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INTRODUZIONE
La scelta di dedicare questa tesi di laurea alle attività di integrazione probatoria
che possono essere espletate nell’ambito del giudizio abbreviato nasce
dall’incontro di due diverse aspirazioni: in primis è dovuta alla voglia di
approfondire un argomento affascinante dal punto di vista strettamente didattico,
che si caratterizza per una certa complessità e che presenta vari profili
problematici, tali da sollecitare curiosità ed interesse nell’interprete e condurre ad
alcune riflessioni critiche; al tempo stesso è nata dal desiderio di capire se, ed
entro quali limiti, il codice di procedura penale attuale offra sufficienti spazi per
perseguire, proprio mediante lo strumento del giudizio abbreviato, le esigenze di
economicità, efficienza, semplificazione e celerità processuale che il legislatore
non soltanto nazionale, ma anche comunitario ritiene stiano alla base di un giusto
ed equo processo penale, senza però tralasciare l’obiettivo ultimo del sistema
processualpenalistico, ossia la ricerca della verità e la correttezza della decisione
finale, per il perseguimento del quale le attività di natura istruttoria rivestono un
ruolo saliente ed insostituibile.
Per realizzare questo obiettivo e quindi giungere a comprendere pienamente quale
sia la vera essenza del giudizio abbreviato, nonché come la sua natura e i suoi
connotati siano profondamente mutati dal 1988 ad oggi, grazie alla riforma che è
stata realizzata dalla legge c.d. Carotti, n. 479 del 1999, verranno analizzate
molteplici pronunce della giurisprudenza, sia costituzionale, che di legittimità, le
quali rivestono un ruolo saliente nel percorso evoluzionistico che contraddistingue
l’istituto.
Le sentenze della Corte Costituzionale, tra cui hanno peculiare importanza la
sentenza n. 92 del 1992, la n. 115 del 2001, la n. 169 de 2003, e,
recentissimamente, la n. 184 del 2009 e la n. 140 del 2010, hanno senza alcun
dubbio avuto un duplice merito: da un lato, con riferimento alle pronunce adottate
ante legge Carotti, quello di sollecitare il legislatore a riformare l’istituto, al fine di
renderlo pienamente rispondente ai principi costituzionali, indicando la strada da
percorrere per perseguire tale obiettivo; dall’altro esse sono state un elemento
prezioso per l’esegesi dell’istituto nato dalla riforma del 1999, capace di fornire
all’interprete preziose chiavi di lettura per comprendere appieno la ratio del nuovo
giudizio abbreviato.
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Accanto all’analisi delle pronunce giurisprudenziali, verranno esaminate le
opinioni della dottrina, la quale, su molteplici argomenti ed aspetti critici e
problematici dell’istituto, risultava in passato e risulta ancora oggi divisa. Si
profilano infatti, su moltissime questioni di natura interpretativa, su cui il
legislatore spesso ha mantenuto un atteggiamento silente, (tra cui sono da
annoverare, tra le altre, il significato da attribuire al requisito di necessarietà,
l’utilizzabilità delle prove affette da inutilizzabilità di natura patologica,
l’esistenza di un diritto alla controprova anche a fronte di prove assunte ex officio
iudicis) orientamenti dottrinali diametralmente opposti, i quali spesso trovano
validi referenti nelle sentenze dei giudici di legittimità. Per ogni nodo
problematico, si cercherà di illustrare le ragioni e le argomentazioni addotte da
ciascuno degli orientamenti contrapposti e si cercherà di individuare quale tesi
risulti maggiormente conforme ed in armonia con lo spirito dell’istituto e le
implicazioni che dello stesso derivano.
Il filo conduttore che si adotterà nell’esaminare il tema delle attività di
integrazione probatoria nel giudizio abbreviato consiste nell’individuare la
soluzione ai problemi da esse posti mediante un’esegesi tesa a valorizzare gli
scopi complessivi dell’istituto e della procedura penale nel suo insieme; non si
ragionerà quindi a compartimenti stagni, ma, appunto, si cercherà di adottare una
chiave di lettura volta a soddisfare esigenze globali e sistemiche, che permeano
l’intero sistema processuale penale.
Le esigenze di economia processuale, per il cui soddisfacimento il legislatore ha
deciso di configurare un modulo procedimentale abbreviato, risultano di peculiare
importanza nel nostro sistema processuale: come infatti sancito dall’articolo 111,
comma secondo, della nostra Costituzione, nonché ribadito all’articolo 6 della
Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali, perché si possa parlare di giusto processo penale è essenziale che la
legge garantisca la sua ragionevole durata e che, quindi, predisponga gli strumenti
adatti affinché la definizione della res iudicanda penale avvenga in tempi celeri
ed, appunto, ragionevoli, senza un eccessivo dispendio di risorse e di moneta
processuale.
Una giustizia che funziona in tempi lenti non può essere definita vera giustizia, o
meglio, si può dire che una giustizia ritardata equivale a una giustizia negata; ciò è
particolarmente vero in materia penale, poiché, se così non fosse, ne risulterebbe
frustrato non tanto l’interesse pubblico alla repressione dei reati e al
perseguimento delle condotte criminose, ma soprattutto l’interesse della persona
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sottoposta a procedimento penale ad uscire dallo stato d’incertezza determinato
dal processo ed a vedere definita quanto prima la sua responsabilità nella vicenda,
nonché a conoscere quali riflessi l’accertamento di responsabilità e colpevolezza
potrebbe avere su di un suo bene fondamentale come la libertà personale.
La ragionevole durata del processo penale è dunque un diritto che può essere a
pieno titolo inserito nel catalogo dei diritti fondamentali ed inviolabili della
persona umana, posto, in particolare, a tutela dell’imputato e di ogni parte
coinvolta nel processo penale, nonché un legittimo e fondamentale interesse
dell’ordinamento ed obiettivo al raggiungimento del quale ogni sistema
processuale moderno deve essere volto.
La giustizia, per poter essere definita tale, nonché per guadagnare la fiducia dei
cittadini ed essere credibile agli occhi della collettività, postula che il sistema
processuale ne garantisca la massima efficienza, ma che, al contempo, sappia
realizzare un equilibrato bilanciamento tra le esigenze di economicità processuale
e le garanzie ed i diritti fondamentali riconosciuti alla persona sottoposta a
procedimento penale, primi tra tutti il diritto di difesa ed il diritto al
contraddittorio.
Il nostro legislatore, nel momento in cui è stato chiamare a realizzare quel delicato
contemperamento tra valori e principi di rango costituzionale, ossia il principio del
contraddittorio nel momento di formazione della prova, il diritto di difesa ed il
principio di ragionevole durata, ha deciso di predisporre, accanto al procedimento
ordinario, più lungo e dispendioso in termini di tempo e risorse processuali, ma
capace di offrire anche maggiori garanzie, altri moduli procedimentali, i cosiddetti
procedimenti speciali, tra cui emerge, proprio per la valorizzazione del canone
dell’economia processuale, il giudizio abbreviato.
Secondo quello che era l’intento del legislatore del 1988, il rito abbreviato avrebbe
dovuto assumere il carattere di ordinaria alternatività, ossia avrebbe dovuto essere
lo schema procedimentale mediante il quale definire la stragrande maggioranza
delle res iudicandae penali, lasciando alla definizione mediante le forme ordinarie
soltanto i procedimenti più complessi e necessitanti un cospicuo approfondimento
della fase istruttoria.
Tutto ciò avrebbe comportato notevoli benefici in termini di deflazione del carico
dibattimentale e di maggiore efficienza della macchina giudiziaria: posto che una
notevole percentuale di procedimenti, laddove ne sussistessero le condizioni, si
sarebbero dovuti definire mediante lo schema del rito abbreviato, già in sede di
udienza preliminare, tutte le restanti risorse processuali disponibili avrebbero
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potuto essere impiegate per la definizione di quella restante percentuale di
procedimenti che invece necessitavano della fase dibattimentale.
Questa tesi, nell’intento di capire come l’introduzione della possibilità di svolgere
attività di integrazione probatoria nel corso del giudizio abbreviato ne abbia
modificato i connotati originari ed abbia finalmente eliminato quegli elementi,
presenti nella disciplina originaria dell’istituto, di cui la giurisprudenza non aveva
mancato di evidenziare e denunciare la distonia con i principi costituzionali, inizia
con l’affrontare il tema dell’attività di integrazione probatoria nel giudizio
abbreviato in senso storico dinamico, attraverso una panoramica dell’evoluzione
che ha conosciuto l’istituto, dal 1988 ad oggi: in origine la possibilità di procedere
ad attività di integrazione probatoria era radicalmente preclusa, mentre oggi
esistono due diversi canali attraverso i quali nuovo materiale istruttorio può fare
legittimamente ingresso nel processo celebrato con le forme abbreviate.
Dopo un iniziale excursus di quella che era la disciplina originaria del rito
abbreviato prevista dal legislatore, il quale aveva disegnato un rito da molti
definito “patteggiamento sul rito”, per la cui instaurazione era necessaria la
sussistenza di tre elementi (manifestazione di volontà dell’imputato, consenso del
pubblico ministero e positivo vaglio giurisdizionale circa la definibilità del
processo allo stato degli atti) e nel quale –salvi casi eccezionali– era bandita ogni
forma di integrazione probatoria, verranno messi in luce i suoi originari punti
deboli, che lo rendevano poco appetibile per gli imputati e in concreto inservibile
come strumento di deflazione ed economia processuale; dal momento che spesso
le indagini preliminari percorrevano itinerari sfavorevoli alla persona sottoposta
alle indagini, e poiché la consistente lunghezza dei tempi processuali richiesti dal
procedimento ordinario rendeva molto probabile l’estinzione del reato per decorso
dei termini prescrizionali, era quanto meno dubbio l’interesse dell’imputato a
chiedere che il processo fosse definito in tempi celeri, all’udienza preliminare, allo
stato degli atti e sulla base di un quadro probatorio totalmente cristallizzato, senza
nessun margine di completamento o integrazione.
Due erano i rigorosi presupposti di ammissibilità del rito abbreviato, in assenza
dei quali il giudizio abbreviato non si sarebbe potuto instaurare: il requisito della
definibilità del procedimento allo stato degli atti ed il consenso del pubblico
ministero; oltre al fatto che il primo interdiceva radicalmente ogni attività di
natura probatoria e precludeva ab origine qualsiasi ampliamento del panorama
conoscitivo, entrambe presentavano l’inconveniente di esporre gli imputati ad
ingiustificate disparità di trattamento, dal momento che la possibilità di accedere
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al rito avrebbe finito per dipendere dall’impegno profuso dall’organo di accusa nel
corso delle indagini preliminari.
Ci si soffermerà, quindi, con particolare attenzione, sulle sollecitazioni di
revisione della disciplina ad opera della giurisprudenza costituzionale, la quale, in
particolare con la sentenza monito n. 92 del 1992, propone proprio l’introduzione
di meccanismi di integrazione probatoria come strumento per porre rimedio alle
censure di illegittimità costituzionale da cui risultava affetta la disciplina.
In conseguenza di ciò, particolare attenzione sarà posta alle modifiche introdotte
dalla legge n. 479 del 1999, c.d. legge Carotti, la quale ha realizzato un’autentica
mutazione genetica del giudizio abbreviato, da rito “a prova bloccata” in rito “a
prova contratta”, aperto alla possibilità di supplementi istruttori, attraverso due
diversi canali, i quali possono persino concorrere: la richiesta dell’imputato e
l’intervento, anche officioso, del giudice. Verranno poi messi in evidenza ulteriori
profili innovativi di questa legge, che ha provveduto in particolare
all’eliminazione dei due presupposti processuali per l’accesso al rito
precedentemente richiesti, riducendoli ad uno, ossia alla manifestazione di volontà
dell’imputato e trasformando quindi il rito abbreviato, per lo meno nella sua forma
semplice ed incondizionata, in diritto potestativo dell’imputato e la richiesta di
essere giudicato mediante tali forme in una peculiare espressione e manifestazione
del diritto di difesa.
Alla luce di una recente sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 2009, verrà
affrontata la questione del legame intercorrente tra giudizio abbreviato ed indagini
difensive, riconoscendo la possibilità di utilizzare ai fini della decisione anche il
materiale raccolto dal difensore in sede di investigazioni difensive, e la
compatibilità della disciplina attuale con i principi costituzionali che governano la
materia del processo penale, in particolare il canone di parità delle parti
processuali, il principio del contraddittorio nella formazione della prova ed il
principio di uguaglianza e parità di trattamento.
Indiscutibilmente, la legittimità costituzionale della disciplina del rito abbreviato
discende dal disposto dell’articolo 111, comma quinto, della Costituzione, ai sensi
del quale si riconosce la possibilità che l’imputato, mediante il suo consenso,
possa apportare una deroga al principio del contraddittorio nel momento di genesi
della prova, sancito al precedente comma quarto dello stesso articolo.
In proposito saranno ripercorse le linee che hanno animato, a seguito della
sentenza del 2009, il vivace dibattito dottrinale tra due orientamenti contrapposti:
da un lato, coloro che, non condividendo la soluzione accolta di giudici
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costituzionali, differenziano una dimensione soggettiva di contraddittorio,
soggetta al potere dispositivo ed abdicativo dell’imputato, da una dimensione
invece oggettiva, la quale rappresenterebbe il metodo epistemologico da seguire
per l’accertamento dei fatti nel processo penale, indisponibile ad opera delle parti;
dall’altra parte, coloro che ritengono che il contraddittorio sia una peculiare
manifestazione del diritto di difesa, una prerogativa dell’imputato, traendone come
logica conseguenza la correttezza della tesi accolta dalla Corte Costituzionale.
Saranno analizzati, in seguito, i due diversi canali previsti dal legislatore per
procedere ad attività di integrazione probatoria (ossia la richiesta condizionata
dell’imputato e l’attività istruttoria, anche officiosa, del giudice) e si valuterà, da
un lato, se e come l’ingresso di nuovo materiale istruttorio nell’ambito del
giudizio abbreviato, possa conciliarsi con le esigenze di economicità che
permeano l’istituto e, dall’altro, come la possibilità di procedere ad attività di
integrazione probatoria, anche ex officio iudicis, si renda necessaria alla luce
dell’esigenza di ricerca della verità –fine primario ed ineludibile del processo
penale– nonché alla luce del principio di indisponibilità della materia penale.
Uno dei due diversi moduli procedurali nei quali il giudizio abbreviato si articola è
il giudizio abbreviato condizionato, introdotto mediante una richiesta proveniente
dall’imputato definita “complessa” o “condizionata”, poiché subordinata alla
circostanza che il giudice accolga la richiesta di assunzione di tutte le prove che
l’imputato ha reputato necessarie ai fini della decisione. Sarà esaminato in
maniera approfondita l’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, il
quale disciplina, in primis, i due requisiti fondamentali di cui il giudice deve
vagliare la sussistenza, al fine di disporre il giudizio abbreviato: la necessarietà
della prova richiesta dall’imputato ai fini della decisione e la sua compatibilità con
le finalità di economia processuale proprie del procedimento.
Particolare attenzione verrà prestata al significato che dottrina e giurisprudenza
attribuiscono a tali parametri, a prima vista estremamente vaghi ed indefiniti e
quindi tali da poter celare il rischio di valutazioni discrezionali ed arbitrarie del
giudice, e sulla necessità, affermata sia dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale nella sentenza n.169 del 2003, sia dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione con la sentenza Wajib del 2004, che il vaglio giurisdizionale del
magistrato, a cui la richiesta sia stata per la prima volta presentata, laddove si sia
concluso con esito negativo, non sia sottratto ad un successivo sindacato da parte
del giudice dibattimentale o del giudice di appello, in virtù delle significative
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ripercussioni di portata sostanziale che il diniego della richiesta inevitabilmente
porterebbe con sé.
Al fine di incentivare il ricorso alla scelta del rito abbreviato, il legislatore ha fin
da subito previsto, a favore degli imputati che scegliessero il giudizio abbreviato,
un considerevole beneficio di natura premiale, ossia lo sconto di pena nella misura
di un terzo rispetto a quella che sarebbe stata inflitta se si fosse proceduto tramite
le forme ordinarie.
Il riconoscimento della possibilità dell’imputato di reiterare la richiesta di giudizio
abbreviato prima dell’apertura del dibattimento e del giudice dibattimentale di
applicare lo sconto di pena all’esito del dibattimento stesso, laddove ritenesse
ingiustificato il rigetto della richiesta condizionata proveniente dal gip o dal gup,
va tuttavia a spezzare il sinallagma tra effettiva deflazione processuale e beneficio
premiale; anche laddove il conseguimento degli obiettivi di economia processuale
risultasse definitivamente compromesso, per via della celebrazione del giudizio
mediante le forme ordinarie, verrebbe comunque riconosciuto il diritto
dell’imputato ad ottenere lo sconto di pena all’esito della fase dibattimentale. La
ratio di tale scelta giurisprudenziale si spiega in quanto la discrezionalità del
giudice e l’erronea valutazione circa l’insussistenza dei requisiti di ammissibilità
della richiesta complessa non possono sortire effetti tanto pregiudizievoli sulla
posizione sostanziale dell’imputato al punto da privarlo, irrimediabilmente, di un
beneficio a cui avrebbe avuto diritto.
Da questa soluzione si evince come nel nostro sistema processuale le esigenze di
effettiva semplificazione e deflazione del carico giudiziario siano destinate a
soccombere e comunque non possano mai estendersi al punto tale da sacrificare la
tutela delle chance difensive dell’imputato ed il principio di legalità della pena.
Per tale motivo, il binomio tra economia processuale e trattamento premiale
talvolta si spezza e non sempre il secondo viene a dipendere necessariamente
dall’esistenza del primo.
Per quanto concerne la temuta inconciliabilità delle attività di integrazione
probatoria con le esigenze di economicità che permeano l’istituto, benché la
compatibilità dell’integrazione probatoria richiesta dall’imputato con il canone di
economia processuale sia espressamente contemplata dall’articolo 438, comma
quinto, come essenziale parametro di cui il giudice deve vagliare la sussistenza al
fine di ammettere il giudizio abbreviato condizionato, la fondamentale sentenza
n.115 del 2001 della Corte Costituzionale ha fugato ogni perplessità ed ha sancito
che, anche laddove si debba procedere ad un’attività istruttoria particolarmente
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complessa, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una
considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in
dibattimento.
Da questo punto di vista, nonostante la ratio di economia processuale sia sempre
immanente all’istituto del rito abbreviato, non si richiedere espressamente il
rispetto del canone di economicità anche da parte delle altre attività di
integrazione probatoria per le quali esso non sia stato espressamente indicato dal
legislatore: ossia l’attività istruttoria ex officio iudicis e la richiesta di controprove
da parte del pubblico ministero. Dal momento che, ove si debba operare un
raffronto in termini di economia processuale, il giudizio abbreviato va confrontato
con il giudizio ordinario dibattimentale, comunque il minor dispendio di tempo e
risorse processuali rispetto al procedimento celebrato con le forme del giudizio
ordinario continua ad essere un connotato essenziale ed ineliminabile del giudizio
abbreviato.
La realizzazione di un considerevole risparmio di tempi e risorse processuali
rispetto al dibattimento è possibile poiché, nel giudizio abbreviato, sono diverse le
modalità e le procedure, o, come recita l’art. 441, comma 6, c.p.p. le <<forme>>
da seguire per l’assunzione della prova: non risulta infatti applicabile la tecnica
della cross examination, peculiare della fase dibattimentale, bensì una diversa
forma di contraddittorio attenuato o debole, maggiormente conforme alle esigenze
di celerità e speditezza, in cui il giudice è il protagonista ed ha il ruolo attivo di
soggetto chiamato in prima persona all’escussione delle fonti di prova.
L’inapplicabilità della tecnica dell’esame incrociato è l’elemento che permette di
differenziare il giudizio abbreviato dall’ordinario giudizio dibattimentale e che lo
qualifica e lo contraddistingue come rito volto al perseguimento di obiettivi di
economicità: benché non manchi chi ha evidenziato come l’osservanza della
dialettica della cross examination nel momento di genesi della prova avrebbe
garantito una maggiore incisività ed efficacia al procedimento istruttorio, nonché
una maggiore attendibilità del risultato conoscitivo, non si può dimenticare che è
proprio al principio del contraddittorio forte nel momento di formazione della
prova che l’imputato consapevolmente rinuncia mediante la richiesta di rito
abbreviato, conformemente a quanto previsto dall’articolo 111, comma 5, della
Costituzione, in cambio di un trattamento sanzionatorio favorevole, cosicché tale
previsione legislativa risulta essere pienamente in armonia con i principi
costituzionali.
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Si analizzeranno poi gli effetti che discendono dall’accoglimento della richiesta
condizionata, tutti legati all’esigenza di non stravolgere ex post le aspettative
dell’imputato il quale rinuncia al diritto al contraddittorio nel momento genetico
della prova in cambio di un considerevole beneficio premiale, ma solo a patto che
le prove da lui sollecitate vengano effettivamente assunte; da ciò discende
l’impossibilità per il giudice di espletare solo in parte l’attività di integrazione
probatoria già ammessa (ed, ancora prima, di accogliere solo in parte la richiesta
stessa di integrazione probatoria, al di là di ogni previsione legislativa in tal
senso), nonché il divieto per il giudice di revocare unilateralmente l’ordinanza
ammissiva del rito, senza che ricorra in tal senso una manifestazione di volontà
dell’imputato, laddove non sia possibile per cause sopravvenute ed imprevedibili
procedere all’assunzione delle prove richieste.
Con riferimento a questa tematica verrà illustrata una persuasiva opinione
dottrinale, la quale suggerisce di riconoscere anche nelle ipotesi di sopravvenuta
impossibilità di procedere all’attività di integrazione probatoria, così come
avviene nel caso di modifica dell’imputazione, una sorta di ius poenitendi
all’imputato, ossia la possibilità di chiedere un ritorno al procedimento ordinario,
posto che altrimenti ci si troverebbe di fronte ad un’atipica instaurazione del
giudizio abbreviato, avvenuta contro la volontà dell’imputato.
Successivamente, si individueranno le tipologie di prove che possono trovare
ingresso nel giudizio abbreviato, concludendo per l’assenza di vincoli di
tassatività e fatta salva l’impossibilità di dare ingresso alle prove affette da
inutilizzabilità c.d. patologica, ossia da vizi talmente gravi, poiché assunte contra
legem o con modalità tali da pregiudicare i diritti difensivi, da escluderne in toto
l’efficacia dimostrativa, in qualsiasi stato e grado del procedimento penale.
L’impossibilità di dare ingresso alle prove affette da inutilizzabilità patologica
discende dalla necessità di tutelare, in ogni stato e grado del procedimento,
l’indisponibile ed irrinunciabile principio di legalità del procedimento probatorio,
rispetto al quale il giudice riveste il ruolo di garante.
Una tale preclusione non si estende invece alle ipotesi di inutilizzabilità c.d.
fisiologica, ossia connaturale al principio di rigida separazione tra fase preliminare
e fase dibattimentale del procedimento penale che, ai sensi dell’articolo 526,
comma primo, c.p.p. vieta al giudice di utilizzare, ai fini della decisione, prove
diverse da quelle legittimamente assunte nel dibattimento; questo perché,
mediante la richiesta di giudizio abbreviato, l’imputato acconsente a che gli atti e
gli elementi acquisiti unilateralmente, al di fuori del contraddittorio, dalla parte