I rifugiati palestinesi: un’introduzione “I’m not ready to even discuss the ’right of return’ of even one refugee.” Avigdor Lieberman, Ministro degli Esteri israeliano.
28 aprile 2009.
1
I rifugiati palestinesi provengono o discendono da chi proveniva dalle terre
che tra il 1929 e il 1948 rientrarono nel mandato britannico in Palestina e che si
dividono oggi nello Stato di Israele, Cisgiordania (che comprende Gerusalemme
Est) e la Striscia di Gaza. Promessi allo stesso tempo dalla Gran Bretagna sia agli
arabi (per l’aiuto fornito dall’esercito arabo alla lotta contro l’Impero Ottomano)
che agli ebrei (la cui colonizzazione sionista era giunta ormai alla terza aliyah ) i
territori della Palestina hanno conosciuto, a partire dalla creazione dello Stato di
Israele, una travagliata storia di conflitti e violenze.
Per decenni il dibattito sugli eventi che hanno portato alle migrazioni del
popolo autoctono della Palestina è stato controverso. Le ragioni delle migrazioni
di migliaia di Palestinesi musulmani e cristiani sono complesse e strettamente
interconnesse alla Nakba e alle circostanze di violenza e guerra verificatesi tra il
1947 e il 1949, nonché nell’approvazione, avvenuta nel novembre del 1947, della
Risoluzione 181 dell’ONU sulla partizione dei territori. Vi hanno inoltre concorso
le successive espulsioni di Palestinesi avvenute a seguito della guerra dei Sei
giorni nel 1967, dalla Giordania nel corso del cosiddetto Settembre Nero nel
1970, dal Libano nel 1982, dal Kuwait durante la Guerra del Golfo e dalla Libia
nel 1996.
2
L’interpretazione storiografica israeliana, per la quale il popolo palestinese
aveva abbandonato volontariamente i territori per far posto agli eserciti invasori
arabi, è stata dapprima confutata dal lavoro di alcuni storici palestinesi, tra i quali
Walid Khalidi e Al-Aref, e poi dalla stessa storiografia israeliana che, a partire
dagli anni Ottanta, ha rivisto la versione sionista. Nuovi storici israeliani come
1
Horovitz D., Mizroch A., “The world according to Lieberman”, The Jerusalem Post , 28 aprile
2009.
2
Shultz H.L., The Palestinian Diaspora. Formation of identities and politics of homeland ,
Routledge, London & New York, 2003, p. 23.
10
Benny Morris, Simha Flapan, Avi Shlaim si sono così distaccati dalle tesi ufficiali
e hanno aperto un dibattito che, analizzando il materiale di archivio dell’esercito,
come quello inerente al piano Dalet, ha confutato la narrazione ufficiale degli
eventi che portarono allo sdradicamento di più della metà della popolazione
autoctona palestinese 3
, all’uccisione di centinaia di civili e alla distruzione di 531
villaggi, durante gli anni di formazione e consolidamento dello Stato di Israele.
4
Secondo Ilan Pappe, il piano Dalet lascia poco spazio all’interpretazione: era
stato designato dai leader dell’Aganah per affrontare la questione della
"popolazione nemica" e il rischio di attacchi contro centri urbani abitati dalla
popolazione ebrea. Per raggiungere questi obiettivi, dava inequivocabilmente
istruzione di distruggere i villaggi e, in caso di resistenza, di espellere gli abitanti.
Il principale obiettivo era creare una continuità territoriale tra i maggiori siti dove
si era concentrata la popolazione ebraica e di assicurare la creazione di uno Stato
demograficamente “ebraico.” 5
Se Morris, il cui lavoro si basa esclusivamente
sugli archivi militari israeliani, ritiene che alla base di questi eventi non vi fu un
progetto politico sistematico dell’esercito israeliano (ma una serie di cause
contingenti quali il conflitto militare, la dilagante paura tra la popolazione, la
disorganizzazione e demoralizzazione araba e locali episodi di violenza e pulizia
etnica), al contrario Pappe riconosce che il piano intrapreso nel marzo del 1948
abbia costituto quella che il diritto internazionale definisce come una pulizia
etnica.
6
Un caso a parte Originariamente stimati attorno agli 800.000
7
, oggi il numero di rifugiati
3
Le cifre israeliane parlano di 500.000 profughi, quelle palestinese di circa 900.000-1.000.000,
mentre la nuova storiografia israeliana di 700.000. Emiliani M. , La terra di chi? Geografia del
conflitto arabo-isreliano-palestinese , il Ponte, Bologna, 2007, p. 42.
4
Pappe I., La pulizia etnica della Palestina , Fazi, Roma, 2008, cit., pp. 5-17. Nel 2007 il 70 per
cento dell’intero popolo palestinese (9,8 milioni) era rifugiato al di fuori dei territori della
Palestina mandataria o internamente dislocato (Internally Displaced People-IDP).
5
Morris B., The Birth of Palestinian Refugees Problem Revisited, Cambridge University Press,
Cambridge, 2004, p. 62.
6
Pappe I., La pulizia etnica della Palestina, cit., p. 5.
7
Ivi.
11
palestinesi (compresi i rifugiati, e i loro discendenti, del 1948, del 1967 e gli
Internally Displaced People-IDP) corrispondono ad una cifra che supera i 7
milioni, su un totale di 10.6 milioni di Palestinesi.
8
Rispetto all’esperienza di altri
gruppi, Micheal Dumper nota che il caso dei rifugiati palestinesi presenta almeno
cinque elementi distintivi. In primo luogo la longevità : a differenza di altre
popolazioni rifugiate, come ad esempio gli armeni, i profughi palestinesi sono tali
da più di sessanta anni, durante i quali non si sono integrati negli Stati di
residenza e sono rimasti identificabili come una popolazione culturalmente e
socialmente distinta, unita dall’esperienza dell’esilio e dalla speranza del ritorno.
In secondo luogo, non solo il loro numero è maggiore a qualsiasi altro gruppo
di rifugiati, ma la popolazione rifugiata o dislocata rappresenta la maggioranza
dell’intera popolazione odierna palestinese. In terzo luogo, se solitamente il
ritorno dei rifugiati è impedito da situazioni di protratto conflitto, repressione
politica o al permanere di pericoli nel proprio Paese di origine, i rifugiati
palestinesi non possono tornare principalmente a causa del nazionalismo etnico-
religioso del governo israeliano: “the obstacles to their repatriation was not
dissatisfaction with their homeland (..) but the fact that a Member of the United
Nations was preventing their return.” 9
Il governo israeliano ha infatti proibito il
ritorno dei Palestinesi per mantenere il carattere ebraico dello Stato e
salvaguardarne così la sua “democraticità.” In quarto luogo la leadership palestinese è responsabile solo di una parte del
territorio da cui provengono i profughi per cui il programma di rimpatrio non
potrà verosimilmente comprendere quei territori di provenienza che oggi si
trovano entro i confini dello Stato di Israele. Infine, un altro tratto distintivo dei
rifugiati palestinesi è il fatto di essere caratterizzati da un sistema di protezione e
amministrazione unico.
10
8
BADIL Resource Center for Palestinian Residency & Refugee Rights ( BADIL), “Survey of
Palestinian Refugees & Internally Displaced Persons 2006-2007”, Betlemme 2007, p. 57,
online: www.badil.org.
9
“Remarks of the Lebanese Represenative”, citato in Akram, S., " Palestinian Refugees and
Their Legal Status: Rights, Politics and Implications for a Just Solution ", Journal of Palestine
Studies, vol. 31, n. 3, 2002, pp. 36-51, p. 40.
10
Dumper M. (ed.), Palestinian Refugee Repatriation: Global Perspective, Routledge, London,
2006, pp. 5-6.
12
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite creò l’United Nation High Commissioner for Refugees (UNHCR).
Basandosi sui principi sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo del 1948, dalle quattro Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario
internazionale (1949), dal la Convenzione dei Rifugiati del 1951 e dal Protocollo
del 1967, questa agenzia ha il compito di garantire uno standard minimo di
trattamento ai rifugiati nei loro paesi di esilio. I Paesi che hanno ratificato la
Convenzione del 1951 sono quindi tenuti a proteggere i rifugiati nel proprio
territorio, ovvero a garantire il diritto di asilo, i documenti di viaggio,
l’approvvigionamento di cibo, rifugio, servizi sanitari ed educativi. Tra i compiti
dell’UNHCR vi è inoltre quello di facilitare soluzioni durevoli come il
reinsediamento, l’integrazione e il rimpatrio (quest’ultima soluzione corrisponde
anche ad un diritto) . Inoltre, tutte le persone dislocate in seguito a violazioni del
diritto internazionale e in seguito a crimini di guerra hanno il diritto al
risarcimento per tali violazioni subite.
11
Poiché la Convenzione di Ginevra non si applica alle persone che ricadono
sotto l’assistenza di altre agenzie delle Nazioni Unite, i profughi palestinesi
rappresentano l’unica categoria di rifugiati al mondo a non venire protetta dalle
disposizioni della Convenzione.
12
A seguito della conferenza di Losanna nel
1949, quando divenne chiara l’impossibilità di rimpatriare i rifugiati palestinesi
entro tempi brevi, i primi organismi istituiti per far fronte al disastro umanitario
procurato dalla prima guerra arabo-israeliana (l’United Nation Disaster Relief
Project prima, e l’ United Nation Relief for Palestine Refugees poi), vennero
sostituiti con la United Nations Conciliation Commission for Palestine-UNCCP
11
La Convenzione di Ginevra del 1951 all’art. 1 definisce un rifugiato come colui che “temendo
a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un
determinato gruppo sociale o per le suo opinioni politiche, che si trova al di fuori del Paese di
cui è cittadino e non può o non vuole avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che,
non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a
seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”, online:
www.unhcr.it.
12
Furono gli stessi Stati arabi a proporre con insistenza l’articolo 1D. Questo esclude i rifugiati
che fruiscono della protezione o dell’assistenza di un’organizzazione o di un’istituzione delle
Nazioni Unite che non sia l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati dalle
disposizioni della Convenzione. L’’emendamento fu approvato, ma la maggior parte degli Stati
arabi non ratificò la Convenzione.
13
(con il generico incarico di facilitare la promozione della pace e di individuare
una soluzione definitiva per i profughi) e l’unica agenzia delle Nazioni Unite
pensata per un gruppo specifico di rifugiati, ovvero l’United Nation Relief and
Works Agency for Palestine Refugees in the Near East-UNRWA.
13
Per tre ragioni principali si ritenne necessario creare un’agenzia apposita al
caso palestinese: a) l’origine del problema era una diretta conseguenza di una
risoluzione ONU (la n. 181); b) il consenso generale nel considerare i rifugiati
palestinesi come un insieme che necessitava assistenza e protezione; c) la
preoccupazione degli Stati arabi.
In un periodo storico caratterizzato da un
elevato numero di rifugiati (legati agli eventi della seconda Guerra Mondiale), gli
Stati arabi temevano che, se non si istituzionalizzava una specifica responsabilità
delle Nazioni Unite verso i Palestinesi, questi sarebbero potuti passare in secondo
piano e, conseguentemente, la loro sussistenza sarebbe ricaduta interamente sulle
spalle dei Paesi di approdo.
14
L’UNRWA definisce “rifugiato palestinese” una persona “il cui normale luogo
di residenza è stata la Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948 e che ha perso
sia l’abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del
1948” 15
e vi sono compresi anche i loro discendenti (si tratta di una grande
eccezione alla ordinaria definizione di rifugiato i n base alla quale il numero di
profughi palestinesi per l’ONU è passato da 711.000 nel 1950 a oltre 4.820.000 di
iscritti nel 2010).
16
A differenza dell’UNHRC, l’UNRWA non ha un mandato di
protezione e non è incaricata di promuovere soluzioni durevoli (la risoluzione
della questione palestinese viene concepita un problema politico che deve dunque
13
L’agenzia iniziò ad operare nel maggio del 1950 procedendo con la registrazione dei rifugiati,
l’allestimento di sessantuno campi profughi (intesi come aree di residenza dei Palestinesi,
frutto di accordi bilaterali con i paesi d’accoglienza), l’assistenza umanitaria d’emergenza e la
predisposizione di servizi di base in materia di educazione, salute e di altri servizi sociali.
14
BADIL Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights, Closing Protection
Gaps , Handbook on Protection of Palestinian refugees in States. Signatories to the 1951
Refugee Convention, agosto 2005.
15
Questa definizione, seppure comprende anche i discendenti dei rifugiati, risulta alquanto
riduttiva e sono migliaia i Palestinesi che ne sono rimasti esclusi. Non solo non vi sono
compresi i rifugiati de 1967 ma, ad esempio, non vi rientrano categorie come i beduini che nel
1948 hanno perso l’accesso ai loro pascoli ma non hanno perso alcuna abitazione, o i
palestinesi fuggiti nelle aree non di competenza dell’Agenzia (come ad esempio in Egitto).
16
UNRWA, “UNRWA in Figures, June 2010”, online: www.unrwa.org.
14
essere risolto in sedi apposite).
L’Agenzia, pensata come un organo temporaneo (il suo mandato viene
rinnovato periodicamente), si occupa principalmente di salute, educazione, servizi
di sanità e soccorso e offre ai rifugiati i servizi sociali di base. Accanto a questi
computi è stata successivamente coinvolta in programmi di sviluppo e
integrazione dei profughi nella vita economica dei paesi ospitanti al fine di
renderli nel tempo indipendenti dal soccorso umanitario, segnando così la fine del
soccorso di emergenza e riconoscendo la natura a lungo termine del rifugismo
palestinese. L’azione dell’Agenzia finì piuttosto per essere intesa come volta alla
“riabilitazione” dei rifugiati attraverso l’assistenza (welfare) e opportunità di
lavoro e si presentava dunque come organo di sviluppo piuttosto che un
istituzione di tutela.
17
Proprio questo focus sullo sviluppo sarà al centro delle critiche più aspre
rivolte all’UNRWA, la cui azione è stata spesso considerata come un tentativo di
rendere i palestinesi quiescenti attraverso il supporto economico e di promuovere
una soluzione alternativa al ritorno: “although officially committed to resolution
194, UNRWA’s initial attempts towards initiating massive public work projects
were tantamount to advocating local integration as an alternative solution to the
refugee problem.” 18
Il rapporto tra rifugiati e l’Agenzia è tuttavia ambiguo. Se da
un lato l’UNRWA viene criticata per il suo focus sullo sviluppo, dall’altro il
sistema educativo offerto ha permesso ai profughi di beneficiare di un alto livello
di istruzione se paragonato alla media regionale. Inoltre, poiché le istituzioni
dell’UNRWA sono immuni dall’interferenze dei governi, è divenuta talvolta base
di attivismo politico e ha finito con l’essere vista come un’apparato quasi
governativo coinvolto nella lotta politica palestinese.
19
Se il senso nazionalista palestinese si è rafforzato oltre che nella lotta contro
17
Shultz H. L., The Palestinian Diaspora. Formation of identities and politics of homeland , cit.,
p. 37. Ad esempio negli anni Cinquanta l’UNRWA si impegnò in un’ampio progetto di
sviluppo nella valle del giordano e nel Sinai volto ad incentivare l’integrazione locale dei
rifugiati.
18
Takkemberg L. citato in Dumper M., The Future for Palestinian Refugees: Toward Equity and
Peace , Lynne Rienner Publishers, Boulder Co, London, 2007, p. 117.
19
Shultz H.L., The Palestinian Diaspora , cit., p. 37.
15
Israele, proprio anche attraverso la condivisa esperienza di refugeedom 20
, in
questo processo di resistenza e conservazione di una memoria comune, la
definizione di rifugiato elargita dall’UNRWA è stata una fonte di identità atipica:
per individui sdradicati, esiliati in terre straniere, con un futuro incerto e spesso
senza neanche un documento di identità, le carte identificative dell’UNRWA
(come ad esempio l’UNRWA ration card ) si presentavano in alcuni casi come
l’unico legame tra l’uomo e la sua storia: “To be definited as a refugee was the
only way in which the loss was made explicit.” 21
Molti Palestinesi hanno dunque
continuato ad inserirsi nei registri dell’UNRWA anche senza un effettivo bisogno
di tutela: “because doing so retains their claims to Palestine and register an
injustice. Most importantly, registration invokes international responsability.” 22
Lo svantaggio di ricadere sotto la responsabilità di un’agenzia specifica è che i
Palestinesi sono trattati con logiche umanitarie, ma non sono inclusi nella più
ampia protezione accordata dall’UNHCR e da altri organismi internazionali.
Infatti, se da un lato l’UNHCR predispone meccanismi di protezione e di tutela
dei rifugiati e dei loro diritti (fra i quali il diritto al ritorno e al risarcimento),
dall’altro l’UNRWA non prevede nessuna forma di tutela giuridica per i profughi
palestinesi: di conseguenza il collasso dell’UNCCP, la protezione limitata offerta
dall’Agenzia e la generale esclusione dall’UNHCR hanno causato un serio vuoto
di protezione per i rifugiati palestinesi. Il tipo di assistenza accordato
dall’UNRWA si può piuttosto definire come una protezione di soccorso volta a
salvaguardare i diritti economici e sociali fondamentali (alloggi, alimenti, cure
sanitarie e istruzione), che tuttavia non è proporzionale allo standard generale di
protezione accordato agli altri rifugiati.
23
Nel settembre del 1965 la Lega Araba organizzò una conferenza al fine di
sviluppare un sistema di protezione regionale per i rifugiati Palestinesi. Venne
20
Dumper M. (ed.), Palestinian Refugee Repatriation: Global Perspective, Routledge, London,
2007, pp. 4-6.
21
Shultz H.L., The Palestinian Diaspora. Formation of identities and politics of homeland , cit.,
p. 38.
22
Peteet J. citato in Suleiman J. “Trapped refugees: the case of Palestinians in Lebanon”, in
Suleiman J., Mansour N. e Yassin N., No refuge: Palestinians in Lebanon , Refugee Studies
Centre Working Paper Series n. 64, UK, 2010, p. 17.
23
Ibidem, p. 13.
16
così approvato il Protocollo di Casablanca che impegnava gli Stati arabi a
garantire ai Palestinesi il diritto di lavorare, risiedere e viaggiare liberamente.
Molti membri firmarono il Protocollo senza condizioni (Giordania, Algeria,
Sudan, Iraq, Siria, Egitto e Yemen) ma altri, come il Libano, apportarono una
serie di riserve che condizionarono i diritti accordati alle priorità nazionali. In
particolare il sistema di protezione regionale si indebolì dopo la prima Guerra del
Golfo, quando la Lega si riunì nuovamente per rivedere il Protocollo. Il 12
settembre 1991 fu infatti approvata la risoluzione 5093 che, facendo ricadere lo
status dei rifugiati sotto la responsabilità dei singoli Stati (dipendente dalle leggi
nazionali in materia), legittimò in alcuni casi l’introduzione di leggi
discriminatorie che revocarono molti dei privilegi accordati.
24
Il Processo di Pace L’illegalità della denazionalizzazione dei profughi palestinesi e il loro diritto al
ritorno nei loro paesi di origine, oltre ad essere stato ribadito da una lunga serie di
risoluzioni ONU, è confermato dal diritto internazionale consuetudinario 25
e
pattizio: ad esempio dall’art. 13 (2) della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, dall’art. 5 (d) (ii) della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma
di discriminazione razionale (CERD), art. 12 (4) della Convenzione
Internazionale sui Diritti Civili e Politici (CIDCP). In base alla risoluzione n. 194
i Palestines i fuggiti a seguito della guerra del 1948 hanno il diritto di ritornare
nelle loro terre o ad essere risarciti per i danni subiti e i beni perduti (non vi
rientrano dunque gli sfollati a seguito dei successivi conflitti e violenze).
26
24
L’emendamento venne interpretato da molti come una punizione per Palestinesi a causa del
sostegno dato dall’OLP al regime di Sadam Hussein. (Knusden A., “Widening The Protection
Gap: The ’Politics of Citizenship’ fo Palestinian Refugees in Lebanon, 1948-2008”, Journal of
Palestine Studies, v. 22, n. 1, 2009, pp. 52-73, p. 57).
25
La denazionalizzazione basata su questioni di razza o di origini etniche costituisce una
violazione del principi generali di non discriminazione nel diritto internazionale
consuetudinario. Nella pratica internazionale in Bosnia, Timor Est, Kosovo e Ruanda i rifugiati
hanno esercitato il diritto al ritorno.
26
“Refugees wishing to return to their homes and live at peace with their neighbours should be
permitted to do so at the earliest practicable date, and that compensation should be paid for the
property of those choosing not to return and for loss of or damage to property of those
choosing not to return and for loss and damage to property which, under principles of
17
Ad eccezione di rari casi di ricongiungimento familiare, intesi come
humanitatian act o gesti di benevolenza piuttosto che doveri giuridici o morali, lo
Stato israeliano non ha mai preso seriamente in considerazione la richiesta
palestinese di una piena attuazione del diritto al ritorno, tanto che proprio questo
punto viene considerato come “[the] most stricking element to cause many
Israelis to believe that Israeli-Palestinian Peace is not possibile.” 27
Un pieno
riconoscimento di tale diritto comporterebbe infatti l’accettazione da parte di
Israele della sua piena responsabilità e l’ammissione che un’azione legalmente e
moralmente sbagliata si trovi alla base della propria indipendenza. Allo stesso
modo, per i Palestinesi significherebbe, oltre al soddisfacimento di un diritto
individuale, il riconoscimento di quel che accadde, della loro storia individuale e
collettiva, dell’ingiustizia subita.
Lo Stato israeliano non solo sostiene l’impossibilità di accogliere tre milioni di
Palestinesi (a tanto ammonterebbero oggi i discendenti degli sfollati del 1948)
senza sconvolgere le fondamenta della fabbrica sociale israeliana, ma afferma che
la rivendicazione di un diritto al ritorno contrasterebbe con il l’idea di “two-states
for two peoples solution” (poiché garantirebbe ai Palestinesi due Stati e gli ebrei
israeliani diventerebbero minoritari nel Paese). Alcuni giuristi israeliani ritengono
che il diritto all’autodeterminazione includa quello di mantenere una maggioranza
democratica nel proprio Paese e che in base a tale diritto al legge internazionale
permetterebbe agli Stati forme di discriminazione nel procedure di immigrazione.
Inoltre, se il diritto al ritorno esiste nel diritto consuetudinario, lo stesso diritto
non sarebbe stato applicato quando il territorio in questione è stato scisso in due
Stati.
28
Secondo Rex Brynen, qualunque siano le considerazioni legali o morali alla
base, un diritto al ritorno nel suo significato originario di ritorno su larga scale dei
rifugiati nelle loro terre “ is unlikely to be realized.” 29
Se ufficialmente la
international law, or in equity, should be made good by the governments or authorities
responsible.” Risoluzione ONU 194, online: www.badil.org.
27
Chiller-Glaus M., Tackling the Intractable. Palestinian Refugees and The Search for Midle
East Peace, Peter Lang, Bern, 2007, p. 100.
28
Ibidem, pp. 100-111.
29
Brynen R., “Palestinian Refugee and the Middle East Peace Process”, 1998, online:
http://prrn.mcgill.ca.
18
posizione della leadership palestinese sul diritto al ritorno rimane ferma, alcuni
intellettuali, come Ziad Abu Zayyad e Rashid Khalidi, parlano della necessità di
tramutare “return to 1948 homes in return to national soil.” Khalidi ad esempio
afferma che se deve essere garantito a livello di principio che tutti i rifugiati
palestinesi e i loro discendenti hanno il diritto di far ritorno nelle loro case,
dovrebbe essere ugualmente accettato "that in practice force majeure will prevent
most of them from being able to exercise this right.” 30
A differenza di altri rifugiati dunque, come i guatemaltechi che ritornarono dal
Messico o gli afgani dal Pakistan, il caso palestinese è estremamente complesso.
Le loro terre di origine fanno oggi parte di uno Stato per il quale il loro rimpatrio
comporterebbe problematiche legali ed esistenziali complesse. Nonostante le
Nazioni Unite abbiano richiesto più volte l’attuazione delle risoluzioni numero
194 e 237, nessuna organizzazione internazionale si è attivamente impegnata
nella formulazione di una soluzione esaustiva ai problemi degli IDPs e dei
rifugiati palestinesi e la responsabilità di formulare soluzioni al problema è stata
lasciata alle complesse negoziazioni politiche tra le parti.
Durante gli Accordi di Oslo 31
che, tra le altre cose, portarono al riconoscimento
reciproco tra Israele e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e
alla nomina del primo parlamento palestinese, la questione dei rifugiati rientrò
nelle Red Lines, ovvero in quegli argomenti più spinosi che venivano affidati a
delle commissioni specifiche e furono di fatto rimandati a successivi dialoghi.
La Refugee Working Group iniziò a lavorare nel 1992, ma oltre a dovere
affrontare una serie di problemi finanziari, strutturali e soprattuto politici (le
posizioni pubbliche delle due parti erano evidentemente divergenti)
32
era
30
Khalidi R., "Toward A Solution" citato in Brynen R., “Palestinian Refugee and the Middle East
Peace Process”, cit.
31
Nel settembre del 1993 fu firmata a Washington la Dichiarazione di Principi tra Arafat e Rabin
(Oslo I) che, in base al principio “terra in cambio di pace”, conteneva l’impegno delle parti a
lavorare per la nascita di uno Stato palestinese entro il 1999 e per il ritiro dell’esercito
israeliano dai Territori occupati e dalla Striscia di Gaza. La discussione delle cosiddette Red
Lines (la colonizzazione ebraica dei territori ebraici, il contenzioso idrico, il futuro di
Gerusalemme Est e il diritto al ritorno dei rifugiati) venne invece affidata a delle commissioni
specifiche.
32
Israele domandava fermamente il reinsediamento dei rifugiati o la loro riabilitazione mentre la
parte palestinese si batteva per il diritto al ritorno e la compensazione per i danni subiti.
“Refugees in the Middle East Process”, online: www.prrm.org.
19
strettamente legata alle sorti del processo bilaterale di pace che deteriorò a seguito
della nomina di Netanyahu, leader del partito conservatore Likud, a Primo
Ministro nel 1996.
Fu l’elezione del leader laburista Ehud Barak nel 1999 a rilanciare i negoziati
per un accordo di pace definitivo che contemplasse, oltre ai confini dei due Stati,
il futuro delle colonie ebraiche, il ritorno dei profughi palestinesi e la questione di
Gerusalemme. L’art. 7 del Framework Agreement on Permanent Status, scritto nel
2000 nel corso degli incontri di Harpsund, preliminari a Camp David, affrontava
la questione dei rifugiati per la prima volta. Le parti si dichiaravano determinate a
voler porre fine alle sofferenze dei rifugiati palestinesi riconoscendo la necessità
di una soluzione giusta, umana, politica e realistica ai loro diritti.
33
Durante gli incontri emerse tuttavia l’inconciliabilità delle due posizioni. Se
Arafat chiedeva il riconoscimento del diritto al ritorno, lo sviluppo di meccanismi
volti ad attuarlo e l’avvio di procedure per il risarcimento, Israele palesava la
propria indisponibilità ad accettare un diritto al ritorno che implicasse
l’immigrazione nello Stato israeliano: “Palestinian refugees would not be
garanted the right of return to places under Israeli sovreignity, under any
circumstances, nor would Isreael accept any ethical or legal responsability for the
fact that a refugee problem exists.” 34
A causa di dispute sullo status della Città Santa e al mancato accordo
sull’intricata questione dei rifugiati, il vertice di Camp David si tradusse in un
fallimento. Sullo sfondo di uno scenario irrigidito dallo scoppio della Seconda
Intifada, nel gennaio del 2001 una seconda trattativa fu tentata a Taba. In questa
occasione, Beilin propose che Israele avrebbe assorbito un numero limitato di
rifugiati seguendo il criterio di ricongiungimento familiare. In particolare veniva
espressa la volontà e la necessità di dare la priorità ai rifugiati in Libano a causa
delle dure condizioni in cui erano costretti a vivere, alla problematicità della loro
presenza nel Paese dei Cedri e al “moral commitment to the swift resolution of
33
Chiller-Glaus M., Tackling the Intractable. Palestinian Refugees and The Search for Midle
East Peace, cit., pp. 160-162.
34
L’unico impegno che Israele era pronto a prendersi consisteva nel permettere a qualche
migliaia di Palestinesi di ritornare attraverso family reunification e humanitarian cases in un
arco di tempo di 10 anni. (Ibidem, pp. 168-169).
20
the plight of the refugee population of the Sabra and Chatila Camp.” 35
In attesa
che venisse creato il nuovo Stato palestinese, si arrivava ad ipotizzare un
trasferimento di questi altrove: “The refugees in Lebanon must be taken away
from there.” Anche se in quegli anni le parti sembravano non essere mai state così tanto
vicino alla pace, a causa dell’intransigenza di entrambe le parti (che
rispecchiavano la non disponibilità al compromesso delle rispettive opinioni
pubbliche) e dell’uccisione di tre israeliani in Cisgiordana, anche le speranze di
Taba si affossarono.
36
D’altronde, n eanche l’accordo di Ginevra del 2003,
negoziato dai rappresentanti della società civile israeliana e palestinese che
raggiungevano un intesa per la pace definitiva tra le parti (ma i cui lavori non
vennero mai seriamente presi in considerazione dalle autorità politiche) riuscì ad
accordarsi su un ritorno dei profughi in Israele che comprendesse più di un
centinaio di migliaia di Palestinesi, i quali sarebbero rientrati attraverso normali
procedure di immigrazione.
37
Gli incontri si erano basati essenzialmente sui suggerimenti espressi nei “the
Clinton Parameters.” Nel dicembre 2010, dopo il fallimento del vertice di Camp
David, il Presidente degli Stati Uniti aveva elaborato una serie di linee guida per
arrivare ad un accordo. In riferimento alla questione dei rifugiati, considerata
come lo scoglio più difficile da superare, si suggeriva il riconoscimento sia del
diritto al ritorno nella Palestina storica che il diritto dei rifugiati palestinesi ad
avere una patria.
L’attuazione di tale diritto tuttavia sarebbe dovuto essere coerente con la
soluzione dei due Stati: in altre parole il diritto al ritorno sarebbe stato
riconosciuto, ma solo nel nuovo Stato palestinese. In alternativa, ai rifugiati
veniva comunque permesso di scegliere tra la riabilitazione negli attuali luoghi di
residenza, il trasferimento in un Paese terzo, o il ritorno all’interno dello Stato di
35
Chiller-Glaus M., Tackling the Intractable. Palestinian Refugees and The Search for Midle
East Peace, cit., p. 200.
36
Per una discussione sulle ragioni che hanno determinato il fallimento del Processo di Pace,
vedi ad esempio Grinberg L., Politc and Violence in Israel/ Palestine: democracy versus
military rule, Routledge, New York, 2009.
37
Geneva Accord Status Agreement 2003”, online: www.globalsecurity.org.
21
Israele (ma questo diritto sarebbe rimasto soggetto alla discrezione dello Stato
ebraico).
38
Le tre tradizionali alternative individuate per rispondere con una soluzione
durevole alla questione dei rifugiati sono: l’integrazione locale nei Paesi che li
ospitano, il ricollocamento in un Paese terzo o il rimpatrio nel Paese di origine.
Nel caso palestinese, nonostante forme di integrazione siano di fatto avvenute in
Siria e Giordania
39
, l’ipotesi di una definitiva assimilazione dei rifugiati negli
attuali Paesi di residenza verrebbe vista come una legittimazione dell’azione
israeliana ed è generalmente osteggiato dalla leadership palestinese e dai Paesi
arabi.
La posizione più forte in tal senso è quella del Libano che, oltre ad essere il più
ideologicamente coinvolto nella lotta contro Israele, è il più economicamente e
socialmente minacciato dalla presenza palestinese. Come si legge in un rapporto
del BADIL Resource Center, “Lebanese government policy aims to prevent
resettlement and encourage emigration by isolating Palestinian community.” 40
Dall’altro lato, l’ipotesi di un ritorno in Israele è, per le ragioni che ho
accennato, difficilmente considerabile. Come scriveva Brynen nel 2006 “alle
condizioni politiche attuali, difficilmente vi saranno possibilità di rimpatrio in
qualsiasi parte della Palestina storica per ameno altri dieci anni.” 41
La situazione
da allora non sembra cambiata di molto se non diventando ancora più complessa
a causa della guerra in Libano, nella Striscia di Gaza e della vittoria di Hamas a
Gaza.
Anche la soluzione prevalente da Oslo (sostenuta dalla Road Map del 2002 e
confermata dalla conferenza di Annapolis nel 2007) che vede il ritorno dei
38
Chiller-Glaus M., Tackling the Intractable. Palestinian Refugees and The Search for Midle
East Peace, cit., pp. 199-215.
39
In questi paesi i rifugiati godono di un’ampia serie di diritti sociali ed economici. In particolare
in Giordania, i Palestinesi, che rappresentano più del 40 per cento dell’intera popolazione,
contribuiscono notevolmente all’economia locale e si stima che un loro repentino rimpatrio
comporterebbe serie conseguenze sull’economia del Paese.
40
BADIL Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights: “Palestinian Refugees
in Exile: Country Profiles”, Betlemme, 2010, p. 20.
41
Rex Brynen citato in Dumper M., The Future for Palestinian Refugees , cit., p. 93.
22
rifugiati nel futuro Stato palestinese 42
non sarebbe esente da difficoltà e non
terrebbe in considerazione l’attuale realtà economica, politica, culturale e militare
dei Territori. Negli ultimi anni, a causa del fallimento del processo di Oslo e
dell’incessante aumento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania
43
, un’altra
ipotesi è andata diffondendosi tra alcuni intellettuali, quali ad esempio il
palestinese Edward Said, quella cioè di promuovere uno Stato binazionale.
44
Mentre il dibattito sulla sorte dei rifugiati e del Processo di Pace è ancora
aperto, l’idea dei due Stati r imane la base concettuale dei nuovi negoziati avviati
nel settembre 2010 dall’amministrazione Obama. Tuttavia molti ritengono che
difficilmente la questione dei rifugiati riceverà un’adeguata attenzione e che, a
causa delle rigide posizioni del governo di Netanyahu (che ha già mostrato di non
voler continuare la temporanea moratoria sulla costruzione dei temporanei
insediamenti nei territori occupati) e la debolezza dell’attuale Presidente
dell’Autorità Nazionale palestinese (ANP) Abbas (che ne 2007 ha perso il
controllo nella Striscia di Gaza), siano destinati a risolversi in un ennesimo nulla
di fatto.
45
42
In questo caso dunque, la definizione tecnica non corrisponderebbe a quella di ritorno ma a
quella di trasferimento in nuovo Stato.
43
L’attuale fisionomia dei territori palestinesi, dove continuano ad aumentare gli insediamenti
israeliani, lascia prevedere che un futuro Stato palestinese non potrà che essere formato da
enclave territoriali e difficilmente godrà di una piena sovranità o di reali possibilità di sviluppo
economico.
44
Vedi ad esempio Said E., “Truth and conciliation”, Al-Ahram Weekly, 14 gennaio 1999 e Hilal
J., Where Now for Palestine? The Demise of the Two-State Solution , Zed Books, London, 2007.
45
“Israel in talks over US incentives for settlement freeze”, Financial Times, 15 novembre 2010.
23
Capitolo 1
La presenza palestinese in Libano
“On sait qui ne nous aime pas trop, mais on se le dit pas trop.” Etian, giovane libanese.
46
1.1. L’ Arrivo dei rifugiati in Libano Quando i primi rifugiati arrivarono in Libano, le truppe francesi avevano
lasciato effettivamente il paese da appena tre anni. Strappato dall’enclave siriana
nel 1920, lo Stato del "Grande Libano", per molti nato a tavolino dalla fantasia
imperialista europea piuttosto che da autentiche spinte nazionaliste arabe 47
, aveva
mosso i primi passi verso l’indipendenza nel 1936
48
, ma aveva testimoniato
ancora per una decina di anni quella presenza europea erede dell’Impero
ottomano, che influenzò in modo determinante la creazione dell’impianto
strutturale e sociale del futuro Stato libanese.
In quanto protettrice dei cristiani d’Oriente e, in particolare modo, dei
maroniti libanesi la mano della Francia accompagnò quella delle élite locali nel
disegnare i tratti fondanti della società libanese, esercitando un forte peso
nell’accelerazione di una serie di processi storici e politici legati allo sviluppo di
quell’assetto comunitario 49
in relazione al quale deve essere affrontata gran parte
della storia dei palestinesi in Libano.
46
Etian, studente, Beirut, intervista del 25 maggio 2010.
47
Un Libano inteso come creazione artificiale dell’imperialismo è un concetto presente sia nella
letteratura occidentale che in quella locale. Questa interpretazione che vede il Libano essere il
risultato principale della volontà occidentale di dare uno Stato ai cristiani libanesi, riflette
secondo lo storico libanese Georges Corm “il vuoto di riflessione autonoma dei libanesi che
non sono capaci di accordarsi su una visione storica che non sia il riflesso di quella delle grandi
potenze o delle potenze regionali che pesano sul destino del paese.” (Corm G., Il Libano
Contemporaneo: storia e società, Jaca Book, Milano, 2006, p. 42).
48
Nel 1936 viene firmato il trattato di amicizia e alleanza franco-libanese che afferma
l’indipendenza del Libano. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale rallenta però la reale
emancipazione del paese che avviene il 22 novembre 1943. E’ tuttavia solo nel maggio del
1945 che il territorio libanese sarà effettivamente libero dall’occupazione francese.
49
Di Peri, Il Libano Contemporaneo. Storia, politica, società , Carocci, Milano, 2010, p. 15.
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