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dovuto “all’angustia del luogo di lavoro e agli insulti da parte del
caporeparto”(Tribunale di Torino, Sezione Lavoro I grado, 16 Novembre 1999).
Questo lavoro vuole essere una rassegna delle più importanti ricerche
effettuate negli anni’90 in Europa su un particolare fenomeno riscontrato in
ambito lavorativo, denominato “mobbing” dallo psicologo svedese Heinz
Leymann, che consiste in una forma di violenza psicologica messa in atto
deliberatamente da parte di uno o più aggressori nei confronti di una “vittima
designata”. La maggior parte dei dati proviene da ricerche effettuate nei paesi
Scandinavi e in Germania ed è proprio in queste regioni che i dati statistici
mostrano una diminuzione degli incidenti in passato più comuni e un
incremento dei problemi organizzativi dovuti a fenomeni di natura relazionale.
Il primo capitolo ci presenta una descrizione scientifica del fenomeno, e
del suo modo di radicarsi nei rapporti di lavoro; il secondo capitolo espone i
risultati delle ricerche sulle cause del mobbing; nel terzo capitolo viene
analizzata la diffusione della vittimizzazione nel mondo del lavoro europeo; nel
quarto capitolo vengono descritti i disastrosi effetti individuali e organizzativi
causati dal mobbing; nel quinto capitolo vengono esaminate le possibili misure
di prevenzione; nel sesto capitolo viene presentata una panoramica sulla
normativa già esistente in Europa sul tema delle molestie morali prendendo
anche in considerazione la realtà lavorativa italiana.
A nostro avviso, avendo assunto il fenomeno in materia dimensioni
considerevoli, in molti paesi europei, e dal momento che esso stesso è poco
conosciuto in Italia dal punto di vista della ricerca scientifica, è verosimile che il
mobbing divenga nel nostro paese il tema principale di molti lavori di studio
delle varie branche delle scienze dell’organizzazione trattandosi di un fenomeno
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che coinvolge relazioni sociali, industriali, lavorative ma anche affettive, amicali
e familiari, in misura tale da determinare, non di rado, conseguenze irreversibili
(devianze, suicidio). Riteniamo che nessuna disciplina che si occupi del
comportamento umano possa disinteressarsi di un problema così complesso e
sofisticato e potenzialmente devastante sul piano dei rapporti umani. Non meno
rilevante è il fenomeno se osservato dalla visuale dell’economista e
dell’imprenditore. Le ricadute sull’efficienza e sulla produttività
dell’organizzazione aziendale, alla lunga, possono essere notevoli, per via
dell’elevato grado di tensione e di conflittualità sociale che inesorabilmente i
casi di mobbing finiscono per determinare. Dunque, abbiamo sufficienti ragioni
per auspicare che vi sia a questo riguardo una presa di coscienza delle
istituzioni, del mondo scientifico e dell’opinione pubblica. Perché ciò avvenga è
necessario che il problema venga osservato attentamente nelle sue cause, nel
suo manifestarsi e nelle sue conseguenze e, come già detto in precedenza, in
Italia siamo appena all’inizio di questo difficile lavoro. I pionieristici studi di
Heinz Leymann necessitano di approfondimenti e contributi che ci permettano
di elaborare delle misure di prevenzione efficaci contro il mobbing, una delle più
pericolose forme di malessere organizzativo dei giorni nostri.
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Capitolo 1.
La ricerca sul mobbing in Europa
Al fine di capire gli aspetti salienti del fenomeno, riportiamo di seguito la
storia del percorso lavorativo di Eva, considerata da Leymann un caso
esemplare di come si origina un conflitto che, non adeguatamente gestito,
degenera in un processo di mobbing.
Il supervisore di una mensa di una grande prigione va in pensione e
occorre cercare un successore. Sia il direttore che il reparto di gestione del
personale sono della stessa opinione, ossia che l’opportunità di cambiare il
supervisore debba essere anche un’occasione per attuare dei cambiamenti
nelle procedure di lavoro. La mensa di questa prigione deve ridurre le spese,
deve economizzare ma, nello stesso tempo, bisogna offrire un cibo salutare. Si
cerca un individuo con una formazione idonea per questo incarico e si decide di
assumere Eva. Non appena costei arriva, le viene subito spiegato quali sono i
progetti. I problemi sorgono quando il nuovo supervisore s’imbatte con le sei
cuoche addette alla preparazione dei pasti nella mensa, le quali sono tutte
capaci di preparare dei sughi molto densi e cremosi, ma non sono state
informate dal top-management dei cambiamenti da poco stabiliti nei metodi di
lavoro (invero, esse pensano di dover lavorare nello stesso modo di prima ma
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con un nuovo supervisore). Inevitabilmente sorge un conflitto poiché nessuno
ha informato le cuoche dei cambiamenti progettati che implicano nuovi metodi
di preparazione del cibo che le addette in questione non conoscono. Queste si
schierano contro Eva, iniziano dapprima a mugugnare contro di lei, e quindi a
disobbedire ai suoi ordini e alle sue istruzioni. Anche il fatto che Eva ha un figlio
con un handicap mentale è un argomento ricorrente per attaccarla con insulti e
insinuazioni sulla sua salute mentale. Le discussioni in mensa sono molto
accese e si verificano quotidianamente. Le cuoche non prestano ascolto al
nuovo supervisore e ignorano le sue istruzioni sulle mansioni da svolgere fino al
punto da provocare deliberatamente aspri scontri di opinione. Si cerca di dare
l’impressione che Eva svolga male il suo lavoro, andando molto al di là delle
sue responsabilità. Pertanto, il supervisore chiede chiarimenti sulle sue
competenze e sul suo grado di autorità alla direzione del carcere, ma i suoi
superiori non rispondono a tali richieste e interpretano il suo comportamento
come un’insubordinazione. La richiesta avanzata da Eva viene, anzi, ritenuta un
tentativo di depotenziare il management del carcere. Ciò costituisce un grosso
equivoco che non verrà più chiarito.
L’atteggiamento della direzione del carcere legittima il conflitto tra Eva e
le cuoche, ormai convinte che il top-management stia dalla loro parte. Le
molestie e gli attacchi contro il supervisore continuano e si sviluppano in un
processo di mobbing. Il risultato che presto con Eva che perde completamente
la sua autorità e i suoi diritti. Ci sono discussioni accese ogni giorno, fino a che
un superiore si trova casualmente ad assistere ad una di queste liti e chiama
Eva a rapporto. Lei, appena entrata nell’ufficio della direzione, nota di avere di
fronte tutti i suoi superiori disposti come una corte di giudizio! Non le viene data
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nessuna possibilità di spiegare la situazione e viene solo criticata
pesantemente. La direzione la invita a prendersi un periodo di pausa dal lavoro
per motivi di salute, identico consiglio le viene dato dal medico del carcere.
Dopo essere stata per più di due mesi assente per malattia, Eva perde il suo
lavoro. Non ne troverà più un altro (Leymann, 1996).
1.1. Che cos’è il bullismo sul lavoro?
Il mobbing è un fenomeno antico e ben conosciuto in ogni cultura ma è
stato descritto in maniera sistematica per la prima volta nel 1982 in una ricerca
pubblicata (nel 1984) dal Ministero Nazionale per la Salute e la Sicurezza su
Lavoro svedese (Leymann e Gustavsonn, 1984). Il primo ricercatore che ha
analizzati il contenuto e lo sviluppo del mobbing sul posto di lavoro è stato
Heinz Leymann, psicologo del lavoro dell’università di Umea in Svezia. Il
progetto di ricerca di Leymann fu avviato su iniziativa del Governo Svedese a
causa dell’incremento sempre più massiccio dell’assenteismo dovuto al disagio
lavorativo. Per definire la violenza psicologica sul posto di lavoro esistono
diversi termini tra cui i più ricorrenti sono , bullyng at work ( bullismo sul lavoro),
harassement (molestia), work abuse (abuso lavorativo) e victimisation
(vittimizzazione) ma il termine più usato in Italia e nelle ricerche scandinave è
quello di mobbing ( Casilli, 2000).
Secondo il dizionario di Inglese-Italiano Collins-Giunti (1993) il termine
mobbing deriva dal verbo inglese “to mob”, che significa “assalire, prendere
d’assalto”; nelle sue ricerche Leymann (1990, 1996) ci spiega che questo
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termine è stato utilizzato per la prima volta da Lorenz in etologia per definire gli
attacchi di un gruppo di animali più piccoli verso un singolo animale più grosso.
Leymann ha preso in prestito la parola mobbing, nei primi anni’80, quando ha
riscontrato un simile comportamento negli ambienti di lavoro. In Inghilterra e in
Australia per descrivere questo fenomeno si usa il termine “bullyng” ma è più
corretto chiamare queste ripetute aggressioni “mobbing” poiché il bullismo (tra i
bambini) è fortemente caratterizzato da atti aggressivi fisici e invece la violenza
fisica è molto rara sul posto di lavoro. Il mobbing è caratterizzato da
comportamenti molto più sofisticati come, per esempio, l’isolamento sociale
della vittima ( Leymann, 1996).
Per Leymann con il termine mobbing si intende una comunicazione non
etica e ostile rivolta da uno o più individui, in maniera sistematica, verso un
unico individuo il quale, a causa del mobbing, è spinto in una posizione
disperata, senza difese e viene mantenuto in questa condizione grazie alla
continua attività di azioni “mobbizanti” che avvengono in maniera molto
frequente (almeno una volta a settimana) e per un lungo periodo di tempo
(almeno sei mesi). Quindi a causa dell’elevata frequenza e della lunga durata,
il maltrattamento porta all’isolamento sociale e può causare danni psicologici e
psicosomatici notevoli. Questa definizione esclude i conflitti ordinari,
temporanei. La distinzione tra conflitto e mobbing non riguarda “che cosa” viene
fatto o “come” viene fatto, bensì si concentra sulla frequenza e sulla durata di
determinati comportamenti (Leymann, 1996). La psicologa francese Hirigoyen
esperta in vittimologia (una disciplina per la quale in Francia è stata istituita
anche una cattedra universitaria) ci descrive così il processo di mobbing: “La
molestia nasce da episodi apparentemente insignificanti e si propaga
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insidiosamente. In un primo tempo le persone interessate non vogliono
formalizzarsi e prendono alla leggera frecciate e scherzi di cattivo gusto. Poi gli
attacchi si moltiplicano e la vittima viene regolarmente messa alle strette, in
condizione di inferiorità, sottoposta a manovre ostili e degradanti nel corso di un
lungo periodo.” (Hirigoyen,2000, p.54).
La definizione scientifica del termine mobbing si riferisce ad
un’interazione sociale attraverso la quale un individuo viene attaccato da uno o
più individui per un periodo di molti mesi, con aggressioni giornaliere che
portano la persona aggredita ad una condizione disperata con potenziali rischi
di espulsione dal mondo del lavoro (Leymann, 1990).
1.2. Il mobbing e i conflitti interpersonali nell’organizzazione
Il conflitto si sviluppa ogni volta che gli interessi di due o più parti si
scontrano. In passato si considerava il conflitto organizzativo come un elemento
disfunzionale in grado di produrre solo conseguenze negative per l’ambiente di
lavoro. Attualmente le teorie del cambiamento organizzativo considerano invece
il conflitto come una fenomenologia sempre presente nella vita organizzativa e
hanno come obiettivo la risoluzione costruttiva dei conflitti dalla quale si
originano creatività e innovazione. In realtà le organizzazioni costringono gli
individui a collaborare per la realizzazione di obiettivi comuni favorendo quindi i
conflitti interpersonali che potranno essere visibilmente manifesti o latenti. Molti
conflitti spesso si istituzionalizzano e diventano parte degli atteggiamenti, degli
stereotipi, dei valori della cultura organizzativa. Una volta che si siano
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“cristalizzati” nelle relazioni dei lavoratori, risulta estremamente difficile
identificare e annullare i conflitti latenti (Morgan, 1995).
Il mobbing dovrebbe essere visto come un conflitto eccessivo,
degenerato, istituzionalizzato. Il processo ha sempre origine da un conflitto nei
rapporti professionali e evolve dopo un certo periodo di tempo, a volte
velocemente mentre altre volte dopo settimane o mesi e, quando il mobbing si
scatena, è inutile discutere per capire chi è che ha causato il conflitto o chi è
che ha avuto ragione. E’ importante sottolineare un aspetto del problema: il
mobbing è un’aggressione sociale e psicologica che può portare a delle
conseguenze negative di tipo legale, sociale, economico e psicofisiologico per
l’individuo. Gli effetti di un processo di mobbing sono così gravi che questo
fenomeno dovrebbe essere classificato come un assalto, una negazione dei
propri diritti civili. In Svezia è stato stimato che circa il 10-20% dei suicidi
annuali hanno avuto come loro causa principale processi di mobbing sul lavoro
(Leymann, 1987, 1990)
Quando un conflitto diventa “una questione privata”, viene a crearsi una
situazione che la direzione o l’amministrazione dell’azienda ha l’obbligo di
affrontare: è controproducente accusare la personalità di qualcuno e se il
conflitto degenera in un processo di mobbing la responsabilità è da attribuirsi
prevalentemente al management. E’ necessario porre più attenzione sui conflitti
nell’ambiente di lavoro e sulle loro conseguenze, soprattutto per quanto
riguarda gli infortuni psicologici: gli infortuni sul lavoro possono portare a dei
danni permanenti per la salute di un individuo e, oltretutto, sono anche molto
costosi per i proprietari delle aziende. Negli 800 casi studiati da Leymann, il
mobbing è stato sempre correlato ad un management disinteressato e
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completamente impotente. Gli ambienti con condizioni organizzative molto
scadenti (ad esempio gli ospedali) favoriscono l’insorgere di conflitti
interpersonali che possono essere risolti solo se è presente un management
motivato e preparato ad operare in gruppi dinamici e quindi a fronteggiare i
diversi tipi di conflitto interpersonale. Di qui il ruolo molto importante del
supervisore nell’azienda: i dissensi e i litigi non devono essere ignorati dalla
direzione. E’ molto grave se un management nega o non vede i conflitti perché
ciò contribuisce a rendere ancora più aspri i dissensi e i litigi tra i lavoratori ; si
corre quindi il rischio che le conflittualità abbiano tutto il tempo di approfondirsi e
diventare sempre più gravi. Dice Leymann che il posto di lavoro non deve
essere confuso con altre situazioni della vita (ad esempio le conflittualità nella
famiglia o nei gruppi informali); un luogo di lavoro deve essere sempre regolato
da leggi comportamentali, una di queste è la cooperazione che deve essere
assicurata e controllata dal supervisore; i conflitti possono sempre affiorare ma
devono essere risolti. Uno dei doveri del supervisore è proprio quello di avere a
che fare e di riuscire a risolvere questi problemi relazionali. Se questo dovere
viene meno (spesso ciò accade appunto perché il top management non
gestisce adeguatamente i conflitti) i responsabili del management promuovono
l’ascesa del conflitto verso il processo di mobbing. Negli stadi iniziali del
mobbing un conflitto sui compiti lavorativi è spesso trasformato in un conflitto
personale. Quindi quando un conflitto viene “privatizzato” e si trasforma in una
guerra tra due individui, tutto ciò diventa una situazione che il datore di lavoro o
il supervisore devono fermare. Una volta che il conflitto ha raggiunto questo
stadio (e quindi è in ascesa) è deleterio dare la colpa alla personalità degli
individui coinvolti. Se da un dissenso tra due persone si sviluppa un processo
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di mobbing la responsabilità è principalmente del management (Leymann,
1990) .
Un dato certo è che il processo di mobbing prende sempre il via da un
conflitto all’interno del gruppo lavorativo. Vartia (1996) afferma che il mobbing è
correlato positivamente con una leadership autoritaria che non risolve il conflitto
in maniera produttiva e democratica. In un organizzazione orientata ad uno stile
di leadership autoritario il conflitto è visto come un elemento disfunzionale e
viene quindi represso; così si sviluppa facilmente un clima teso che invece di
eliminare i dissensi causa un clima ancora più teso poiché i problemi relazionali
non vengono risolti e i conflitti hanno modo di esacerbarsi e degenerare in
mobbing. Affinché non si verifichi terrorismo psicologico sul lavoro è necessario
che vi sia una risoluzione positiva del conflitto, azione che richiede maturità e
comprensione dell’animo umano (Blake e McCanse, 1996).
Nelle sue ricerche Leymann afferma che una cattiva organizzazione del
lavoro ed una inadeguata gestione manageriale dei conflitti sono da
considerarsi le principali determinanti del fenomeno del mobbing. Le analisi di
circa 800 casi studiati dallo psicologo svedese mostrano il percorso stereotipato
dei processi di mobbing (4 fasi). In tutti questi casi è stata riscontrata
un’organizzazione molto scadente nei metodi di lavoro con un management
disinteressato e completamente impotente. Questa non è una sorpresa dato
che gli impiegati mobbizzati esaminati da Leymann provenivano per la maggior
parte da ospedali, scuole e organizzazioni religiose, cioè da ambienti con
condizioni organizzative molto scadenti. Ad esempio in un ospedale, alcune
infermiere intervistate da Leymann non sapevano neanche chi fosse il loro
manager. In Svezia gli ospedali hanno almeno due gerarchie parallele: una
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rappresentata dai dottori responsabili per la diagnosi e terapia e un’altra
rappresentata dalla gerarchia delle infermiere responsabili dello svolgimento
della terapia. Entrambe queste gerarchie hanno un loro management che da
ordini e disposizioni per le infermiere ed entrambi questi tipi di autorità hanno il
potere di dire alle infermiere cosa fare e cosa non fare. Si va incontro così molto
spesso ad un sovraccarico di lavoro per la persona e questo è dovuto o ad una
carenza del personale oppure ad una scadente e insufficiente organizzazione
giornaliera del lavoro. Molto spesso emerge una leadership spontanea:
un’infermiera può occasionalmente prendere il potere su un gruppo di
infermiere senza avere l’autorità per fare ciò. Queste sono delle situazioni ad
alto rischio che molto spesso sfociano in conflitti che possono essere risolti solo
se il management è preparato e motivato (Bjorkqvist et al.,1994 ).
1.3. I modi di agire del mobbing
Si parla di mobbing quando si verifica una situazione comunicativa e
comportamentale non etica, caratterizzata dalla ripetizione per un lungo
periodo(da parte di una o più persone) di atteggiamenti ostili diretti
sistematicamente contro un individuo che manifesta, per reazione, gravi
problemi psicologici e fisici. Tali atteggiamenti ostili che Leymann chiama
attività di mobbing possono essere raggruppati in cinque categorie in base agli
effetti che hanno sulle vittime (Leymann, 1996):
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1) impedire alla vittima di esprimersi (effetti sulla possibilità di comunicare in
maniera adeguata);
2) isolare la vittima (effetti sulla possibilità di mantenere contatti sociali);
3) attacchi alla reputazione personale (effetti sulla possibilità delle vittime di
mantenere la loro reputazione personale);
4) screditare la vittima nel suo lavoro (effetti sulla situazione occupazionale);
5) compromettere la salute della vittima (effetti sul benessere psico-fisico).
Per ogni categoria Leymann ha identificato diversi tipi di comportamenti
usati dai “mobber” (il “mobber” è la persona che agisce il mobbing mentre il
“mobbed” è la vittima delle molestie) per praticare il mobbing sul posto di
lavoro); di seguito vengono elencate le principali azioni attraverso viene agito il
mobbing:
• il management non ti dà nessuna possibilità di comunicare;
• sei costantemente messo a tacere;
• subisci continui attacchi verbali sullo svolgimento dei tuoi compiti lavorativi;
• minacce verbali;
• stili comunicativi che ti fanno sentire rifiutato;
• i colleghi non parlano più con te per molto tempo;
• il management ti proibisce di parlare con i tuoi colleghi;
• vieni isolato in una stanza lontano dagli altri;
• ti viene dato l’ostracismo;
• si parla di te negativamente;
• vieni ridicolizzato;
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• vieni preso in giro per un tuo handicap, per le tue origini etniche, per un tuo
atteggiamento o tratto di personalità;
• ti vengono tolti dei compiti o non ti si danno più compiti da svolgere;
• ti vengono assegnati dei compiti troppo semplici o di scarsa importanza;
• ti vengono assegnati delle mansioni pericolose;
• sei minacciato fisicamente;
• sei molestato sessualmente.
Queste attività di mobbing non sono nocive per la personalità di un
individuo se il loro verificarsi non è continuativo. I problemi insorgono quando
una persona viene attaccata ripetutamente e a lungo nel tempo con
atteggiamenti ostili non isolati e casuali bensì inseriti in un processo distruttivo
di vittimizzazione messo in atto volontariamente da individui consapevoli.
Leymann, per indagare a fondo un fenomeno complesso come il mobbing, ha
elaborato il LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terror) un questionario
che rileva la presenza di 45 attività di mobbing suddivise nelle cinque categorie
sopra elencate (Leymann, 1987).
Una ricerca svolta in Germania da Dieter Zapf e Carmen Knorz con due
campioni di rispettivamente 50 e 99 vittime del mobbing ha portato
all’identificazione di sette diverse strategie comportamentali attraverso le quali
si pratica il mobbing (Zapf, Knorz e Kulla, 1996):
1) attaccare le vittime tramite misure organizzative;
2) attaccare le vittime tramite l’isolamento sociale;
3) attaccare la vita privata delle vittime;
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4) usare violenza fisica sulle vittime;
5) attaccare le credenze e i valori personali delle vittime;
6) aggredire verbalmente le vittime;
7) diffamare le vittime tramite i pettegolezzi;
Queste 7 attività attraverso le quali viene praticato il mobbing comprendono,
a loro volta, diversi tipi di comportamenti specifici. Complessivamente sono 38
le azioni mobbizanti identificate da Zapf, Knorz e Kulla (1996):
1) misure organizzative;
• il supervisore limita ad una persona la possibilità di parlare;
• collocare una persona da sola in una stanza lontano dai suoi colleghi di
lavoro;
• proibire ai colleghi di parlare con la persona isolata;
• forzare qualcuno ad eseguire delle mansioni contro sua volontà;
• giudicare il rendimento lavorativo di qualcuno in modo offensivo;
• mettere in dubbio la validità delle decisioni di una persona;
• rifiutarsi di assegnare qualsiasi compito alla persona in questione;
• rimuovere una persona da tutti i suoi compiti;
• assegnare delle mansioni insignificanti;
• assegnare dei compiti troppo semplici;
• assegnare mansioni degradanti;
2) isolamento sociale;
• i colleghi impediscono a qualcuno di parlare;