Introduzione
“The ideas of economists and political philosophers, both when they are right
and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood.
Indeed the world is ruled by little else. Practical men, who believe themselves
to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slaves of
some defunct economist.” (John Maynard Keynes)
“The day is not far off when the economic problem will take the back seat
where it belongs, and the arena of the heart and the head will be occupied or
reoccupied, by our real problems, the problems of life and of human relations,
of creation and behavior and religion.” (John Maynard Keynes)
Per cercare di capire la realtà e i meccanismi soggiacenti ai più importanti fatti della nostra
epoca non si può certamente non tener di conto delle dottrine economiche sviluppatesi nel
corso del tempo. Infatti, gran parte dei problemi del nostro mondo sono in stretto rapporto con
i processi economici (povertà, inquinamento, guerre, diseguaglianza e sfruttamento,…) i
quali, quindi, non possono essere studiati isolatamente date le strette connessioni esistenti con
la società, la politica e l‟ambiente.
Già nell‟antichità Aristotele metteva in guardia dal pericolo di separare dal complesso della
vita un particolare aspetto della felicità umana, come ad esempio il benessere economico, e di
assolutizzarlo, operazione che invece la scienza economica moderna compie. L‟uomo antico
pose la filosofia all‟inizio di ogni studio, in quanto scienza completa dell‟essere. Egli quindi
era immune da ogni tentativo di dividere conoscenza e prassi dal senso dell‟esistenza. Questo
pericolo si è materializzato nella moderna Teoria della Crescita Economica nella quale sono
elaborati modelli che prevedono sentieri di lungo periodo caratterizzati da una crescita che,
sia pure bilanciata (nel senso che tutte le variabili considerate, quali capitale fisico ed umano,
reddito, consumo, etc., crescono allo stesso tasso), è destinata ad essere infinita. Questi
risultati mostrano un‟incompleta comprensione del carattere complesso e multidimensionale
che caratterizza non solo la vita umana a livello individuale e relazionale, e dunque sociale,
bensì del sistema mondo nel suo insieme.
Per tentare di spiegare come si sia potuti arrivare a risultati così estremi, ritengo illuminante la
spiegazione della duplice origine
1
dell‟economia operata dall‟economista indiano Amartya
Sen. La distinzione risiede nel considerare il carattere etico da un lato, e l‟approccio
ingegneristico dall‟altro, i quali, presi congiuntamente, definiscono le fondamenta
dell‟economia stessa.
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Partiamo considerando la tradizione etica dell‟economia chiamando nuovamente in causa
Aristotele. Egli affermava che la ricchezza non è il bene ultimo o fine dell‟esistenza umana,
bensì costituisce semplicemente un mezzo per il conseguimento di altri fini, o usando le sue
parole «[il reddito e la ricchezza] sono soltanto utili per qualcosa d‟altro»
2
. Analoghe
considerazioni possono essere ritrovate, nello stesso periodo, nel testo sanscrito del
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad in cui una donna di nome Maitreyῑ osservava: «che ne farei delle
ricchezze, se esse non possono rendermi immortale?»
3
. Si può così intuire che è solo grazie
all‟etica che possono essere studiati e definiti i fini ultimi del vivere umano i quali devono
rispondere a istanze che vanno dal come poter incoraggiare il „bene per l‟uomo‟ al socratico
dilemma di „come si dovrebbe vivere‟. Perciò, osserva Sen, dall‟impostazione etica sorgono
due conseguenze rilevanti. La prima è che i principi etici non possono essere considerati
totalmente incapaci di condizionare il comportamento umano; la seconda è che tali
considerazioni influiscono in misura rilevante sui giudizi relativi agli obiettivi e risultati
sociali. Da un punto di vista etico non è ammissibile semplificare il giudizio sul grado di
benessere e sviluppo di una società attraverso alcuni arbitrari punti di vista, quali, ad esempio,
un soddisfacente grado di efficienza o un aumento del Pil.
Dall‟altra, l‟approccio ingegneristico si concentra principalmente sull‟aspetto logistico
attraverso modellizzazioni formali volte a spiegare il funzionamento dell‟economia. Per far
ciò è stato necessario partire da alcune ipotesi semplificatrici che hanno finito per ridurre
l‟intero agire umano a un insieme di azioni dettate dall‟interesse personale e guidate dal
comportamento razionale. Nonostante sia riconosciuto l‟importante contributo apportato
dall‟utilizzo di questo metodo, Sen pone l‟accento sul preoccupante distacco realizzatosi nella
moderna economia dove l‟etica svolge al più un ruolo ancillare. Lo stesso Sen
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asserisce:
it is arguable that the importance of the ethical approach has rather substantially weakened as
modern economics has evolved. The methodology of so-called „positive economics‟ has not
only shunned normative analysis in economics, it has also had the effect of ignoring a variety
of complex ethical considerations which affect actual human behaviour and which are
primarily matters of fact rather than of normative judgement.
L‟errore principale è trascurare che la scienza economica in sé è una scienza della ragione
teoretica, ma diviene pratica solo quando è chiamata in causa la responsabilità la quale esige
scelte di natura politica. L‟economista resta responsabile delle conseguenze della separazione
dell‟economia dall‟ambito della società. Il benessere della società è sostanzialmente unico e al
suo interno l‟economia copre solo una parte, per cui è richiesto un bilanciamento dei due
approcci sopracitati se si vuole tentare di capire la complessità del sistema economico-sociale-
ambientale nel quale viviamo.
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Dobbiamo riconoscere che l‟economia nella sua essenza è un‟attività sociale, perché
attraverso essa le prestazioni dei singoli sono scambiate reciprocamente. L‟economia classica
ha stabilito che il modo più efficiente per garantire queste attività fosse quello dato dal libero
mercato in cui regna il principio della concorrenza perfetta, oltre ad altre ipotesi poco
realistiche. Esso spinge a considerare come principale fonte di benessere e felicità il reddito
materiale che i singoli possono trarre dal proprio lavoro o i profitti generati dai propri
investimenti. Solo in questo modo si otterrebbe anche il massimo benessere generale, e nella
misura in cui lo si considera solo dal lato materiale, esisterebbe la possibilità di realizzare un
sistema in cui ognuno, al confronto dell‟altro, contribuisce con il maggiore rendimento
possibile semplicemente perseguendo in modo razionale i propri interessi personali. Questa
impostazione fa si che, ad oggi, si continui a sintetizzare le complesse dinamiche e i risultati
ottenuti da un paese, nonché del mondo, semplicemente tramite l‟osservazione di un indice
creato nel 1934 dall‟economista statunitense, e premio Nobel, Simon Kuznets: il Gross
Domestic Product (il nostro Pil, Prodotto Interno Lordo). In realtà si deve riconoscere che fu
lo stesso inventore a sconsigliare di utilizzarlo, sic et simpliciter, per facili valutazioni sul
benessere sociale date le implicazioni che il suo calcolo comporta. Anzi proprio Kuznets
(“Total National Product”, 1937), nonché un‟innumerevole schiera di economisti e non, lo
sottopose a critiche pochi anni più tardi.
Fu così che a partire dal secondo dopoguerra, in parallelo con la nascita dell‟Economia dello
Sviluppo, furono elaborati e proposti una moltitudine di indici alternativi con i quali includere
altri importanti fattori che direttamente o indirettamente influiscono sul benessere individuale
e sociale quali: la distribuzione, la salute, l‟istruzione, l‟inquinamento ambientale, e altri.
Ancora una volta mi preme rilevare che questi avanzamenti sono possibili solo grazie ad un
approccio multidimensionale, nato per tentare di soddisfare le istanze etiche che impongono
di giudicare una società come un sistema articolato, tenendo conto dei molteplici aspetti
attraverso i quali l‟uomo è in grado di realizzare se stesso.
Purtroppo oggi osserviamo una situazione che può essere riassunta con il titolo di un breve
paper di Van der Bergh (2008), “GDP Paradox”
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. Nel testo l‟Autore afferma che, nonostante
la maggioranza degli economisti accetti di buon grado le critiche sulla fallacità di tale indice,
esso rimanga tuttavia il punto di riferimento sia dei modelli teorici sia delle politiche
economiche che vengono poste in essere dai governi di tutto il mondo. Malgrado ciò,
l‟inaccettabile disparità tra Nord e Sud del mondo, la presenza di più di un miliardo di
persone denutrite, i disastri ambientali e il global warming hanno sensibilizzato sempre più
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l‟opinione pubblica e non solo. Possiamo sintetizzare le principali iniziative ricordando che
nel 1990 le Nazioni Unite hanno ufficializzato un nuovo approccio ai problemi dello sviluppo
ratificando la necessità della misurazione di variabili quali istruzione, sanità, diritti civili e
politici. Inoltre i grandi temi dello sviluppo umano come l‟ambiente, lo sviluppo sociale, il
genere sono state affrontate anche dalle agenzie internazionali, Banca Mondiale compresa,
come dimostrano le Conferenze di Rio de Janeiro del 1992, o di Copenhagen e di Pechino nel
1995.
La crescente preoccupazione per la situazione vigente, non solo nei paesi cosiddetti
«Sottosviluppati» o in «Via di Sviluppo», ma anche in quelli più avanzati, specialmente dopo
la crisi del 2008, ha spinto sempre di più governi e autorità ad affrontare le importanti sfide
che ci attendono. Menzioniamo tra tutte la Strategia Europa 2020 ed il Report by the
Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress
commissionato dal presidente francese Sarkozy e stilato sotto l‟egida di economisti come Sen,
Stiglitz e Fitoussi. A titolo di esempio possiamo riportare gli obiettivi che l'Unione Europea si
propone di raggiungere entro il 2020.
La Commissione propone per il 2020 cinque obiettivi misurabili dell‟UE, che guideranno il processo e
verranno tradotti in obiettivi nazionali. Tali obiettivi, che riguardano l‟occupazione, la ricerca e
l‟innovazione, il cambiamento climatico e l‟energia, l‟istruzione e la lotta contro la povertà,
rappresentano la direzione da seguire e ci consentiranno di valutare la nostra riuscita.
L'UE deve decidere qual è l'Europa che vuole nel 2020. A tal fine, la Commissione propone i seguenti
obiettivi principali per l'UE:
– il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro;
– il 3% del PIL dell'UE deve essere investito in R&S;
– i traguardi "20/20/20" in materia di clima/energia devono essere raggiunti (compreso un incremento
del 30% della riduzione delle emissioni se le condizioni lo permettono);
– il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve essere
laureato;
– 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio di povertà.
È evidente come ormai sia richiesta sempre più insistentemente una maggiore attenzione alle
varie dimensioni connesse all‟economia la quale ha assunto un‟estensione globale, e da queste
responsabilità nessuno può più sentirsi escluso. A tutto ciò si collega indubbiamente la
questione ambientale che ha portato alla nascita di nuovi campi di ricerca quali appunto
l‟Economia Ambientale Neo-classica e l‟Economia Ecologica. Possiamo brevemente asserire
che il processo di crescita economica ottenuto dal sistema capitalistico oltre a generare
incrementi nei redditi e consumi, variabili che in linea di massima possono indubbiamente
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contribuire ad un miglioramento della qualità della vita, produce anche inevitabili
conseguenze sull‟ambiente. La continua necessità di produrre in modo sempre più efficiente
una quantità sempre crescente di beni di qualsivoglia natura, l‟utilizzo sempre più diffuso di
prodotti chimici che permettendo incrementi nella produzione agricola portano con sé, oltre
all‟inquinamento, anche una continua crescita della popolazione umana, stanno creando
pesanti situazioni di stress sul pianeta che ci ospita.
Per tentare di affrontare queste problematiche è stato definito il concetto di sostenibilità, da
accostare a quello di sviluppo, il quale però nel campo ambientale ha assunto un duplice
significato. Secondo l‟impostazione classica si dovrebbe accettare il cosiddetto concetto di
“sostenibilità debole” (Pearce e Atkinson, 1993) per il quale un‟economia è considerata
sostenibile se risparmia di più della combinazione dei deprezzamenti del capitale ambientale e
di quello artificiale (fisico ed umano). La sostenibilità debole è basata su un‟assunzione molto
forte, la perfetta (o perlomeno ampia) sostituibilità tra le diverse forme di capitale (fisico,
umano e ambientale). L‟insoddisfazione per questo approccio, che sembra lasciare inalterato
il problema di fondo e che anzi porta con sé ulteriori problematiche, ha portato alla
definizione della sostenibilità forte (Martinez-Alier, 1997) dove si postula l‟infungibilità
delle risorse naturali, poiché esse sono parte insostituibile del patrimonio a disposizione; al
loro degrado non c‟è rimedio e quindi non sono sostituibili neanche dall‟incremento di altri
valori, come quelli sociali o economici.
L‟importanza del rispetto dell‟ambiente e della gestione delle risorse naturali non nasce solo
da freddi calcoli concernenti la loro esauribilità e quindi compiuti solo in misura del nostro
personale soddisfacimento dei bisogni presenti, ma anche e soprattutto perchè l‟etica ci
impone di tenere nel conto le future generazioni ai cui non possiamo lasciare un mondo
inospitale. Possiamo così ricordare un noto proverbio dei nativi americani: «non ereditiamo il
mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli».
Come si può notare da questa breve introduzione non appena si riavvicina l‟etica all‟analisi
economica, essa è costretta ad aprirsi verso approcci multidimensionali. Come mostrato, solo
una riflessione sui modi e fini con i quali svolgiamo le nostre attività ci consente di affrontare
i problemi che, mai come nella nostra epoca, richiedono sforzi notevoli e un lavoro congiunto
tra le scienze sociali e naturali. È dunque possibile superare l‟interpretazione materialistica e
individualistica del benessere che risulta impreparata di fronte alle istanze ecologiche, ai
valori sociali, culturali e morali, nonché alla complessità che caratterizza il nostro mondo.
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Alcune delle tematiche sopraesposte saranno approfondite nel presente scritto il quale si
strutturerà in tre parti. Inizialmente, nel Capitolo 1, si opererà una rivisitazione delle teorie
classiche sulla crescita economica a partire dal padre fondatore della scienza economica
Adam Smith. Successivamente, nel Capitolo 2, si affronterà il dibattito relativo ai temi dello
Sviluppo e del Benessere volta a chiarire tali concetti e ad evidenziare i principali problemi e
paradossi che implica l‟accettazione della teoria classica economica. Verrà principalmente
messo in luce l‟impostazione dello Sviluppo Umano proposta dal premio Nobel Amartya Sen
senza trascurare le altre differenti correnti filosofiche che si sono succedute nel tempo le
quali, dal mio punto di vista, sono il vero motore ispiratore di qualsivoglia teoria economica e
non. Seguendo gli studi di Hirsch e Easterlin verranno illustrati i limiti sociali e le
contraddizioni che crea l‟idea del perseguimento di una crescita economica esponenziale ed
illimitata.
Nel terzo capitolo sarà dato rilievo principalmente ai problemi ambientali connessi con la
crescente rilevanza dei processi economici e alle conseguenti definizioni di sostenibilità.
Saranno principalmente trattati i temi relativi alla sostenibilità, alle esternalità e ad alcune
misurazioni empiriche che vanno dal Green GDP al Footprint, ma soprattutto si centreranno
sulla cosiddetta Economic Kuznets Curve (EKC).
Le conclusioni tireranno le fila ed indicheranno nuovi spunti di ricerca e confronto.
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CAPITOLO I
TEORIE DELLA CRESCITA
NELLA STORIA DEL PENSIERO CLASSICO
"Ricordati che il tempo è denaro"
"Ricordati che il credito è denaro"
"Ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo"
"Ricordati che chi paga puntualmente è il padrone della borsa di ciascuno"
(Beniamino Franklin)
È doveroso iniziare la nostra analisi prendendo in considerazione ciò che ha significato e
significa il concetto di crescita nelle teorie economiche cosiddette classiche, scoprendo come
questa idea abbia profonde radici nell‟etica. In termini economici possiamo definire la crescita
come l'aumento di beni e servizi prodotti dal sistema in un dato lasso di tempo la cui
misurazione è attualmente affidata principalmente ad un indice denominato Pil (Prodotto
Interno Lordo). Dal momento che l‟economia è la scienza che studia in che modo poter
soddisfare i bisogni dell‟uomo attraverso un gestione efficiente di risorse scarse, sembra
logico richiedere ai processi “produttivi” un aumento continuo di tali beni e servizi,
soprattutto in una situazione di popolazione crescente. È apparso naturale associare tale
proposito con un automatico miglioramento in termini di benessere nella misura in cui, come
supposto, i frutti di questi incrementi continui siano goduti da tutti.
Possiamo innanzitutto osservare che in realtà esiste un problema di distribuzione, che ha
creato maggiori problemi nei classici del livello, e che non si può risolvere all‟interno del
mercato; per riportare un esempio citiamo i risultati empirici ottenuti da UNDP (1999):
Poverty is everywhere. Gaps between the poorest and the richest people and countries have continued to
widen. In 1960, the 20% of the world‟s people in the richest countries had 30 times the income of the
poorest 20%. In 1997, 74 times as much. This continues the trend of nearly two centuries.
Per capire meglio il pensiero economico classico è necessario partire con il considerare le
origini etiche che hanno permesso di considerare l‟accumulazione materiale e la produzione
crescente come virtù. In seguito saranno esposte le prime teorie sulla crescita da parte dei più
autorevoli economisti quali Smith, Marx e Shumpeter. Alcune osservazioni conclusive
porranno le basi per le successive riflessioni.
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1.1 Sulle origini dell’etica capitalistica
L‟etica per definizione è quella branca della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e
razionali che permettono di caratterizzare i comportamenti umani, ovvero distinguerli in
buoni, giusti, o moralmente leciti e dunque virtuosi, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi
o moralmente inappropriati. Per tale ragione e per l‟influenza che da sempre hanno avuto le
dottrine morali sul comportamento di intere comunità, siamo costretti a considerare anche il
nostro attuale sistema come ispirato ad una qualche dottrina per la quale il perseguimento del
profitto fine a se stesso, la soddisfazione materiale e la vocazione al lavoro siano eticamente
giustificati. Dovremo dunque cercare quello che Weber chiamava lo «spirito del
capitalismo», ossia come affermato dallo stesso autore una vera e propria etica di
comportamento, che trascende la semplice tecnica di vita, e «la cui violazione vien trattata
non come pazzia, ma come una specie di negligenza dei propri doveri»
1
. Ovviamente una
profonda e accurata esegesi dell‟opera nonché dei principi etici
2
del sistema capitalistico non
potrà qui essere affrontata. Mi limiterò ad offrire alcuni spunti che permettano di riflettere
sull‟importanza delle idee sottostanti i modelli economici. Non vorrò con ciò definire un
rapporto causale tra i valori di alcune sette religiose e la nascita e sviluppo del capitalismo,
ma semplicemente mostrare l‟importanza del clima culturale proprio di ogni zona
geografiche. Quindi, almeno dal mio punto di vista, questo importante fattore non dovrebbe
essere del tutto annullato nel momento in cui si formulano modelli economici di crescita da
applicare indistintamente a qualsivoglia paese.
Partiamo dunque da una domanda posta da Weber nel suo saggio del 1905 “L‟Etica
Protestante e lo Spirito del Capitalismo”: «Da quale indirizzo di pensiero ebbe dunque origine
la classificazione di un'attività, che esternamente è indirizzata soltanto al guadagno, sotto la
categoria della «vocazione» a cui il singolo si sentiva obbligato? […] Poiché tale pensiero
(vocazione al lavoro e giustificazione del profitto) fu quello che assicurò all'imprenditore di
„nuovo stile‟ la base e la sicurezza etica».
In prima istanza si potrebbe rispondere che in realtà il sistema capitalistico sia semplicemente
il frutto dell‟applicazione «razionale»
3
delle scoperte scientifiche ai processi produttivi i quali,
grazie all‟utilizzo delle macchine, hanno potuto ottenere livelli di produttività mai conosciuti
prima. Indubbiamente tale sconvolgimento ebbe importanti effetti sullo stile di vita e il modo
di pensare e di agire dei popoli che per primi ne beneficiarono, ma preso isolatamente non
basta. Né si può ridurre il tutto ad una semplice «auri sacra fames» che è da sempre presente
nell‟uomo. Come osservato da Thomas Ashton (“La Rivoluzione industriale, 1969): «i
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cambiamenti non furono soltanto „industriali‟, ma anche sociali ed intellettuali. La parola
“rivoluzione” implica una subitaneità di cambiamento che, in realtà, non è tipica dei processi
economici. Il sistema di relazioni umane che alcuni chiamano capitalismo ebbe origine molto
prima del 1760, e raggiunse il suo pieno sviluppo assai più tardi del 1830: c‟è rischio di
trascurare il fatto essenziale della continuità» (mio il corsivo). La Rivoluzione Industriale fu
sicuramente un fatto socio-culturale, quindi può essere utile indagare le linee di pensiero
dominanti duranti il Medioevo in Europa, il che implica inevitabilmente parlare di religione.
I tratti salienti tipici dei paesi in cui avvenne la Rivoluzione Industriale, dal punto di vista
strettamente economico e materiale, furono una straordinaria espansione del settore
manifatturiero e mercantile, dotato di grandi capacità imprenditoriali e di influenza sociale e
politica; una relativa alta diffusione dell‟alfabetismo, un‟abbondanza di capitale e una grande
presenza di manodopera artigianale qualificata. Infatti non fu casuale la scoperta di Watt né
l‟invenzione della macchina a vapore, ma furono il frutto dell‟inventività unita
all‟alfabetizzazione degli artigiani inglesi ed olandesi. Ma, come detto, è necessario non
fermarsi qui quanto piuttosto indagare le correnti filosofiche e le caratteristiche intellettuali
che permisero all‟Inghilterra e all‟Olanda di sperimentare per primi il travolgente fenomeno
dell‟industrializzazione.
Per tentare questa difficile operazione si potrebbe iniziare sondando quali sette religiose erano
dominanti in Europa al tempo della prima rivoluzione industriale, le quali determinarono la
forma mentis propria della cultura Occidentale. Si vogliono dunque sondare, da un lato, le
radici etiche che hanno permesso di rendere accettabile la ricerca del profitto fine a se stesso e
la visione del lavoro come vocazione (divina) e, dall‟altro, la predisposizione alla
«applicazione estesa della scienza ai problemi della produzione economica (Kuznets,
“Modern Economic Growth”, p. 9)» che permisero la nascita dell‟economia moderna.
A partire dal Medioevo si iniziò ad abbandonare la visione «animista» del mondo, per la
quale, si dovrebbe cercare un‟armonia tra l‟uomo e la natura poichè quest‟ultima è
caratterizzata da forze inviolabili alle quali ci si deve sottomettere. Fu in questo periodo che
improvvisamente si abbandonò questa concezione: dominare la natura non era più peccato,
anzi era un miracolo. Quando tale sogno iniziava a diventare realtà, a seguito delle incredibili
scoperte scientifiche (Galileo, Gutenberg, Copernico, Newton, etc.) e geografiche (Colombo),
allora si realizzò anche una spaccatura con il mondo antico e i suoi dogmi; iniziò a dominare
la visione meccanicista del mondo, maggiormente orientata alla misurazione quantitativa e
alla sperimentazione. Dio stesso venne descritto come un «perfetto orologiaio». La