la macchina da presa, facendo uso di diversi punti di vista e angoli,
di diverse prospettive e di tutte le possibilità tecniche. Queste singole
3
«Il Kinoglaz, […] “ciò che l’occhio non riesce a vedere”, […] il microscopio e il telescopio del tempo, […] il
negativo del tempo, […] la possibilità di vedere senza confini né distanze, […] “la vita colta sul fatto” […],
non in quanto tale, ma per mostrare gli uomini senza maschera e senza trucco, per coglierli con l’occhio della
cinepresa nel momento in cui non stanno recitando, per leggere i loro pensieri messi a nudo dalla cinepresa
[…] [per Kinoglaz si sottintendono] […] tutti i mezzi cinematografici, tutte le invenzioni cinematografiche,
tutti i procedimenti e i metodi capaci di scoprire e mostrare la verità […]. Il Kinoglaz come possibilità di ren-
dere visibile l’invisibile, di rendere chiaro ciò che è oscuro, palese ciò che è nascosto, di smascherare ciò che è
celato, di trasformare la finzione in realtà, di fare della menzogna verità. Il Kinoglaz come fusione della sci-
enza e della cinecronaca allo scopo di lottare per la decifrazione comunista del mondo, come tentativo di mo-
strare sullo schermo la verità: la cineverità”» [Dziga Vertov, 1924]; in Giorgio De Vincenti, Andare al cinema,
Editori Riuniti, Roma 1988.
7
inquadrature, questo materiale “di prima mano” viene poi montato da Vertov
in grandi quadri dinamici: «Il kinoglaz significa la vittoria sul tempo, un legame
visuale tra fenomeni temporalmente lontani»,
4
sostiene il regista sovietico in
un suo manifesto pubblicato nel 1919 dagli adepti del kinoglaz, My [Noi].
Possiamo vedere in Dziga Vertov l’autentico “inventore” della televisione, al-
meno sul piano creativo, nell’articolo Kinopravda e Radiopravda del 1927, dove
già indicava le straordinarie possibilità di un mezzo – che ancora non aveva
nome – per la visione a distanza di immagini e suoni in movimento: quello che
lui chiama «il futuro radiofilm»; nello stesso articolo egli ipotizzava una pre-
sentazione di forme diverse di “cinema” nell’arco delle ventiquattr’ore (cine-
giornali, varietà, comics, film a soggetto ecc.), straordinariamente vicina a quello
che sarà il palinsesto televisivo a partire dagli anni ‘50. Rudolf Arnheim , con
Film come arte, porta invece in Italia dalla Germania le nuove teorie sulla visione,
e nel saggio Vedere lontano sostiene che «la televisione aumenta enormemente
le possibilità della radio nel fornire informazioni documentarie, […] è un mez-
zo di trasporto culturale. […] La televisione muta il nostro atteggiamento di
fronte alla realtà: ci fa meglio conoscere il mondo e soprattutto ci dà la sen-
sazione della molteplicità delle cose che accadono contemporaneamente in
luoghi diversi. Per la prima volta nella storia dello sforzo compiuto dall’uomo
per capire, la simultaneità può essere sperimentata come tale».
5
È comunque il regista Sergej Ejzenstejn a parlare chiaramente del medium tele-
visivo, quasi in modo profetico, nel saggio Il cinema e il miracolo della televisione,
del 1946; qui il regista definisce così le possibilità espressive del medium tele-
visivo: «Ed ecco che nel miracolo della televisione ci sta dinnanzi come una
realtà la vita viva, che minaccia di mandare in pezzi i risultati, ancora non
completamente assimilati e chiariti, dell’esperienza del cinema muto e sonoro.
4
Karel Teige, Sull’estetica del film, in Marco Maria Gazzano (a cura di), Il cinema dalla fotografia al computer. Lingu-
aggi, dispositivi, estetiche e storie moderne, Quattro Venti, Urbino 1999, p. 61.
5
Ernst Rowholt, Film als Kunst, Berlin 1932 [trad. it. Film come arte, Il Saggiatore, Milano 1960].
8
Nella televisione il montaggio diventerà lo stesso corso immediato della per-
cezione degli avvenimenti nel preciso istante in cui il processo si svolge».
6
Ejzenstejn è stato un pioniere e teorico del montaggio cinematografico, speri-
mentando nuove modalità di produzione del senso attraverso tale pratica; con-
vinto che il montaggio potesse essere utilizzato efficacemente per manipolare
le emozioni e le convinzioni ideologiche degli spettatori, non smise mai di per-
fezionarlo e di ridefinirne costantemente l’idea e le sue possibilità espressive,
giungendo alla creazione del cosiddetto montaggio delle attrazioni.
7
La natura sperimentale e critica del suo lavoro si fondava sulla ricerca di un
linguaggio cinematografico sempre più complesso e antinaturalistico, ovvero
l’opposto di ciò che si stava imponendo nella linea culturale dell’Unione So-
vietica stalinista. Ovvio quindi il suo interesse verso un nuovo medium – quello
televisivo – così avanguardistico che avrebbe annullato lo spazio e il tempo.
In realtà le ricerche sulla televisione (termine che fonde insieme greco e latino
e che indica una “visone da lontano” o “del lontano”) partono già alla fine
dell’Ottocento, con la scoperta delle proprietà del selenio, che consente la tra-
sformazione di variazioni luminose in impulsi elettrici; solo fra il 1920 e il
1930, però, si cominciano a mettere a punto apparecchi e procedimenti (sia
meccanici che elettronici), nonché i primi televisori a valvole e le prime te-
lecamere. La televisione si affermerà, dopo alcune sperimentazioni pionieri-
stiche in Europa, solo dopo la Seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1955,
diventando ben presto (dopo una prima fase caratterizzata dagli alti costi e
quindi da una fruizione collettiva, in case e locali pubblici), un medium a fru-
6
Sergej Michajlovič Ejzenstejn, Il cinema e il miracolo della televisione, in Marco Maria Gazzano (a cura di), Il cine-
ma dalla fotografia al computer. Linguaggi, dispositivi, estetiche e storie moderne, Quattro Venti, Urbino 1999.
7
Ejzenštejn teorizzò il “Montaggio delle attrazioni”. Nel 1923 pubblicò un saggio in cui anticipava la pratica
che avrebbe usato poi nelle sue pellicole. Nei suoi lavori, come Sciopero! (1925) o La corazzata Potemkin (1925),
il regista inserì varie immagini non diegetiche, cioè estranee al testo filmico rappresentato, ma che per la loro
capacità di esemplificazione potevano essere associate alle scene. Ad esempio, in Sciopero!, la soppressione del-
la rivolta viene mostrata attraverso lo sgozzamento di un bue. Praticò un’estrema frammentazione delle in-
quadrature, per cui un unico gesto viene mostrato da più angolazioni. Questo metodo di montaggio si con-
trapponeva al montaggio classico o invisibile. Hollywood, infatti, attraverso i campo-controcampo o i raccor-
di sullo sguardo cercava di rendere il montaggio il più fluente possibile.
9
izione familiare; anzi, con il passare dei decenni, individuale, con la presenza in
casa di più apparecchi. Se la forza di attrazione del cinema risiedeva nella ri-
produzione della realtà nel suo dinamismo, esaltata dalle dimensioni dello
schermo cinematografico, la televisione seduce per la sua capacità di portare
tra le mura domestiche l’attualità planetaria, in un rapporto intimo che ci per-
mette (potenzialmente) di analizzarla meglio, confrontandosi con essa.
La premessa è la nascita del linguaggio video, evolutosi poi nelle diverse rami-
ficazioni della videoarte a partire dall’input dell’immagine elettronica proposto
dalla televisione, che insieme alla radio nasce nell’ambito delle ricerche per ot-
tenere immagini in movimento (il cinema): tutti questi linguaggi costituiscono
la famiglia dei cosiddetti media della simultaneità.
8
I pionieri della nuova corrente artistica videografica hanno percepito le enormi
potenzialità espressive del medium (simultaneità, immediatezza, universalità) e
hanno voluto proporre una loro visione del mezzo e di conseguenza del mon-
do: «Art de la recherche des anneés 70, l’art-vidéo ne peut se definir que dans
la recherche. L’artiste est devenu chercheur. La camera et le magnétoscope lui
tiennent lieu de tubes de peinture et de pinceaux, et sous l’impact de son ima-
gination créatrice, stimulée par les apports de la technologie, l’appareillage éle-
ctronique peut devenir une peinture ou une sculpture d’un type nouveau.»
9
Il primo passo in tal senso viene compiuto in Italia da Lucio Fontana: le sue i-
dee spazialiste coinvolgono, a partire dal 1952, anche il medium televisivo: di
quest’anno è infatti la pubblicazione del Manifesto del movimento spaziale per la te-
levisione, redatto in occasione delle trasmissioni presso la sede RAI di Milano.
Il manifesto dichiara: «Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mon-
do, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate sul concetto
dello spazio, visto sotto un duplice aspetto:
8
Sandra Lischi, Il linguaggio del video, Carocci, Roma 2005.
9
Dany Bloch, Art et video 1960 – 1980/82, edizione Flaviana, Locarno, in Vittorio Fagone (a cura di), L’Art
Vidéo 1980 – 1999 – Vingt ans du Video Art Festival, Locarno. Recherches, théories, perspectives, Mazzotta 1999, p. 91.
10
- il primo, quello degli spazi, una volta considerati misteriosi, ed ormai noti e
sondati, e quindi da noi usati come materia plastica;
- il secondo, quello degli spazi ancora ignoti nel cosmo, che vogliamo affron-
tare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell’arte come divinazione.
La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrazione dei no-
stri concetti.» Secondo Fontana, la televisione rappresenta un mezzo total-
mente innovativo, in grado di annullare il tempo e le distanze; in questo senso,
egli parla di un’emancipazione dell’arte dalla sua componente materica.
Concetto che però verrà smentito negli anni Ottanta, quando si faranno i con-
ti con la deteriorabilità dei supporti magnetici. Il flusso elettronico, quindi,
prosegue potenzialmente il suo cammino nel tempo e nello spazio, ma deve
fare i conti con l’usura a cui sono sottoposti i mezzi di diffusione che lo ren-
dono fruibile al pubblico.
Dall’inizio degli anni Cinquanta alla seconda metà dello stesso decennio, si a-
pre un acceso dibattito intorno al medium televisivo, volto a criticarne gli aspet-
ti più populisti e a valutarne le reali potenzialità.
Anche in Italia ferve la discussione sulla commutabilità della televisione in
un’ottica artistica, come dimostrano le riflessioni di Carlo Ludovico Ragghianti
nel saggio La televisione come fatto artistico (1955), nel quale afferma come l’imma-
gine elettronica televisiva sia caratterizzata da alcuni elementi che la rendono
particolarmente adatta a diventare uno strumento artistico: «la bassa definizio-
ne dell’immagine elettronica, l’esiguità dello schermo, la vibrazione d’atmosfe-
ra» rimandano al pennello elettronico, concetto cardine della videoarte in quanto
alla base della sua tecnologia. Curioso il fatto che proprio la bassa definizione
possa essere una caratteristica a favore dell’incontro tra arte e televisione,
aspetto peraltro considerato fondamentale anche nell’analisi del sociologo e
11
teorico della comunicazione Marshall McLuhan.
10
Egli infatti definisce la TV
un medium freddo, ossia uno strumento che non raggiunge l’alta definizione e
di conseguenza necessita di un completamento “cerebrale” da parte dell’osser-
vatore, quasi come un quadro puntinista.
Monitor televisivo visto come lampada fantasmatica e allucinogena: «La tv ci
impegna, ci assorbe. È dunque banale e infondata l’osservazione secondo la
quale essa è un’esperienza passiva: la tv richiede una reazione creativamente
partecipazionale […]. L’immagine televisiva ci chiede in ogni istante di “chiu-
dere” gli spazi del mosaico con una convulsa partecipazione dei sensi che è
profondamente tattile perché il tatto è un rapporto tra tutti i sensi.»
McLuhan sottolinea inoltre le grandi differenze con il medium cinematografico,
di carattere caldo: la tv, oltre a non offrire informazioni particolareggiate degli
oggetti come il cinema, ha un linguaggio espressivo completamente differente
(l’attore televisivo ha un modo di rapportarsi allo spettatore molto naturale e
diretto, e la regia fa largo uso del primo piano, senza innescare la reazione e-
motiva che l’uso di tale inquadratura comporta al cinema, data la grandezza
dello schermo); «L’image vidéo n’est jamais “fixe et son contour se redessine
en performance”. Ou peut dire que la vidéo nous représent le présent, ou le
passé récent, d’une manière qui dépasse largement la projection totalement
statique, purement formelle du film, et qu’elle insiste sur le “quand”et le “ou”
genéralement absents au cinema. Le medium permet donc la manipulation de
l’espace en même temps que celle du temps.»
11
10
Herbert Marshall McLuhan è stato un sociologo canadese. La fama di Marshall McLuhan è legata alla sua
interpretazione visionaria degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso sia sui
comportamenti dei singoli. La sua riflessione ruota intorno all’ipotesi secondo cui il mezzo tecnologico che
determina i caratteri strutturali della comunicazione produce effetti pervasivi sull’immaginario collettivo, indi-
pendentemente dai contenuti dell’informazione di volta in volta veicolata. Di qui, la sua celebre tesi secondo
cui “il mezzo è il messaggio”.
11
Bloch, op. cit., p. 95.
12
Un altro fattore che contraddistingue, in maniera decisiva, l’immagine video ri-
spetto a quella cinematografica – oltre alla capacità della televisione di trasmet-
tere eventi in diretta – è la possibilità di trattamento della prima attraverso l’u-
tilizzazione di specifici dispositivi computerizzati che sono in grado di mo-
dificarne l’organizzazione strutturale visiva e cromatica; il colore dell’immagine
elettronica è il risultato delle diverse combinazioni dei tre colori assunti come
fondamentali (il rosso, il blu e il verde) in grado di produrre anche il bianco e
il nero. La scomponibilità in diretta dell’immagine elettronica (dovuta ai suoi
segnali luminosi alterabili in tempo reale) consente una varietà estesissima di
effetti: le alterazioni delle immagini, le coloriture spesso accese e non naturalisti-
che, le scomposizioni dello schermo, le astrazioni a partire dai segnali visivi e
sonori, giochi di velocizzazione e di ralenti e loro interazione; e poi il feedback
(effetto scoperto subito dai videoartisti e collegato al funzionamento del circu-
ito chiuso) e il loop (una sorta di feedback che, applicato alle immagini, deter-
mina una serie di effetti dovuti al ritorno di segnale, ma che costituisce già da
solo un’immagine autogenerata), il chromakey (o intarsio o blue studio), che con-
sente di combinare in una stessa inquadratura due diverse immagini, “inca-
strandole” in fase di montaggio e usando in ripresa un colore di sfondo (spes-
so il blu), che viene come “azzerato” per inserirvi un’altra porzione di immagi-
ne. Questo effetto è usato anche negli studi televisivi perché agevola la ge-
stione di più immagini (ad esempio il meteorologo e il suo pannello): il pan-
nello e lo sfondo in studio sono in realtà blu, ed è il regista a mandare in onda
l’immagine che esso “contiene”, intarsiandola nell’altra. Infine il lumakey (o chi-
ave di luminanza), basato sulle zone di intensità luminosa invece che su un de-
terminato colore. Le differenze tra i due tipi di immagini portano così a diffe-
renti risultati estetici ma costituiscono anche uno spostamento di significato
che sarà di importanza fondamentale alla fine del XX secolo.