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Encomio del Principe
di Vincenzo Peluso.
Il tempo trascorre inevitabilmente offuscando il passato, ma non può
cancellare i facta di personaggi unici, originali che hanno lasciato un segno nella
storia. Anche se molti principi hanno dato un senso al nostro mondo, il nostro
Principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò, ha dominato in modo
equanime e sarà sempre ricordato in “aeternitate vitae”. L‟uomo che ha trasmesso
messaggi importanti tramite il teatro, il cinema e la televisione, annotazioni di
vita quasi fossero profezie. Si è fatto portatore di insegnamenti di vita morali ed
immortali in modo modesto ed elegantemente sottomesso alle sfere politiche
sociali apparentemente più forti, ma la sua volontà di fare ridere in situazioni
drammatiche ha distratto il popolo dalla situazione deprecabile.
Totò, il ragazzo cresciuto nel rione Sanità di Napoli, il quale nonostante il
successo ottenuto dopo sacrifici e dure prove, continuava a difendere le classi
inferiori, povere, disadattate, anche quando veniva scacciato dai teatri non
perdeva il suo entusiasmo e la comicità brillava di luce incandescente.
La società muta, il tempo passa, il sistema sociale politico subisce
continuamente metamorfosi, ma i capolavori di Totò vengono trasmessi
indicando il suo insegnamento importante dal punto di vista del rispetto e
dell‟educazione. Ancor oggi egli è riuscito a riproporre sui palcoscenici italiani la
stessa stabilità e disciplina comica tanto forte del Principe, dotato di una ricca
mimica ed espressività, riuscita a far ridere con semplici, ma dirette battute.
Il mio tentativo è stato quello di trasmettere il profondo affetto, la
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straordinaria ammirazione che provo nei riguardi di Totò.
Concludo con alcuni passi tratti dal clown interpretato da Totò, i quali
esternano lo stile e il talento del principe attraverso lo strumento del cinema e del
teatro: «Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa,
io li perdono, un po‟ perché essi non sanno, un po‟ per amor tuo, un po‟ perché
hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene,
rendi pure questa mia faccia ancor più ridicola ma aiutami a portarla in giro con
disinvoltura. C‟è tanta gente che si diverte a far piangere l‟umanità. Noi
dobbiamo soffrire per divertirla. Manda, se puoi, qualcuno su questo mondo
capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri».
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1. La sopravvivenza
Per la rappresentazione della sopravvivenza, la nostra analisi verterà su due
pellicole cinematografiche, Miseria e nobiltà e Siamo uomini e caporali.
1.1 Miseria e nobiltà
Miseria e nobiltà è una commedia a colori del 1954 diretta dal regista Mario
Mattòli, tratta da una sceneggiatura sua e di Ruggero Maccari, fondatore, tra gli
altri, della commedia all‟italiana. Tratta da una farsa di Eduardo Scarpetta del 1887,
insieme alle pellicole Un turco napoletano del 1953 e Il medico dei pazzi del 1954,
sempre girate da Mario Mattòli, appartiene a una trilogia di opere teatrali di
Scarpetta, tutte aventi come protagonista Felice Sciosciammocca, seppure in
versioni differenti. Mentre infatti ne Un turco napoletano riveste il ruolo di un
evaso dal carcere che, sotto mentite spoglie riabilita la sua condizione vivendo in un
contesto borghese, e ne Il medico dei pazzi riveste quello di un sindaco, in Miseria e
nobiltà siamo di fronte a un personaggio economicamente e socialmente di umile
condizione. Si tratta di un elemento fondamentale per condurre la nostra analisi,
poiché in esso si riflette la prima parte dell‟esistenza di Totò, che, non essendo
riconosciuto dal padre per molti anni, visse in condizioni disagiate, determinate
anche dal suo desiderio di diventare attore, che gli fecero compiere un percorso
difficile e pieno di stenti:
Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si
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conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l‟amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe
squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei
pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico
senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita.
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In Miseria e nobiltà, Totò interpreta dunque la parte di Felice Sciosciammocca,
scrivano, che coabita, con la sua famiglia, composta dalla sua convivente Luisella e
dal figlio di primo letto Peppiniello, con il fotografo ambulante Pasquale e la sua
famiglia, composta dalla moglie Concetta e dalla figlia Pupella. La loro vita, che si
svolge in povertà, può almeno temporaneamente subire una svolta, quando, un
giorno, il marchese Eugenio gli si presenta per chiedergli un favore. Egli,
innamorato di Gemma (interpretata da Sophia Loren), figlia di Don Gaetano, cuoco
arricchito, non ha possibilità di poterla sposare, se non facendo conoscere tra loro i
rispettivi genitori, ma, dal momento che i suoi non accettano la ragazza in quanto
non nobile, e invece Don Gaetano è molto ansioso di fare la loro conoscenza,
poiché è desideroso di potersi imparentare con una famiglia nobile, si rivolge a
Felice e Pasquale, proponendogli di impersonare i suoi familiari. Inizia così il gioco
degli equivoci e degli scambi, che continua fino a che, Luisella, indispettita dalla
situazione e dall‟essere stata esclusa dalla farsa, interviene nella finzione e rivela la
verità a Don Gaetano. Quest‟ultimo, però, perdona l‟impostura e acconsente alle
nozze di sua figlia Gemma con il marchese Eugenio.
La pellicola inizia con l‟immagine di un teatro, il San Carlino di Napoli, il cui
sipario si apre e dove, sulle balconate, notiamo due spettatori in attesa dell‟inizio
dello spettacolo, ovvero del film vero e proprio. Si tratta di un espediente scenico,
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F. FALDINI – G. FOFI, Totò, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p. 111
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atto volontariamente a dare l‟impressione di assistere a una rappresentazione
teatrale. Lo scopo non è quello di fare venire meno il punto di vista
cinematografico, semmai di dare rilievo al teatro, come forma di intrattenimento
tipica per le famiglie dell‟epoca, utilizzando però la macchina da presa. Le scene,
pur avendo degli esterni, non sono state realmente girate all‟esterno. Si tratta
sempre e solo di scenografie teatrali, le medesime e uguali per tutto l‟arco della
proiezione: l‟abitazione di Felice Sciosciammocca, quella della modista piemontese,
la piazza del San Carlino, che è anche dove osserviamo lavorare Felice e Pasquale,
l‟interno del teatro (sia durante le prove che durante l‟esibizione di Gemma) e
l‟abitazione di Don Gaetano. Le scene, inoltre, non sono come nel cinema, l‟una la
prosecuzione diretta dell‟altra, non si fondono in un tutt‟uno. Ognuna è separata e a
se stante rispetto alle altre. Si ha l‟impressione che la cinepresa inizi e finisca di
girare con lo stacco di ogni singola scena. Le ambientazioni non seguono il film e
non gli appartengono, costituiscono invece la scansione di ogni proiezione.
È mattina e gli inquilini dell‟appartamento si svegliano e già hanno a che fare
con i crampi della fame e le consuetudinarie problematiche della povertà. Pupilla fa
colazione con una cipolla, che però le viene strappata da suo padre Pasquale,
desideroso, evidentemente di riuscire a saziare anche se stesso. La ragazza sembra
essersi svegliata con la fame, ma come constata Felice, in realtà è già andata a
dormire la sera prima affamata. Come osserviamo dalle prime scene del film, la
vera protagonista della vicenda è dunque la fame, personaggio di fatto invisibile, ma
presente costantemente nelle vite dei singoli personaggi, e che si manifesta non
gravemente come si potrebbe immaginare, ma sempre sotto forma di ironia, e come
si vedrà alla fine, anche con accettazione. È, tra tutti i personaggi, Felice a
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ironizzare più distaccatamente e più cinicamente, perché possiede un innato istinto
pratico, maggiore prontezza di spirito e senso critico rispetto agli altri personaggi. È
l‟incarnazione di Pulcinella, perspicace, scaltro e legato al buon senso popolare.
Mentre Pasquale, infatti dice che «si mangia pane e veleno», Felice ribadisce
ripetutamente che invece «si mangia solo veleno», e, a casa della modista
piemontese, che indelicatamente, gli parla di condimenti da cucina e li fa sostare
davanti a un piatto con pane e marmellata, asserendo che la marmellata è solo per i
bambini, egli afferma che nel caffelatte non mettono niente: «Né latte, né caffé». Le
sue affermazioni sono disarmanti, perché, sebbene dettate dalla semplicità, sono
lapidarie e trovano riscontro in una necessità immediata.
All‟interno di questo quadro, un personaggio sembra essere fuori dal contesto,
pur facendo parte della famiglia di Felice: si tratta di Luisella, la sua compagna e
convivente. La donna non intrattiene buoni rapporti con gli altri abitanti
dell‟appartamento, soprattutto con Concetta, moglie di Pasquale, con cui spesso
litiga. La convivenza non è facile e anche in questo si cerca di sopravvivere. Ma qui
viene rivelato un altro particolare della natura di Felice. Come uomo non dà
garanzie di fedeltà, non trasmette sicurezza, e Luisella è infastidita da molti suoi
comportamenti, soprattutto in presenza di altre donne, come per esempio la modista
piemontese. Sposato e separato da sei anni da Bettina, madre di Peppiniello, e che
poi si scoprirà lavorare a casa di Gemma, Felice è, non a caso, infedele e donnaiolo,
come il suo creatore, Eugenio Scarpetta.
Dopo una giornata di fallimenti lavorativi, in cui Felice ha servito un cliente che
non poteva permettersi di pagarlo e Pasquale non ha scattato neanche una foto, i due
discutono su come impegnare un cappotto, di presunta appartenenza di Napoleone,
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fantasticando su spaghetti, sugo con salsiccia, mozzarelle di Aversa, frittate con
dieci uova e vino di Gragnano. Su ogni cibo, Pasquale puntualizza come deve
esserne la qualità, altrimenti, raccomanda a Felice di non acquistare alcunché,
pronunciando sempre la stessa frase: «Desisti». L‟eco di Felice: «Desisto» appare
come una dissacrazione della serietà di Pasquale.
Arriva il momento della grande opportunità. Il marchese Eugenio, che aveva
avuto modo di conoscere Pasquale facendogli consegnare un biglietto a Gemma, la
sua innamorata, decide di rivolgervisi nuovamente per trovare una soluzione alla
sua situazione sentimentale. Propone a lui, Felice e le due rispettive famiglie di
prendere i panni di alcuni suoi parenti, che dovranno presentarsi a casa di Don
Gaetano per aiutarlo a ufficializzare la sua unione con Gemma. «Sono tanti anni che
non mi faccio una bella pranzata», aveva esclamato Felice poco prima dell‟arrivo
del marchese, e, adesso, quest‟ultimo gli fa consegnare da un suo cameriere in
livrea un ricco pranzo. I commensali, increduli e attoniti nel vedere tutto quel cibo,
inizialmente non osano avvicinarsi e osservano la tavola imbandita, aspettando di
vedere chi ha il coraggio di avvicinarsi a essa per primo. Ma, improvvisamente,
ognuno di loro, seduto su una sedia, un timido balzo dopo l‟altro, finalmente
piomba sulla tavola, afferrando a piene mani il cibo e dimenticandosi di qualsiasi
regola di buona educazione. Vengono interrotti nel frattempo due volte dal
cameriere che aveva effettuato loro la consegna. Alla seconda interruzione, i
commensali, poveri ma pur sempre orgogliosi, non vogliono dare a intendere di
essere così affamati da divorare tutte quelle portate in poco tempo e senza riguardo,
quindi, si bloccano istantaneamente all‟ingresso del cameriere e Felice, che aveva
afferrato gli spaghetti con le mani, ingordamente, come per farne provvista, nel
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timore che qualcuno glieli avesse potuti portare via, se li infila persino in tasca,
quasi si trattasse di un magnifico tesoro, improvvisando una tarantella sul tavolo.
Poi, tutti insieme si giustificano dicendo che non avevano tanta fame, e perciò
preferivano ballare. Con tale scena, che diventerà emblematica di tutta la pellicola,
si conclude il primo tempo del film. L‟esibizione danzante di Felice sul tavolo non
fu ben vista dalla critica, in quanto considerata come di cattivo gusto.
Effettivamente, non rispondeva ai canoni estetici di quei tempi, tuttavia ha impresso
maggiore energia ed espressività alla scena e ha sottolineato ancora una volta
l‟arguzia del personaggio di Felice e la sua capacità di improvvisare. Come dire che
la creatività, la cosiddetta arte di arrangiarsi ha la meglio sulle difficoltà e sulla
sfortuna. Qualità non solo appartenente a lui, ma anche al suo interprete. Totò, in
effetti, secondo il copione, non avrebbe dovuto concludere la scena con una
tarantella. Si trattò di una sua improvvisazione. Comportamento peculiare che,
evidentemente, non fa che mettere ancor più in risalto la sua essenza di maschera.
Ciò quindi che Totò, in quanto Antonio de Curtis, si affanna a negare,
spontaneamente risorge.
Con il secondo tempo del film, il gioco delle apparenze viene svelato. L‟incontro
con Don Gaetano, uomo arricchito, dalla cultura e dall‟intelligenza dubbie, lascia
intravedere in filigrana, come la vera nobiltà non stia nel lignaggio o nei costumi, e
come, contrariamente a quanto pensi Don Gaetano stesso, non possa essere
acquisita. Anche qualora, per via del matrimonio di sua figlia con il marchese
Eugenio, possa legare il suo nome a quello di un nobile, come egli stesso si auspica,
la sua reale condizione non cambierà, perché sarà sempre destinato a peccare di
ignoranza e mancanza di buon gusto. Questi aspetti sono quelli che vengono presi in
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giro e messi in ridicolo durante la farsa di Felice e Pasquale. E più Don Gaetano si
sente onorato della presenza di tale simile famiglia nobile, «tanto lustra e lustrata»,
più diventa egli stesso ancora più sciocco e credulone, facile all‟inganno. Anzi, in
questo, possiamo individuare una sorta di riscatto del proletariato, che si fa beffe sia
della classe nobiliare, sia, e maggiormente, del mondo borghese, caratterizzato da
persone come Don Gaetano, che benché ricco, non sa esprimersi, cade nelle gaffe e
perde la sua dignità nel momento in cui crede di avere a che fare con dei nobili.
Interpretazione nell‟interpretazione. Totò interpreta Felice, che interpreta il
principe di Casador, zio del marchese Eugenio. Molte volte è sul punto di tradirsi,
non per difetto di recitazione, ma perché l‟impulso della fame è così intenso e
messo alla prova, che è molto facile dare retta solo alle tentazioni e lasciare perdere
tutto il resto. Don Gaetano, così immerso nei suoi sogni di nobiltà, accecato
dall‟idea di entrare in parentela con dei nobili, non si rende conto degli strafalcioni
di Felice: «[Seicentomila lire] Ma chi le ha viste mai! Dico: chi le ha viste mai… in
contanti; perché noi adoperiamo gli chèque…» e quando gli offre il gelato, Felice
constata: «Noi siamo abituati a mangiare i gelati!», ma lo spettacolo offerto da lui e
dagli altri presenti mentre lo mangiano è di ben altro significato: esattamente come
quando nel primo tempo si erano ingozzati violentemente di cibo e soprattutto
spaghetti, in questa circostanza si verifica lo stesso, e Felice, imbrattandosi come un
bambino il viso di gelato, affonda il suo cucchiaino nella coppa di Pasquale,
giustificandosi goffamente: «A me piace spiluccare nei gelati degli altri!». L‟apice
dell‟inganno dovuto alla fame viene raggiunto quando Felice riesce a strappare un
accordo biennale di pranzi quotidiani a casa di Don Gaetano.
Dopo sei anni di separazione, ecco che arriva la resa dei conti: Felice rincontra
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sua moglie Bettina, e madre di Peppiniello, suo figlio. Vive presso Don Gaetano per
prestare servizio a Gemma. La donna, riconosciuto il marito, lo accusa di essere uno
svergognato e imbroglione, di averle tenuto lontano loro figlio e lo minaccia con un
coltello. Felice è impaurito non solo per il gesto in sé, ma anche perché, dopo tutta
la fatica fatta per mettere in scena tutta quella farsa, rischierebbe di perdere i due
anni di contratto con Don Gaetano, e quindi le chiede di «Non strillare, non
strillare![...]». La vicenda personale di Felice si conclude con la sua presentazione,
dopo qualche equivoco, del figlio Peppiniello a Bettina e con i chiarimenti
riguardanti la loro separazione.
Teatro nel teatro, possiamo, durante il film, assistere anche, come alcuni
personaggi della vicenda, allo spettacolo di danza di Gemma al San Carlino.
Quando tutto sembra scorrere nella migliore delle maniere, l‟arrivo a casa di Don
Gaetano della finta “Principessa di Casador”, ovvero Luisella, la compagna di
Felice, fa precipitare la situazione. Sentendosi tradita dal suo uomo e esclusa dalla
partecipazione alla farsa, in quanto consapevole di non essere benvoluta e accettata,
finisce col rivelare la verità a Don Gaetano. Nasce una zuffa, in seguito alla quale
Luisella, dopo essere stata aggredita, se ne va, ma Felice, perde un baffo finto. Il
marchese Eugenio decide allora di raccontare la ragione di quella messinscena
ottenendo finalmente il consenso a sposare la donna amata sia da parte di suo padre
che del padre di Gemma.
La vicenda termina con tre benedizioni di Don Gaetano agli amori riconosciuti o
ritrovati: Eugenio-Gemma, suo figlio Luigino-Pupella, Felice-Bettina.
L‟artificio teatrale, cornice all‟inizio del film, lo ridiventa alla conclusione della
pellicola. Felice, commosso e sorridente, con accettazione della sua miseria e
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umiltà, ma al tempo stesso rivelando una nobiltà che, evidentemente, non poteva
che essere che quella d‟animo, si rivolge direttamente al pubblico, cinematografico
e teatrale contemporaneamente: «Torno nella miseria, però non mi lamento. Mi
basta di sapere che il pubblico è contento». Il sipario si chiude. La finzione termina.
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1.2 Siamo uomini o caporali
Siamo uomini o caporali è una commedia in bianco e nero del 1955 diretta da
Camillo Mastrocinque, tratta da una sceneggiatura sua e di Totò, Vittorio Metz,
Mario Mangini, Francesco Nelli.
Il titolo dell‟opera nasce da un‟ispirazione di Totò per esperienze realmente
vissute. All‟età di diciassette anni, venne arruolato nell‟esercito, e la sua
permanenza presso l‟88° Reggimento a Livorno fu tutt‟altro che felice. L‟ambiente
militare non gli si addiceva non solo per ragioni anagrafiche, ma anche perché
possedeva la natura di uno spirito libero e anticonformista. Il soggiorno
nell‟ambiente venne reso ancora più sacrificante nel momento in cui l‟attore fece la
conoscenza di un caporale, il quale, abusando della sua posizione gerarchica,
intimoriva i suoi sottoposti. Totò, sopravvivendo anche intimamente a queste
vessazioni, riuscì a formarsi una sua propria idea sugli uomini e su ciò che li
distingue. Memore di quando scimmiottava il caporale in caserma davanti agli altri
soldati e terminava le sue esibizioni con la frase: «Siamo uomini o caporali?», iniziò
a estendere il significato della sua esperienza di vita militare a ogni ambito e alla
vita in generale, e classificò come “caporali” tutti coloro che «esprimono il male».
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Per avvalorare maggiormente la sua tesi, si servì poi del pensiero espresso da Dante
Alighieri nella Divina Commedia al verso: «Uomini siate e non pecore matte»: «In
base alla mia filosofia, potrebbe essere modificato in: uomini siate e non dei
caporali».
4
Successivamente, il termine caporale venne attribuito dall‟artista
partenopeo non solo alle persone arroganti e di animo cattivo, ma anche agli stupidi.
3
TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, Newton Compton Libri, 1993, p. 21
4
Ibidem
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Come possiamo osservare, il titolo del film non reca il punto interrogativo. Non
si trattò di una scelta casuale, ma di un modo attraverso cui comunicare un concetto
oggettivo, ovvero, come da Totò stesso chiarito anche nella sua seconda biografia
che porta lo stesso titolo del film,
5
al mondo esistono due sole categorie di persone,
e quindi non siamo che uomini o caporali. Non era dunque una domanda, ma una
invettiva.
La struttura del film si basa sul flashback e sulla voce narrante del protagonista
Totò Esposito, interpretato da Totò. Egli, in qualità di attore, viene chiamato a
interpretare il ruolo di una comparsa, ma in seguito a vari incidenti occorsi sul set di
Cinecittà in Roma, suscita l‟antipatia del capo-comparse, già per sua natura
antipatico e dispotico, fino a che, dopo uno scontro fisico, viene arrestato e portato
in un ospedale psichiatrico. Lì, il dottore che lo ascolta lo dichiara non solo sano di
mente, ma anche saggio. In questo tratto del film, i racconti di Totò allo psichiatra
altro non sono se non flashback, che si inseriscono nella storia principale come sub-
storie, introdotte dalla voce narrante del protagonista stesso, il quale man mano
scompare per lasciare posto agli eventi che, a questo punto, si auto-raccontano e
diventano storie nella storia.
Avendo il dottore dimesso Totò per comprovata sanità mentale, quest‟ultimo
all‟uscita dell‟ospedale incontra Sonia, la donna di cui segretamente è innamorato e
che per tutto l‟arco del film ha sempre cercato di proteggere. Ma un finale amaro lo
attende. La sua amata si è sposata ed è pronta a trasferirsi, ferendo i suoi sentimenti
e la sua dignità.
La presentazione del film reca disegni e caricature di Totò utili a sdrammatizzare
5
Cfr. infra, cap. 1, p. 36
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la storia portata sugli schermi e a rassicurare il pubblico che, nonostante la vicenda
tragica, il personaggio che vedranno è sempre lo stesso pagliaccio cui è affezionato.
Anche la ricostruzione di Cinecittà ha un‟impronta volutamente caricaturale.
La pellicola si apre con l‟ingresso di Totò Esposito alle prove di un film in
qualità di comparsa per interpretare una guardia napoleonica. Ma, capitando sul set
sbagliato, dove si stava girando un film sull‟antica Roma, egli provoca la rabbia e il
disappunto del capo-comparse, il primo caporale che appare nel film, che lo
apostrofa come imbecille. Passando al set giusto, Totò, vestito goffamente da
soldato napoleonico, a causa del cappello militare che pesantemente indossa e che
gli cade fin sopra gli occhi, perde di vista ancora una volta il giusto luogo delle
riprese e finisce nuovamente sul set sbagliato. Ciò fa infuriare definitivamente il
capo-comparse, il quale riesce a farlo arrestare. Totò passa da uno stato di candore e
tenerezza iniziale, che possiamo notare da frasi come «[…] Non c‟è bisogno di
arrabbiarsi tanto» e «Uhi, tutti possiamo sbagliare, perbacco!» a uno stato di rabbia,
che al suo primo ingresso sul set sbagliato, si esprime rammentando ai presenti che
egli è un grande attore, mentre alla seconda trova espressione nella frase «Abbasso i
caporali!». Tale esclamazione ricorda evidentemente i trascorsi di Totò/Antonio de
Curtis in caserma a Livorno.
Il protagonista viene preso con la forza e portato in un ospedale psichiatrico,
dove il dottore che lo ascolta, direttamente gli chiede se sia pazzo. Ma lo psichiatra
ha già la risposta perché egli stesso ammette: «Io so benissimo che lei non è matto».
Totò, notando che dimostra comprensione e disponibilità, inizia con coraggio a
spiegargli la sua teoria sui caporali: «Deve sapere che da sempre il “caporale” mi
perseguita».
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Il dottore sembra avere in comune con il suo paziente la presenza di almeno un
caporale nella sua vita: «Anche lei c‟ha il suo caporale». E quindi, sentendosi
incoraggiato e confortato, Totò comincia il suo racconto lontano nel tempo,
chiarendo allo psichiatra un concetto palese e apparentemente banale, ma sui cui
quest‟ultimo non aveva mai riflettuto: «L‟umanità io l‟ho divisa in due categorie di
persone, uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei
caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a
lavorare tutta la vita come bestie […]. I caporali sono appunto quelli che sfruttano,
tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati li troviamo
sempre a galla, sempre al posto di comando […], pronti a vessare il pover‟uomo
qualunque. […] caporali si nasce, non si diventa […] hanno tutti la stessa faccia, le
stesse espressioni, gli stessi modi». Ed ecco che, improvvisamente, in età già
matura, il dottore scopre, con l‟aria di un bambino, l‟esistenza di una verità nuova:
«Perbacco […], non ci avevo mai pensato…». E Totò fa il verso a se stesso: la sua
celebre frase «Signori si nasce, non si diventa» può evidentemente essere trasposta
nel mondo dei caporali. E, inoltre, non a caso, tutti i caporali che si susseguiranno
nell‟arco della storia, realmente hanno sempre il medesimo volto, ovvero quello
dell‟attore Paolo Stoppa, che inizialmente avrebbe dovuto interpretare sempre lo
stesso uomo, il quale durante il corso degli anni, dalla seconda guerra mondiali agli
anni Cinquanta, era riuscito a cavalcare gli eventi, diventando un volgare arricchito.
Tuttavia, l‟opinione pubblica si sarebbe certamente resa conto in questo modo che
la classe dirigente emergente altro non era che la stessa cerchia di persone di tempi
passati, che, disonestamente e con opportunismo, aveva conquistato il potere e che
il “nuovo” non era mai arrivato. Conseguentemente, si decise che uno stesso attore