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Introduzione. Tra esperienza individuale e coscienza collettiva
Chi si interessi di storia, come ricordava in una ben nota riflessione Marc Bloch, ha un unico e reale
oggetto a cui volgere la propria attenzione: l’uomo, anzi, gli uomini. Dietro ad ogni paesaggio, ad
ogni scritto, ad ogni istituzione vi sono sempre e costantemente gli uomini, e nient’altro, se non
essi, lo storico ha il dovere di ricercare e di comprendere per capire – o tentare di farlo – la realtà
che ci circonda e che proprio gli uomini hanno costruito e continuano a costruire
1
.
Così può succedere che, dopo aver frequentato per lungo tempo un luogo o un’istituzione, sorga la
curiosità di sapere quale sia la sua origine, chi, insomma, l’abbia fondata, e per quale ragione.
Questo studio trova le proprie radici in una simile considerazione, in relazione a quella che fu, e
rimane, una delle prime biblioteche pubbliche d’Italia: la biblioteca Queriniana di Brescia, che deve
il proprio nome al vescovo della città per quasi tre decenni (1727-1755), cardinale e prefetto della
biblioteca Vaticana, Angelo Maria Querini, che la inaugurò nel 1750.
La figura di Querini non è certo sconosciuta. Esiste indubbiamente un divario tra gli studiosi e
coloro che non si occupano delle discipline storico-letterarie. Nelle menti dei suoi concittadini, ad
esempio, quello del porporato, un tempo così noto, non rappresenta oggi che un nome, capace sì di
rievocare delle immagini della Brescia settecentesca – come quella del Duomo nuovo, la cui cupola
azzurra domina tuttora la città – ma che rimane pur sempre un nome fra tanti. Alle orecchie degli
specialisti, al contrario, il nome di Querini è facilmente associato ad una o più idee-forza che,
ricollegandolo al contesto ecclesiastico ed erudito dell’inizio-metà del XVIII secolo, lo rendono
personaggio vivo e concreto.
Eppure, per quanto ciò sia vero, la fisionomia di Querini corrisponde – se volessimo utilizzare una
metafora letteraria – più ad una persona, ovvero ad una maschera, piuttosto che ad un personaggio a
tutto tondo. Ogni qual volta ad un ricercatore contemporaneo, anche solo per caso, capiti di
incontrare la figura del prefetto della Vaticana, la strada che gli viene offerta è una ed una sola:
ricorrere allo stereotipo, riprendere i clichés utilizzati dalle generazioni che l’hanno preceduto,
denunciando al contempo la lacuna esistente, la mancanza di uno studio moderno che confermi o
smentisca quel – poco – che la ricerca storiografica ha finora posto in luce.
1
«È da gran tempo, invero, che i nostri “maggiori”, un Michelet, un Fustel de Coulanges, ce l’hanno detto: l’oggetto
della storia è, per natura, l’uomo. O ancora più esattamente: gli uomini. Meglio del singolare, modo grammaticale
dell’astrazione, a una scienza del reale conviene il plurale, che è il modo della diversità. Dietro i tratti concreti del
paesaggio, dietro gli scritti che sembrano più freddi, dietro le istituzioni in apparenza più distaccate da coloro che le
hanno create e le fanno vivere, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai
altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il buono storico, invece, somiglia all’orco della fiaba. Egli
sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda» (M. BLOCH, Apologie pour l’histoire, ou Metier d’historien, Paris,
Armand Colin, 1949, ed. it., Apologia della storia, o Mestiere di storico, trad. di G. Gouthier, Torino, Einaudi, 1998, p.
184).
6
Ad osservare la bibliografia dedicata a Querini una simile affermazione potrebbe lasciare stupiti.
Quantitativamente, infatti, al Querini ecclesiastico ed erudito sono stati dedicati, non soltanto più o
meno brevi articoli, ma anche opere di un certo spessore, che indurrebbero a pensare che quanto
affermato non sia altro che prodotto di fantasia oppure – peggio ancora – di presunzione e ignoranza
riguardo all’oggetto in questione. Ma quantità non sempre significa qualità, e un’attenta lettura di
ciò che è a nostra disposizione conferma una tale asserzione.
La maggioranza, se non la totalità – escludendo rari casi – degli articoli apparsi su periodici locali o,
in modesta misura, nazionali presenta un duplice difetto. Da un lato sostiene le proprie tesi
basandosi fondamentalmente su fonti secondarie, il che comporta, al di là dell’errore di metodo, la
costante reiterazione del già-detto, e perciò un appiattimento della personalità di Querini
sull’immagine datane da altri. Dall’altro tende a rinchiudersi nella certezza del localismo, cioè,
riconoscendo al cardinale un interesse ed una fama realmente europei, preferisce dirigere i propri
passi sul più sicuro terreno della storia ecclesiastica e culturale bresciano-veneta, o, al massimo, e in
rarissime occasioni, italiana.
Passando alle opere monografiche il discorso non muta poi di molto. Studiosi quali Alfred
Baudrillart e Roberto Mazzetti hanno reso Querini l’oggetto di due importanti lavori
2
: importanti in
quanto il primo di essi rappresenta la prima reale biografia del porporato in epoca contemporanea;
mentre il secondo, rompendo la monotonia e offrendo una visione differente da quella ormai
tradizionale, è considerabile un non inutile tentativo di oltrepassare lo stereotipo storiografico. Ma
ciascuno di questi due studi presenta dei limiti, intrinseci ed estrinseci, che superano i pregi rilevati.
Baudrillart, dovendo trattare l’intera vita di un protagonista dell’universo ecclesiastico ed
intellettuale del Settecento in poco più di cento pagine, giunge a compiere un’analisi spesso
superficiale e costantemente esteriore, che cita le numerose opere di Querini senza approfondirle e
richiama nomi e rimanda a relazioni che, accennati di sfuggita, nulla dicono al lettore, in particolare
a quello attuale.
Mazzetti, volendo sostenere che il porporato fosse un «portatore sano e inconsapevole» di
giansenismo – ciò che spiegherebbe per quale motivo un Tamburini e uno Zola uscissero proprio
dal contesto bresciano – cade in diversi e per nulla insignificanti errori
3
. Ma, soprattutto, dopo aver
riconosciuto l’importanza di fonti primarie quali il carteggio giovanile del cardinale per lo sviluppo
del proprio lavoro, invece di pubblicarne delle sezioni in appendice o, almeno, fornirne degli estratti
nel testo, preferisce lasciare ad altri tale rilevante compito.
2
A. BAUDRILLART, De Cardinalis Quirini vita et operibus, Lutetie Parisiorum, Firmin Didot, 1889; R. MAZZETTI, Il
Cardinale A. M. Querini, uomini e idee del Settecento e la nascita del giansenismo bresciano con lettere inedite,
Brescia, Vannini, 1933.
3
A suo avviso, ad esempio, Querini avrebbe incontrato ed intrattenuto un legame stretto con Mabillon, morto nel 1707,
mentre l’allora benedettino giunse in Francia solo quattro anni più tardi (IVI, p. 18 e p. 23).
7
D’altra parte questi due scritti, oltre ad essere accomunati da una certa superficialità, hanno a loro
sfavore – ma non per colpa, in questo caso, degli autori – l’elemento dell’età: l’uno, il più recente,
ha più di settant’anni, l’altro compie proprio nel 2009 il suo centoventesimo compleanno. Questo
dato cronologico non assumerebbe particolare rilievo se tali opere fossero state capaci di stimolare
un dibattito, e non costituissero perciò un unicum. Lo studioso contemporaneo che voglia
approfondire la conoscenza dell’intera vita di Querini, infatti, è costretto ancora a fare riferimento a
Baudrillart. Il che comporta, al di là del dover affrontare una non facile lettura – a causa della lingua
utilizzata e dello stile non proprio agevole – una comprensione, al termine, approssimativa quanto il
testo stesso.
Tuttavia esistono opere più recenti, edite in occasione di importanti ricorrenze queriniane, quali i
due secoli dalla morte o i duecentocinquant’anni dalla nascita. In entrambi i casi, difatti, sono state
pubblicate delle collettanee di saggi
4
, il cui interesse è innegabile, ma che possiedono un comune
rilevante difetto: la poca organicità. La dispersione degli argomenti trattati – dalla società bresciana
dell’epoca di Querini alle piccole, ma significative, dispute letterarie in cui il porporato fu coinvolto
– segna fortemente queste raccolte che, pur aiutando ad inquadrare il contesto – che rimane in ogni
modo pressoché sempre locale – lasciano scoperti alcuni tasselli, senza i quali il mosaico risulta non
solo incompleto, ma decisamente alterato nel suo insieme.
La questione fondamentale riguarda dunque l’uso inesistente o molto scarso delle fonti primarie,
che, benché molteplici e di non difficile reperimento, si trovano di fronte a un duplice fondamentale
limite. Da un lato – in un discorso che andrebbe esteso, probabilmente, all’intera storiografia sei-
settecentesca – la scarsa pazienza dei ricercatori, poco propensi a piegarsi sulle carte, abbandonate a
se stesse, mute, nei fondi degli archivi e delle biblioteche. Dall’altro – ciò che concerne
direttamente l’oggetto di questo studio – il rispetto verso l’individuo Querini e la sua imponente
opera, che porta ad agire con la massima cautela anche coloro i quali sarebbero disposti a dedicarsi
a questo ambito della ricerca.
E fu una considerazione simile sulle fonti primarie a condurre, una quindicina di anni fa, alla nascita
del cosiddetto Querini project, coordinato dal professor Bortolo Martinelli, dell’Università
Cattolica di Brescia, il cui intento era, innanzitutto, di fornire le basi di una successiva sintesi
critica. Tuttavia la prospettiva, con il tempo, è andata ridimensionandosi, o almeno così è stato in
relazione alle aspettative del pubblico, pur ristretto, degli studiosi. Perché, in realtà, lo scandaglio
dell’enorme carteggio dei corrispondenti del porporato – all’incirca diecimila lettere conservate tra
4
Miscellanea Queriniana: a ricordo del II centenario della morte del Cardinale Angelo Maria Querini, Brescia,
Geroldi, 1961; Cultura, Religione e Politica nell'età di Angelo Maria Querini. Atti del convegno di studi promosso dal
Comune di Brescia in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, Venezia, Brescia, 2-5 dicembre 1980,
a cura di G. Benzoni e M. Pegrari, Brescia, Morcelliana, 1982.
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Brescia, Parigi e Venezia – e delle biblioteche, alla ricerca di testimonianze, attuato dal dottor Ennio
Ferraglio, ora direttore della Queriniana, ha portato certamente a due notevoli risultati.
Tutto il lavoro ha prodotto, da una parte il regesto del carteggio, dall’altro il catalogo delle edizioni
degli scritti di Querini nel corso del Settecento – oltre quattrocento, tenendo conto delle numerose
Lettere pastorali. Cosicché le nude cifre, mettendo in luce le difficoltà di partenza per un qualsiasi
tipo di sintesi che prescinda da questi importanti strumenti, forniscono ulteriori chiarimenti sulla
mancanza di una, non tanto ampia, quanto precisa pubblicistica sull’argomento. Senza il supporto
del regesto e del catalogo – tuttora inediti, e che solo la disponibilità del loro Autore, che colgo
l’occasione per ringraziare, ci ha permesso di esaminare – questo testo, infatti, difficilmente avrebbe
potuto essere elaborato.
D’altronde, è proprio su queste stesse basi ideali – sulla consapevolezza della lacuna e sulla
necessità di colmarla – che, negli ultimi dieci anni, i medesimi iniziatori del Querini project si sono
resi promotori di tre differenti convegni – l’ultimo dei quali nell’aprile del 2008 – dedicati ad
altrettanti temi toccanti la figura del cardinale
5
. Il principale obiettivo di questi incontri è stato
quello di calare Querini in un quadro storico ben preciso – quello sociale ed intellettuale bresciano,
oppure quello culturale a cavallo tra mondo greco e mondo latino, o ambiente italiano e ambiente
tedesco – cercando, attraverso un attento uso delle fonti, di giungere a comprendere la relazione tra i
due soggetti, e dunque ad approfondire la conoscenza sia dell’individuo Querini sia del contesto
comunitario di cui egli fu, via via, partecipe.
Ecco l’affermazione di Marc Bloch trovare, anche in un tale ambito, la propria applicazione: se,
infatti, dietro ad un’istituzione – la Queriniana – si è cercato l’uomo, assieme e oltre il singolo –
Querini – si è arrivati alla pluralità: gli uomini. Proprio facendo tesoro di un tale insegnamento, e
proseguendo sul cammino che abbiamo in altro luogo intrapreso
6
, questo lavoro tenterà perciò di
adottare una duplice prospettiva, che rifugga, al contempo, sia dal puro modello della biografia,
esclusivamente incentrato sull’oggetto di studio e annullante, in toto o in parte, l’aspetto collettivo;
sia l’ottica della sintesi, tendente ad appiattire l’individuo sullo sfondo dell’appartenenza
comunitaria. In tal modo cercheremo di privilegiare le sfumature laddove la scelta di uno dei due
precedenti percorsi metodologici richiederebbe un’opzione netta tra il chiaro e lo scuro.
5
Gli atti dei primi due convegni sono stati pubblicati sotto il titolo di: Dalla libreria del vescovo alla Biblioteca della
città. 250 anni di tradizione della cultura a Brescia. Atti del convegno per il 250° anniversario della Biblioteca
Queriniana (Brescia, 1 dicembre 2000), a cura di E. Ferraglio e D. Montanari, Brescia, Grafo (Annali queriniani,
Monografie, 1), 2001; Angelo Maria Querini a Corfù. Mondo greco e latino al tramonto dell’Antico Regime. Atti del
convegno (Brescia, 11 marzo 2005), a cura di E. Ferraglio e D. Montanari, Brescia, Grafo (Annali queriniani,
Monografie, 4), 2006. Del terzo convegno, tenutosi a Brescia, Biblioteca Queriniana, l’11 aprile 2008, e intitolato
Angelo Maria Querini e il mondo tedesco, si attenda a breve la pubblicazione degli atti.
6
Cfr. D. BUSI, I primi passi di un erudito. Angelo Maria Querini, Firenze e l’Oratio de Mosaicae historiae praestantia,
Roccafranca, La Compagnia della Stampa Massetti Rodella Editori (Annali queriniani, Monografie, 7), 2008.
9
L’esperienza individuale del giovane Querini si presterà così ad essere il filo conduttore di questo
studio, senza che ciò impedisca di trascenderne la particolarità fino a giungere a sfiorare
quell’aspetto che potremmo definire della «coscienza collettiva». Ad invitarci a mettere in costante
relazione questi due ambiti, d’altra parte, sono anche i termini cronologici scelti per la nostra analisi
– 1680, anno di nascita di Querini, e 1714, anno del ritorno in Italia in seguito al viaggio in Europa
– che corrispondono esattamente a quelli indicati da Paul Hazard nel 1935 – ma la storiografia
attuale non accetta più una periodizzazione così precisa – ad includere il periodo che avrebbe
segnato la «crisi della coscienza europea».
Querini si situa, da questo punto di vista, in una posizione realmente privilegiata. Sul piano sociale,
inteso sia in senso verticale, sia a livello orizzontale, infatti, egli, fin dalla più giovane età, si trovò
costantemente a contatto con una pluralità di contesti. Verticalmente, difatti, rampollo di
un’importante famiglia patrizia veneziana, studiando presso i gesuiti, ma scegliendo di entrare
nell’ordine benedettino, egli decise di intraprendere quella via religiosa che gli sarebbe stata
rimproverata dai familiari fino alla maturità, e che gli permise di divenire non un semplice monaco,
ma un monaco – e, dopo il 1714, un vescovo e un cardinale – erudito. Orizzontalmente, da
veneziano conobbe sin da bambino la Terraferma, frequentando per nove anni il collegio della
Compagnia di Brescia; la scelta religiosa lo condusse poi a Firenze, dove rimase dal termine del
1696 fino all’ottobre 1710; mentre, in seguito, l’interesse erudito, in particolare, lo spinse a quel
grande viaggio in Europa che, durato più di tre anni, l’avrebbe portato prima a percorrere i territori
tedeschi, le Province Unite, l’Inghilterra e i Paesi Bassi meridionali (ottobre 1710-aprile 1711), ed
infine la Francia e Parigi, i suoi due veri grandi obiettivi (aprile 1711-aprile 1714).
Ciò che è importante sottolineare, è che quella compiuta da Querini, sia verso la religione, sia verso
l’erudizione, fu una scelta personale, che congiunse questi due termini in una relazione alla pari,
nella quale l’una fu posta a sostegno dell’altra. Ed è proprio a questo legame che la nostra
attenzione dovrà essere e sarà continuamente volta, perché è in questo rapporto che – almeno a
nostro avviso – si riassume, non semplicemente il significato stesso della vita di Querini, ma il
senso di un’epoca, tanto da coinvolgere un’intera società fino a mutarne, in modo più o meno
profondo, il carattere, la «coscienza», la direzione a cui tendere. Cosicché, lo ripetiamo,
l’esperienza privilegiata dell’individuo Querini, attraversando differenti contesti e valicando diversi
confini e barriere, ci permetterà, pur costituendone il cardine, di affrontare un discorso più ampio.
Centrali, all’interno di questo cammino, saranno i modi concreti di attuazione e i concetti di
erudizione e di religione, rapportati sì a un ambito collettivo oltrepassante la particolarità del
singolo, ma pur sempre osservati secondo una prospettiva specifica: quella della Repubblica delle
lettere. Comunità estesa all’intera Europa, ma al contempo gerarchizzata e ristretta, la Repubblica
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delle lettere fu, per i secoli mediani dell’età moderna, il vero campo di prova dell’unità europea,
perduta a livello politico e religioso, e perciò resa obiettivo ideale da raggiungere, in particolare sul
piano intellettuale. E fu proprio nella pratica quotidiana dell’appartenenza ad una tale società, ad
uno spazio al contempo incluso ed escludentesi dal resto della società europea, che coloro che se ne
consideravano e venivano riconosciuti come i cittadini, si trovarono a realizzare la convivenza –
fondamento dell’unità – tra la – o le – diversità, culturale, religiosa o sociale che fosse.
Principio cardine dell’agire divenne la tolleranza, che alle impostazioni teoriche vide precedere la
concretezza del rapporto con l’Altro, così che il dialogo, lo scambio, l’intermediazione assunsero il
ruolo di strumenti fondamentali per la preservazione e la costante costruzione della Repubblica
delle lettere, ovvero dell’unità ideale applicata alla realtà effettiva. Ciò che è necessario rilevare,
infatti, è che questo modello, pur basandosi sulla consapevolezza della frattura, non si rivolgeva alla
sua mera ricomposizione, ma, ponendosi quest’ultima come meta conclusiva, presupponeva la
profonda comprensione della differenza, senza la quale ogni tentativo si sarebbe rivelato vano.
La crisi posta in luce da Hazard – cronologicamente più estesa o più ristretta a seconda delle
interpretazioni, ma certo esistente
7
– interessando le basi stesse del pensiero e della civiltà europea,
saggiò la capacità dei cittadini della Repubblica delle lettere di dialogare sia al proprio interno, sia
con la realtà esterna circostante. Ed è in queste condizioni che la relazione tra erudizione e religione
assunse un diverso e più precario significato, ponendo al contempo i due termini a confronto diretto
ed unendoli nella difesa di un mondo che, scosso dalla base, rischiava di crollare sotto i colpi di una
nuova Weltanschauung. Una nuova Weltanschauung, intellettuale, politica e sociale, concepita in
parziale contrapposizione a quella precedente, che sia la religione sia l’erudizione, all’interno di una
complessa dialettica, avevano concorso a costruire e, insieme, avevano minacciato minandone la
stabilità.
L’esperienza di Querini, che, da religioso e da erudito, si collocò in una tale situazione, diverrà così
molto interessante per capire, oltre che qualcosa di più sulla personalità del futuro cardinale, il
clima di un’intera epoca. Accompagnandolo lungo il suo cammino avremo infatti modo di
osservare da vicino una pluralità di contesti, sociali, religiosi ed intellettuali, iniziando (parte I) da
Brescia, in cui trascorse gli anni degli studi al Collegio dei Nobili di S. Antonio Viennese e in cui
sarebbe tornato tre decenni più tardi. Passando in seguito alla Firenze medicea, dominata da
personalità quali Magliabechi, Magalotti e Salvini, cercheremo di inserirla nel panorama culturale
7
Cfr. M. C. JACOB, La crisi della coscienza europea, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età
contemporanea, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, 4 voll., IV, Torino, UTET, 1988, pp. 663-691; e i saggi – l’uno con
un taglio parzialmente biografico, l’altro che pone in relazione Hazard con il concetto di «Illuminismo radicale» come
affrontato da Jonathan I. Israel – di G. RICUPERATI, L’uomo che inventò la crisi della coscienza europea e Crisi della
coscienza europea e illuminismo radicale, in ID, Frontiere e limiti della ragione. Dalla crisi della coscienza europea
all’Illuminismo, a cura di D. Canestri, Torino, UTET, 2006, rispettivamente, pp. 56-126 e pp. 127-167.
11
italiano, teso – in primis con figure quali Bacchini, Muratori e Maffei – a rafforzare la propria
presenza nella comunità dei dotti sviluppando le potenzialità interne attraverso l’osservazione dei
modelli transalpini. Con ciò tenteremo di comprendere in che modo il giovane benedettino venisse
rapportandosi, in particolare attraverso le sue prime opere, con l’ideale della Repubblica delle
lettere.
Con il viaggio in Europa arriveremo tuttavia al vero banco di prova per Querini e per le sue
certezze. I primi sei mesi (parte II), trascorsi tra i territori tedeschi, le Province Unite, l’Inghilterra e
i Paesi Bassi meridionali – quelle che definiremo le «terre di protesta e di genio» – ci consentiranno
di capire quale fosse, nel concreto del rapporto diretto e quotidiano, il reale significato
dell’appartenenza del benedettino alla comunità dei dotti. Soffermandoci, soprattutto, su personalità
quali Jean Le Clerc e Thomas Burnet, e su contesti come quello inglese o quello neerlandese,
giungeremo in tal modo a definire in termini più precisi i punti di forza ed i limiti dell’agire
queriniano.
Punti di forza e limiti che diverranno evidenti al momento del passaggio al lungo soggiorno a Parigi
e in Francia (parte III), dove la scelta convintamente erudita e convintamente religiosa del
benedettino – riconfermata dalla frequentazione di Saint-Germain-des-Prés e del mondo
intellettuale ruotante intorno ai maurini, e dall’interesse dimostrato verso l’intero regno di Luigi
XIV, percorso per gran parte delle sue province – sarebbe stata posta, nelle acque agitate, prima ed
in seguito alla tempesta dell’Unigenitus (settembre 1713), di fronte a un bivio. Come osserveremo,
proprio in quel contesto la religione e l’erudizione si sarebbero infatti ritrovate sempre più divise
dall’azione repressiva – voluta, in particolare, dai gesuiti – attuata nei confronti del giansenismo e
verso i sostenitori dell’arcivescovo di Parigi e cardinale Louis-Antoine de Noailles, ultimo
rappresentante del partito della mediazione – il «terzo partito». A questo punto, per Querini, la crisi,
prima solo sfiorata, sarebbe divenuta una concreta realtà con cui confrontarsi.
Se nella concezione del benedettino erudizione e religione erano indissolubilmente legate, e la
fedeltà a Roma non contrastava affatto con l’ammirazione verso l’ambiente culturale parigino,
tacciato di eterodossia, in che modo, egli avrebbe potuto affrontare la questione? La risposta, dopo
un accurato studio delle fonti a nostra disposizione – quali i Commentarii historici, le memorie
autobiografiche stese da Querini nel 1749, e, soprattutto, la corrispondenza – rivelerà quanto la sua
volontà individuale, volta al dialogo, andasse sempre più disgiungendosi dal senso imposto al
problema dalle autorità politiche e religiose che, sia in Francia, sia, in particolare, in Italia, si
sarebbero dimostrate poco propense alla mediazione.
Questa dicotomia di intenti, tuttavia, coinvolgendo Querini, avrebbe trascinato con sé un’intera
generazione intellettuale, che, giunta al già rammentato bivio, avrebbe scelto, volutamente o
12
costrettavi, la via dell’obbedienza, preferendo in tal modo – almeno apparentemente – la certezza
della religione al dubbio della conoscenza. Una sconfitta personale – quella del monaco erudito
Querini – sarebbe stata perciò accompagnata da una disfatta collettiva.
13
I. Gli anni di studio tra Brescia e Firenze
In uno dei saggi pubblicati negli atti del convegno su Cultura, Religione e Politica nell’età di
Angelo Maria Querini, Giuseppe Alberigo ha sostenuto che, per comprendere la personalità del
cardinale, si dovrebbero seguire tre vie
1
. A suo avviso, infatti, ciò che il porporato tentò di
compiere, caldeggiando, nell’ultimo decennio della sua esistenza, il dialogo con i «confratelli
protestanti», fu in qualche modo il prodotto di tre differenti “incontri” compiuti fin dagli anni
giovanili. In primo luogo la cultura della tolleranza, tipica della società veneziana da cui proveniva,
lo avrebbe spronato ad accettare le differenze; in secondo luogo l’ingresso nell’ordine benedettino a
Firenze lo avrebbe incoraggiato a conoscere al di là delle barriere, in primis, confessionali; in
ultimo il viaggio in Europa lo avrebbe messo a diretto contatto con quella realtà della pluralità che,
secondo l’espressione di Pietro Rossi, era – ed è – una delle «componenti costitutive» dell’identità
europea
2
.
Non possiamo non essere d’accordo. Sembra tuttavia opportuno limare queste considerazioni,
tendendo conto del ruolo giocato, da una parte dalla città d’adozione di Querini, ovvero Brescia;
dall’altra da quella realtà ideale che, in particolare proprio tra il Sei ed il Settecento, prima ed oltre
gli anni di formazione del giovane veneto, fu la Repubblica delle lettere.
Tentando di comprendere cosa significò, per i singoli individui, appartenere ad una comunità come
quella dei dotti, Françoise Waquet ha affermato che: «le concept même de République des Lettres
est inséparable de la permanence d’une conscience de l’universel; il est, dans l’ordre de la
sociabilité savante, la traduction d’une aspiration très vivante à l’unité»
3
. Una tale aspirazione
all’universalità ed all’unità, che coinvolse gli eruditi di tutta Europa, si ritrova anche in Querini; ed
anzi, come avremo modo di vedere, essa costituì il motore della sua ricerca intellettuale. Cosicché,
secondo noi, l’entrata tra le fila benedettine a Firenze ed il viaggio per il continente trovano senso
solo se letti attraverso il particolare filtro rappresentato dalla Repubblica delle lettere, quali facce di
una stessa indivisibile medaglia.
D’altronde, Carlo Godi, analizzando quella controversa vicenda che, alla metà del Settecento,
riguardò la soppressione del patriarcato d’Aquileia, e che interessò Querini nelle vesti di umanista e
diplomatico, ha ricordato che questi «fu figlio della vecchia aristocratica Venezia e lo lasciò ben
intendere»
4
. Disgiungere il cardinale dal contesto socio-culturale della Serenissima significherebbe,
1
G. ALBERIGO, Cattolicità e Ecumenicità nel Settecento, in Cultura, Religione e Politica, pp. 9-10.
2
P. ROSSI, L’identità dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 55.
3
F. WAQUET, Qu’est-ce que la République des Lettres? Essai de sémantique historique, «Bibliothèque de l’Ecole des
Chartes», CXLVII (1989), pp. 494-495.
4
C. GODI, Angelo Maria Querini umanista e diplomatico per Aquileia, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XVIII
(1964), p. 23.
14
in effetti, produrre una lacerazione tanto profonda da impedirci di intenderne, almeno parzialmente,
la personalità.
Eppure, negli anni della formazione, per ciò che abbiamo potuto constatare, il legame tra Querini e
Venezia fu meno intenso di quanto ci si potrebbe aspettare. Probabilmente – non lo si deve
nascondere – questo dipende dalla mancanza di documentazione in proposito. Il che, tra parentesi,
ci rende difficile poter dire qualcosa di certo sui rapporti esistenti tra il giovane e l’ambiente
intellettuale veneto, in cui spiccavano personaggi del calibro di Apostolo Zeno e Scipione Maffei,
che egli, come alcuni indizi lasciano intendere, conosceva.
Tuttavia, a nostro avviso, maggior importanza dovrebbe essere attribuita all’ambito bresciano, in
cui Querini studiò, ed al quale sarebbe tornato, dopo la nomina cardinalizia, e tra non poche
resistenze, tre decenni più tardi, nel 1727, in qualità di vescovo. Con ciò non si vuole, per così dire,
spodestare Venezia in favore di altre città, ma soltanto rilevare come, fin dall’inizio, la personalità
del nostro dovette confrontarsi con contesti differenti. Più che la cultura della tolleranza diffusa
nella società veneziana, a forgiarne i lineamenti fu l’esperienza diretta con la molteplicità.
Esperienza che, molto probabilmente, contribuì a rafforzare in Querini la consapevolezza di essere
un nobile cittadino della Serenissima, come in età matura avrebbe più volte dimostrato mettendosi
al servizio – in alcuni casi, anche contro il parere delle autorità politiche – della Repubblica di S.
Marco.
La prospettiva attraverso la quale ci accosteremo agli anni della sua formazione si fonderà, in tal
modo, sul connubio tra la base ideale, rappresentata dalla Repubblica delle lettere, e la realtà
concreta, ovvero la frequentazione ed il contatto diretto con diversi contesti sociali e culturali. Una
tale ottica si renderà certo più chiara quando affronteremo il periodo fiorentino e la peregrinatio
compiuta da Querini. Già con gli anni bresciani, tuttavia, questa prospettiva inizierà a farsi strada,
soprattutto se, invece di fermarci alla superficie, saremo in grado di considerare quell’ambiente al di
là delle poche informazioni che, tramite i suoi Commentarii, l’ormai anziano porporato ci ha
lasciato.
15
I.1 Brescia ed il giovane Girolamo Querini
Il futuro benedettino e cardinale nacque a Venezia il 20 marzo del 1680
5
da una delle più antiche
famiglie dell’aristocrazia lagunare. Sebbene la diretta discendenza da Romolo Quirino non fosse
che una leggenda, i Querini potevano in ogni modo vantare quasi un millennio di storia alle spalle,
nonché relazioni consolidate con l’alta società europea. Il loro cognome, infatti, derivava, con molta
probabilità, da un governatore bizantino del ducato veneziano dell’VIII secolo, Maurizio Galbaio o
Galbaiono. D’altra parte, tra i gioielli più preziosi del proprio passato, essi potevano sfoggiare
addirittura un papa, il beato Benedetto XI (1240-1304), tra i servitori del casato, in qualità di
precettore
6
.
Eppure, «sul piano strettamente politico i Querini non potevano certo vantare una tradizione di
assidua e qualificata partecipazione al governo della cosa pubblica […] Fino alla metà del ‘700
nessun membro della famiglia era ancora entrato nel Consiglio dei dieci, né aveva fatto parte della
Serenissima Signoria»
7
. In effetti, la più alta carica alla quale alcuni degli esponenti erano fino ad
allora assurti era quella di Procuratore di S. Marco. Così era accaduto allo zio paterno, Girolamo,
con il cui nome il nostro, divenuto Angelo Maria in seguito all’ingresso nell’ordine benedettino, fu
battezzato a pochi giorni dalla nascita.
Alcuni anni dopo, nel 1684, anche il padre del piccolo Girolamo, Polo Marco Querini, del ramo
Stampalia, sarebbe divenuto procuratore di S. Marco de Ultra. Questo però sarebbe avvenuto dopo
una serie di contrasti con le autorità della Repubblica. Per ben due volte, nel 1681 e nel 1683, egli
aveva infatti rifiutato il Capitanato di Vicenza, venendone, per la prima volta, dispensato, mentre,
nel secondo caso, era stato bandito e condannato al pagamento di una multa, pena che sarebbe stata
condonata due anni più tardi
8
.
Per quanto all’apparenza singolare, questo atteggiamento verso le istituzioni di governo non era
affatto inusuale. Sembra difatti che la scelta dell’astensione da questo tipo di incarichi rientrasse
nella politica della famiglia
9
, e rispecchiasse, al contempo, il comportamento di parte della nobiltà
5
Riportiamo la data indicata dallo stesso cardinale: «Anno 1680. die 20. Martii ortum» (A. M. QUIRINUS, Commentarii
de rebus pertinentibus ad Ang. Mar. S. R. E. Cardinalem Quirinum (d’ora in poi Comm. hist.), Pars prima in duos
libros divisa, I, Brixiae, ex Typographia J.-M. Rizzardi, 1749, p. 1). Altri tuttavia riferiscono il 30 marzo del medesimo
anno (cfr. A. M. AMELLI, Il Cardinale Angelo M. Querini. Nuovo contributo alla sua biografia, «La rassegna
nazionale», XXIII (1911), p. 363; R. ZAGO e D. V. CARINI VENTURINI, Albero genealogico e cursus honorum, in I
Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, a cura di G. Busetto e M. Gambier, Venezia,
Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1987, p. 228).
6
Cfr. A. DA MOSTO, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano, Martello, 1966, p. 9; S. TRAMONTIN,
Angelo Maria Querini patrizio veneto, in Cultura, Religione e Politica, pp. 645-646.
7
R. DEROSAS, I Querini Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinque all’Ottocento, in I Querini Stampalia, p. 43.
8
Cfr. ZAGO e CARINI VENTURINI, Albero genealogico e cursus honorum, p. 226.
9
Cfr. DEROSAS, I Querini Stampalia, p. 44.
16
presente nel resto delle repubbliche italiane
10
. Ad essere privilegiato, in sostanza, era il
mantenimento del patrimonio familiare, che l’accettazione di una qualunque carica non remunerata
o in grado di allontanare dal centro del potere, avrebbe posto in serio pericolo. Come avremo modo
di osservare, questa consuetudine si sarebbe presto frapposta tra il giovane Querini ed i voti
monastici, rendendo difficile l’attuazione di un legame che la famiglia avrebbe fatto di tutto per
evitare.
Per il momento, tuttavia, Girolamo era lontano da queste preoccupazioni. Accudito dalla madre,
Cecilia Giustiniani, di nobilissimi natali, e da un precettore, ricevette una prima educazione
casalinga attraverso uno di quei testi pedagogici che, tra la metà del Seicento e l’inizio del secolo
successivo, continuarono ad essere copiosamente stampati in Laguna
11
. Di questo, però, nei
Commentarii, non vi è traccia; e non è difficile comprenderne il motivo. Se ciò che interessava al
cardinale era infatti mostrare come egli avesse potuto farsi un nome tra i grandi letterati del suo
tempo, parlare della quotidianità dei primi anni di vita non avrebbe avuto senso. O meglio,
l’avrebbe avuto solo nel caso in cui egli fosse stato uno di quei precocissimi pueri docti che, come
nello straordinario caso di Christian Henri Heineken (1721-1725), l’«enfant de Lubeck», erano
poliglotti e conoscevano meglio di molti adulti discipline disparate come la storia, l’astronomia o il
diritto fin dalla tenerissima età
12
.
Cosicché, dopo aver ricordato che «Anno 1680. die 20. Martii ortum duxi Venetiis ex Paulo Quirino
[…] & ex Cecilia Justiniana», la sua – e di conseguenza la nostra – attenzione, non poteva che
spostarsi a quel «An. 1687. primis mensis Octobris diebus Parentes amantissimi traduxerunt me
Brixiam, pariterque Jo. Franciscum frater meum majorem natu»
13
. È a Brescia, infatti, che avvenne
il primo grande incontro di Querini con le litterae; e fu lì, in quei nove anni passati sotto la guida
dei padri gesuiti del seminarium nobilium di S. Antonio Viennese, che Girolamo capì che quella
doppia vocazione, religiosa e intellettuale, a cui si sentiva portato, l’avrebbe accompagnato per il
resto della sua esistenza. O almeno questo è ciò che egli ci dice.
D’altra parte i Commentarii si disinteressano quasi completamente del mondo esterno a S. Antonio.
Ma, come ricorderemo in più occasioni, questo era il modulo narrativo tradizionale di approccio alla
realtà, basato fondamentalmente sul ricordo delle grandi personalità, note all’Europa colta, o di
quelle che avevano avuto una particolare importanza per l’autore. Tuttavia, dal punto di vista
storiografico, non pare inutile soffermarsi sul contesto intellettuale della Brescia sei-settecentesca.
10
Cfr. D. FRIGO, Politica estera e diplomazia: figure, problemi e apparati, in Storia degli antichi stati italiani, a cura di
G. Greco e M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 2004³, pp. 140-144.
11
Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, Juvenilia Queriniana, 1687-1700, «Commentari dell’Ateneo di Brescia», CLXXX
(1981), pp. 116-117.
12
Cfr. F. WAQUET, «Puer doctus», les enfants savants de la République des Lettres, in Le Printemps des génies. Les
enfants prodiges, Paris, Bibliothèque nationale Robert Laffont, 1993, pp. 88-99.
13
Comm. hist., I, p. 1.
17
Quell’ambito che, come s’è affermato più sopra, sarebbe stato dominato per quasi tre decenni, dal
1727 alla morte, giunta nel 1755, da Querini.
Ci si scuserà, perciò, se in più occasioni ci permetteremo di allargare il nostro sguardo anche oltre i
meri limiti cronologici formalmente imposti da questo studio, anticipando momenti e figure che
l’allora cardinale avrebbe incontrato al suo ritorno. Crediamo però che questo sia opportuno per
comprendere come anche una piccola città (35000 abitanti, nel nucleo cittadino, nel 1682),
considerata spesso periferica rispetto ai grandi movimenti intellettuali, fosse invece ad essi
interessata e vi prendesse parte con una quantitativamente modesta, ma qualitativamente intensa
attività.
Un quadro mosso. La cultura a Brescia tra Sei e Settecento
In questo senso, grande rilevanza ebbero, da un lato le accademie e alcune personalità di respiro
nazionale, dall’altro i collegi, le scuole e le altre istituzioni educative rette da differenti esponenti
del clero
14
.
Quel notevole fenomeno di livello europeo che fu, tra il Cinque ed il Seicento, la nascita delle
accademie coinvolse anche Brescia, dando vita ad una fervida attività culturale. Ma lo spazio
accademico, pressoché sempre privato e riservato a pochi intimi, poteva condurre, in un territorio di
confine all’interno dei domini veneti, socialmente ed economicamente dominato da un riottoso ceto
nobiliare locale, a delle rivendicazioni d’autonomia sgradite al governo della Repubblica. Come
accadde in altri stati, perciò, le autorità politiche intervennero allo scopo di dirigerne lo sviluppo a
fini prettamente propagandistici
15
.
Tra il XVI ed il XVII secolo, ad esempio, un’accademia come quella degli Occulti, si era fatta
promotrice – come mostra l’adozione del motto «Intus non Extra», affiancato dall’immagine dei
Sileni di Alcibiade – di un accostamento analitico verso il mondo circostante di stampo
propriamente ermetico ficiano. Questo suo carattere le aveva procurato l’accusa di eterodossia e
numerose azioni giudiziarie, promosse sia dal potere civile che da quello ecclesiastico, dalle quali
era uscita tanto deformata e indebolita, da essere costretta a terminare ogni attività entro pochi anni,
14
Per l’ambiente culturale della Brescia dei secoli XVII-XVIII si vedano L. PICCINELLI, Storia della coltura bresciana,
Istituto Pavoni, Brescia, 1917; L. A. BIGLIONE DI VIARIGI, La cultura nei secoli XVII e XVIII, in Storia di Brescia, a
cura di G. Treccani Degli Alfieri, 4 voll., III: La dominazione veneta. 1576-1797, Brescia, Morcelliana, 1964, pp. 232-
282; Mille anni di letteratura bresciana, a cura di L. A. Biglione di Viarigi e P. Gibellini, 2 voll., I: Dalle origini al
Settecento, Brescia, Associazione amici di Lino Poisa onlus, 2004.
15
Cfr. G. BENZONI, Aspetti della cultura urbana nella società veneta del Cinque-Seicento. Le Accademie, «Archivio
veneto», CVIII (1977), pp. 87-159; E. SELMI, Cultura e produzione letteraria a Brescia nel Settecento, in Brescia nel
Settecento, a cura di I. Gianfranceschi Vettori, Brescia, Maialini, 1985, pp. 123-153.
18
nel 1623
16
. Una tale esperienza aveva avuto importanti risvolti, sfiduciando buona parte dei tentativi
di ampliamento e rinnovamento del sapere in ambito accademico.
In altri termini, queste istituzioni, per sopravvivere, si gettarono nelle braccia di Venezia,
accogliendone le richieste ed esaudendone i desideri. «Nacquero così le corone poetiche in lode alla
Dominante […] e le feste cavalleresche che scandivano i tempi della vita sociale accademica e alle
quali partecipava l’intera città»
17
. La più nota fra queste accademie, ed una delle più longeve, fu
quella degli Erranti che, riformata nel 1619 ad opera dei benedettini Lattanzio e Silvio Stella, decise
in seguito di riservare l’ingresso ai soli nobili i cui quarti fossero riconosciuti dalla Repubblica,
giungendo così ad ottenere il riconoscimento del governo veneto, un sussidio fisso e, quale sede,
una sala del palazzo Comunale (1634). Ciò che le permise di occuparsi di scienze esatte,
stipendiando docenti di matematica e fisica, pur rimanendo le composizioni letterarie l’attività
principale
18
.
Eppure di fronte al contesto colto del corpo sociale si mostrò la necessità di distogliere lo sguardo
da una realtà quotidiana resa difficile dai soprusi compiuti dagli aristocratici; aristocratici spesso
dediti, peraltro, all’ozio e senza alcun interesse reale per le vicende politiche della città
19
. La fuga
ebbe perciò la possibilità di tramutarsi in riflessione, a volte in veri e propri sogni di rinnovamento
della società. Il passo per ricadere sulla nuda terra sarebbe stato compiuto più oltre, quando
personaggi come Durante Duranti (1718-1780), Antonio Brognoli (1725-1807) e Giuseppe Colpani
(1739-1822) avrebbero fatto proprio lo stile critico pariniano, frequentando il circolo dei Verri e
collaborando con il Caffé
20
. Le prime luci del rinnovamento, però, si possono ravvisare in iniziative
precedenti, anch’esse legate alla sfera culturale delle accademie.
Oltre agli Occulti, infatti, altre numerose istituzioni accademiche, di cui poco è pervenuto, si
successero nel corso del tempo
21
. Al di là dei singoli casi, interessante è in ogni modo la sensibilità
di ricezione che i grandi sommovimenti del pensiero ebbero anche nella provinciale Brescia. Legati
a piccoli gruppi di iniziati, ebbero la possibilità di diffondersi in vari strati dell’organismo sociale,
fino a modificarne, lentamente, la forma mentis. Essi non poterono tuttavia sfuggire tanto
16
Cfr. M. MAYLENDER, Storia delle Accademie d’Italia, 5 voll., IV, Bologna, Cappelli, 1929, pp. 87-91; SELMI,
Cultura e produzione letteraria, pp. 144-145.
17
IVI, p. 133.
18
Cfr. E. COMINELLI, Le Accademie bresciane dal secolo XV al secolo XVIII, «Civiltà bresciana», IV (1995), n. 4, pp.
33-45.
19
Cfr. G. BENZONI, A proposito di cultura nobiliare (e non dirigenziale), in La società bresciana e l’opera di Giacomo
Ceruti. Atti del convegno, Brescia, 25-26 settembre 1987, a cura di M. Pegrari, Brescia, Squassina, 1988, pp. 210-212.
20
Cfr. N. BONFADINI, G. Colpani e i Pariniani, «Commentari dell’Ateneo di Brescia», CXXXVII (1938), pp. 137-156;
R. MARTINONI, Brescia e Milano ai tempi del Parini: accademie, cultura e storia letteraria, «Commentari dell’Ateneo
di Brescia», CXCVII (1998), pp. 107-119.
21
Tra le altre l’Accademia degli Eccitati, di carattere scientifico, fondata dal medico Feliciano Betera, l’Accademia dei
Rapiti, l’Accademia dei Sollevati (1648) ed, intorno al 1650, l’Accademia dei Dispersi.
19
facilmente, proprio come per gli Occulti, all’occhio attento degli esperti in materia, quali gli
Inquisitori, che ne combatterono, per quanto possibile, la diffusione.
A volte, al contrario, i rinnovamenti iniziarono proprio dal clero. Padre Benedetto Castelli
(1577/1578-1643), amico e allievo di Galileo, ne è testimone autorevole. Prima abate del monastero
di Foligno, poi professore di matematica a Pisa, Firenze ed al collegio della Sapienza a Roma (per
richiesta di Urbano VIII), ebbe allievi illustri, il più noto dei quali è Evangelista Torricelli. Lo
sperimentalismo di cui si fece rappresentante si impose tra il termine del XVII e l’inizio del secolo
successivo fra lo stesso clero di Brescia, un clero, per la maggior parte, galileiano
22
.
Non mancarono le resistenze, ma non tutte furono sterili. Nel 1686 il gesuita Francesco Terzi Lana
(1631-1687), considerato uno dei precursori dell’aeronautica, istituì l’Accademia dei Filesotici. Pur
ispirandosi alla romana Accademia dei Lincei ed alla Royal Society, questa nuova istituzione volle
tuttavia discostarsi, almeno formalmente, dalle pratiche galileiane condannate dall’Inquisizione. La
sua breve attività, terminata con la scomparsa del fondatore, fu tanto intensa da essere elogiata
anche all’estero quale modello di associazione scientifica
23
.
Fra i due secoli, in sostanza, l’ambiente accademico – ma quello compiuto non può essere che un
accenno – fu più aperto e dinamico di quanto si è soliti credere. Ed anche i fallimenti lasciarono il
segno, tanto da incentivare la diffusione della cultura scientifica del Settecento. Studiosi di fama
internazionale e nuove esperienze associative parteciparono a questo movimento.
Basti pensare, da un lato al frate minore Fortunato da Brescia (1701-1754), tra l’altro collaboratore
di Querini, e all’olivetano Ramiro Rampinelli (1697-1759), professore di fisica e matematica a
Padova e maestro di Maria Gaetana Agnesi, due dei primi trattatisti ad occuparsi di quel calcolo
infinitesimale che proprio l’Agnesi avrebbe fatto conoscere in Italia
24
. Dall’altro alla rinnovata
Accademia degli Erranti, che riserverà una cattedra proprio a Fortunato da Brescia, oppure
all’Accademia di fisica sperimentale e di storia naturale, eretta nel 1760 in relazione alle direttive
del governo veneto volte ad apportare migliorie nell’ambito agricolo
25
.
Per ciò che concerne le discipline non-esatte, non poca influenza ebbero due istituzioni fondate dal
vescovo – cardinale dal 1722 – Gianfrancesco Barbarigo (1714-1723), nipote del più noto Gregorio,
debitrici, a propria volta, di alcune precedenti esperienze. La prima, l’Accademia del Collegio
22
Cfr. G. ZANI, Società e cultura nella Brescia del Settecento, in Brescia nel Settecento, pp. 154-162.
23
Cfr. BIGLIONE DI VIARIGI, La cultura, p. 216; C. PIGHETTI, Francesco Terzi Lana e la scienza barocca,
«Commentari dell’Ateneo di Brescia», CLXXXIV (1985), pp. 97-117; L’opera scientifica di Francesco Lana Terzi S. I.
(1631-1687). Immagini del ‘600 bresciano. Atti della Giornata di Studio, a cura di C. Pighetti, Brescia, Comune di
Brescia, 1989.
24
Su Fortunato da Brescia si veda A. BROGNOLI, Elogi di Bresciani per dottrina eccellenti del secolo XVIII, Bologna,
Forni, 1972 (ed. anast. dell’originale: Brescia, Vescovi, 1785), pp. 47-62; su Ramiro Rampinelli , IVI, pp. 63-88.
25
Cfr. ZANI, Società e cultura, p. 155 e pp. 158-161. Sull’Accademia si veda, C. PILATI, Instituzione dell’Accademia di
Fisica Sperimentale e Storia Naturale in Brescia l’anno 1760, in Brescia nel Settecento, pp. 211-228 (ed. anast.
dell’originale in C. PILATI, Saggio di storia naturale bresciana, Brescia, G. Bossini, 1769).