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Introduzione
I villaggi operai rappresentano una soluzione economica e sociale ai cambiamenti
generati dalla transizione da una società basata sull’autoconsumo verso la civiltà
industriale. Questo saggio si propone di affrontare un caso specifico di villaggio operaio
italiano, Crespi d’Adda, sintetizzando in un unico lavoro una breve ricostruzione storica
del piccolo centro e la visione di questo stesso villaggio come un “dispositivo
disciplinare”.
Si contano ormai svariati studi di storia economica, di archeologia industriale, di
storia dell’urbanistica, di architettura, di sociologia sul tema dei villaggi operai o su un
villaggio specifico. Questi testi però fanno ormai parte delle biblioteche di Università, di
biblioteche comunali interessate a valorizzare radici storiche di una realtà locale, delle
librerie di pochi appassionati. Hanno lasciato da tempo, e forse inspiegabilmente, il
mercato della cultura. Nel volgere degli studi, ci siamo scontrati infatti con una bibliografia
non aggiornata su questo tema. Se si esclude un lavoro più recente, del 1995, su cui
avremo modo di soffermarci nello svolgere di questo studio, le altre opere su villaggi
operai si concentrano negli anni ’70-’80 e rispecchiano un clima di dibattito ideologico
ormai superato. Nonostante ciò, si può chiedere ancora molto ai villaggi operai: ci si può
domandare il perché della loro esistenza, chiedersi come e perché sono stati costruiti così,
quali fossero le ideologie dei protagonisti di questo processo e riflettere grazie a queste
domande – come è abitudine della cultura europea – sui rapporti di potere e sulle forme che
esso può assumere.
Dobbiamo certamente lo sviluppo del concetto di dispositivo disciplinare e la sua
completa trattazione al lavoro di ricerca di Michel Foucault, che affronta la questione della
forma del potere che si struttura in età moderna e che fonda tuttora i meccanismi di
governo. Questo studioso, che sfugge ad ogni etichetta intellettuale, compie ricerche che si
avvalgono del contributo della filosofia, della storia del diritto e delle istituzioni, del sapere
medico, della sociologia, dell’antropologia; hanno però tutte l’obiettivo comune di
sviscerare i dispositivi del potere, il loro funzionamento e il loro contributo al
disciplinamento della società, riferendosi specialmente al periodo dei governi sette-
ottocenteschi, impegnati ad elaborare gradualmente una nuova gestione, più economica,
delle loro funzioni e prerogative. Questo studioso ricorre ad una particolare analisi della
storia delle istituzioni pubbliche, che ne tralascia i dettagli tecnici e organizzativi, per
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concentrarsi ad evidenziare i meccanismi di potere, sempre collegati a delle nuove e
specifiche forme di sapere (le istituzioni su cui Foucault si sofferma più a lungo sono gli
ospedali, le scuole, gli eserciti, i manicomi e le fabbriche appunto; lo sviluppo di scienze
come la medicina, la psichiatria, l’economia, la pedagogia ha valore particolare in
Foucault). Tutto ciò giunge inevitabilmente a fondare nuove forme di potere e di
coercizione sull’individuo. Ci serviremo dei paradigmi elaborati da questo autore per dare
una chiave di lettura particolare al fenomeno delle company towns. Tentiamo quindi di
riassumere in un unico lavoro le conoscenze riguardo al “dispositivo totale” del villaggio
operaio (totale perché racchiude in sé disciplina dello spazio e del tempo libero, disciplina
del lavoro e di fabbrica, organizzazione della cultura e influenza del potere ecclesiastico):
anche se spesso questi approcci sono sottointesi dai vari autori che hanno trattato di
villaggi operai, si può dire che non sia stato mai prodotto un lavoro di sintesi specifico in
questa direzione.
Nel primo capitolo ci soffermeremo sulla descrizione del fenomeno dei villaggi
operai, dando una panoramica sui motivi che spinsero industriali e lavoratori a convogliare
su questa soluzione per risolvere i problemi della crescente industrializzazione del mondo
occidentale. Vedremo infatti che il fenomeno dei villaggi operai è un elemento che
accomuna le realtà più progredite della civiltà europea e statunitense: attraverso uno
sguardo sulle caratteristiche di alcuni di questi villaggi, vogliamo sottolineare quanto
Crespi d’Adda non sia un caso isolato nel panorama internazionale; altrove va quindi
cercata la sua originalità. Dobbiamo infatti la straordinarietà di Crespi, e lo sottolineeremo
al momento debito, alla totale assenza di modifiche all’assetto urbano e ai significati
espliciti che esso evoca; tale infatti è il motivo che spinse l’UNESCO a dichiarare questa
piccola frazione “Patrimonio mondiale dell’umanità”, dato che rispecchia la mentalità
predominante di industriali illuminati sul rapporto con i loro operai e ancora oggi la sua
integrità è evidente ed è stata conservata.
Nel secondo capitolo tracceremo la storia del paese, soffermandoci sugli elementi che
saranno oggetto di trattazione successiva; particolare rilievo avrà la ricostruzione delle
espansioni del villaggio e la descrizione delle tappe che portano a maturazione il suo
aspetto.
Nel terzo capitolo, grazie alla descrizione di alcune istituzioni e l’analisi di alcuni
documenti originali, tenteremo di sottolineare come si possa parlare di dispositivi
disciplinari in un villaggio operaio. Oggetti privilegiati di studio saranno il cotonificio di
Crespi d’Adda, la Chiesa e il cimitero di Crespi, e poi la sfera educativa, con la scuola e la
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biblioteca popolare. E’ stato tralasciato lo studio dell’istituto del Dopolavoro; nato nel
1928, è risultato al di fuori dei limiti cronologici che ci siamo imposti e che comunque
deve essere collegato, nella sua attività, allo sviluppo della dittatura fascista. Parleremo
quindi della conformazione urbanistica del paese e trarremo alcune conclusioni
preliminari; in particolar modo prenderemo posizione fra due diversi tipi di approccio,
quelli favorevoli ad una visione sociologica dei villaggi operai e delle loro istituzioni e i
contrari a questa concezione, schierandoci a fianco dei primi. Sottolineiamo fin da ora che
la presenza di due approcci distinti non ci impedisce di trarre informazioni valide e provate
da autori appartenenti ai due schieramenti differenti.
Constatato che il mondo dell’editoria ha abbandonato, si spera temporaneamente,
questi ambiti di ricerca e gli ultimi consistenti e qualificati lavori su Crespi d’Adda sono
stati scritti non più tardi del 1995, abbiamo ritenuto opportuno dedicarci anche all’analisi e
al confronto con altre tesi di laurea che se ne sono occupate in anni più recenti. La
bibliografia finale rende conto di questo contributo; il caso di Crespi d’Adda ha suscitato
attenzione prevalentemente in studenti di sociologia e di architettura, mentre i contributi di
studiosi di discipline storiche si fanno ancora attendere.
Non è stato tralasciato un confronto diretto con le fonti: esisteva in effetti un archivio
familiare dei Crespi, nella loro residenza di Milano, ma è andato distrutto nel 1943 durante
la seconda guerra mondiale. Le ricerche sul villaggio operaio di Crespi d’Adda si fanno
quindi più intriganti e difficili: per le poche fonti rimaste sul villaggio operaio ci siamo
rivolti all’Archivio Storico di Crespi d’Adda-Legler (ASCAL), consultabile dal 1987. Il
seguente saggio può quindi avvalersi di una documentazione che nessuno degli autori dei
testi consultati, eccetto quelli delle tesi di laurea menzionate e quello del 1995, ha potuto
consultare. Ringraziamo per la loro infinita disponibilità l’assessore alla cultura di Capriate
San Gervasio, Ivaldo Leonardi, e in particolar modo il gestore dell’archivio ASCAL,
l’ingegner Giovanni Rinaldi, che ha contribuito con il prezioso, diligente e competente
aiuto in archivio alla buona riuscita di questo lavoro.
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1 IL VILLAGGIO OPERAIO
1.1 La genesi dei villaggi operai
Il Settecento è il secolo del decollo della società industriale: questa porta con sé luci
ed ombre di un mondo che dimentica, almeno in alcune sue regioni, il problema della
sopravvivenza, ma che vede nascere nuovi ostacoli sulla via del benessere. Il modello di
fabbrica permette certamente un aumento straordinario della produttività e una riduzione
dei prezzi di alcuni beni indispensabili, ma è anche portatore di un nuovo modello di vita e
di società, di una nuova organizzazione produttiva ed è responsabile del cambiamento dei
tradizionali equilibri fra risorse naturali, risorse umane e sviluppo. Il modo di vivere
subisce pesanti trasformazioni; il ritmo dell’orologio, il suono della sirena di inizio e fine
turno, il salario a giornata fanno lentamente tramontare il mondo contadino, abituato al
tempo scandito dal sole, dalle stagioni, dalle campane della chiesa, all’autoconsumo. Nelle
campagne molte famiglie si dedicavano già all’attività di tessitura, ma la si svolgeva come
attività integrativa e prima di vedere degli operai impiegati a tempo pieno, e non
occasionali o stagionali, dovremo aspettare la seconda metà dell’800. Tuttavia non è
possibile tralasciare le conseguenze dell’avvento dei regolamenti di fabbrica, i risvolti
sociali che essa ha provocato, secondo alcuni paragonabili ad una nuova forma di
schiavismo e di carcerazione, peraltro in ambienti insalubri, pericolosi e rumorosi.
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La
nascita delle fabbriche e l’aumento demografico globale portano con sé anche il problema
più generale della distribuzione della popolazione sul territorio: il fenomeno
dell’inurbamento nasce in parallelo al sistema di fabbrica, che modifica la geografia dello
sviluppo in molte nazioni europee, ma anche extracontinentali. In più esiste il problema di
fornire un alloggio ai primi operai, che, come detto, raramente erano assunti per tutta la
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Rimandiamo a Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore,
Milano 1969 (titolo originale: The making of the English working class, 1963). A pag. 201 stila un elenco
delle caratteristiche del capitalismo, che porta “all’ascesa di una classe padronale senza l’autorità e gli
obblighi della tradizione; alla crescente distanza fra datore di lavoro e prestatore d’opera; alla trasparenza
dello sfruttamento ch’era alla base della nuova ricchezza e del nuovo potere padronale, alla perdita di
prestigio e, soprattutto, di autonomia dell’operaio, alla sua riduzione a una dipendenza completa dagli
strumenti di produzione altrui; alla parzialità della legge; allo sgretolamento della tradizionale economia
familiare; alla disciplina, alla monotonia, all’orario e alle condizioni di lavoro asfissianti; alla mancanza di
riposo e di svago; alla degradazione dell’uomo a semplice <<strumento>>.” Foucalt nega che la disciplina,
ivi compresa quella di fabbrica, sia un fenomeno paragonabile allo schiavismo in quanto non basato “su un
rapporto di appropriazione dei corpi”, cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione,
Einaudi, Torino, 1976 (ed. originale; Surveiller et punir. Naissance de la prison, Editions Gallimard, Paris,
1975). La citazione è a pag. 149.
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durata dell’anno ed abitavano in un mondo in cui il sistema di trasporti era ben lungi
dall’essere efficiente. La scienza statistica, che nasce proprio nella seconda metà dell’800
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si occuperà approfonditamente di questi temi, sottolineando il legame che corre fra densità
abitativa, igiene e tasso di mortalità, portando il dibattito sul piano politico e bio-politico.
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L’Italia, che vanta una discreta tradizione nel campo dei manufatti tessili, vede
nascere le prime realtà di fabbrica in questo settore nel XVIII secolo; è soprattutto nel
Nord che si assiste a questo fenomeno, perché qui si trovano quei corsi d’acqua che
possono fornire energia ai macchinari e perché parte del suo territorio è sottoposto alla
sovranità austriaca, che nella seconda metà del Settecento attraverserà una decisa stagione
di riforme illuminate, anche in campo economico. Nel nostro paese si paga però un
indubbio ritardo tecnologico e un’insufficiente accumulazione di capitale iniziale, che si
traduce in una scarsa iniziativa privata. Dopo la parentesi napoleonica, si vive un clima di
ripresa, in Europa come in Italia: nella prima metà dell’800 possono convivere i primi
opifici con il tradizionale putting-out system, basato sulla figura del mercante-
imprenditore. Nel periodo che va dal 1848 al 1859, si vivrà in Italia un periodo di stallo per
lo sviluppo di nuovi insediamenti industriali, dovuto al clima di incertezza generato dal
movimento risorgimentale. Dal 1860 si susseguono i primi atti di liberalizzazione doganale
interna, che mettono già in crisi diverse aziende, mentre nel 1861 il primo censimento
riporta che gli addetti al settore secondario sono il 12,4 % della popolazione: questo dato
include però gli addetti all’artigianato ed in più è stato ricavato da dei rilevamenti eseguiti
durante i mesi invernali, durante i quali molti contadini in realtà si dedicano all’attività
tessile, anche a domicilio.
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Dal 1878 la politica italiana, con i governi della Sinistra storica,
avvia una politica decisamente protezionista; sempre in questo periodo il corso forzoso
della lira (attivo fino al 1883) permette un aumento dei prezzi senza un corrispettivo
aumento dei salari, favorendo la crescita e lo sviluppo delle industrie nazionali. La fine
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E’ altrettanto rilevante che contemporaneamente ai villaggi operai nascano scienze come la pedagogia, la
sociologia, l’antropologia e la medicina moderna: è ciò che constata Alberto Abriani in Il villaggio operaio,
modello residenziale dell’utopia capitalista, in Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda,
Einuadi, Torino, pag. 41.
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Partendo dal presupposto che la città fino al ‘700 è sempre stata vista come un’eccezione nel panorama
europeo, Foucault dice che è su questa entità geografica, percepita come “nuova”, che vengono innestati
nuovi meccanismi di potere sulla base di nuovi metodi di indagine scientifica: “La città come mercato è
anche la città come luogo di rivolta; la città focolaio di malattie è la città come luogo di miasmi e di morte.
[…] la città poneva problemi economici e politici , problemi di tecniche di governo tanto nuovi quanto
specifici.” Citazione da Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France
(1977-1978), Feltrinelli, Milano, 2005 (titolo originale: Securitè, territoire, population. Cours au Collège de
France 1977-1978).
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Dato tratto da Luca Pastorio, Il territorio della cotoniera: industrializzazione e urbanizzazione della
campagna lombarda, in AA.VV., Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda, op. cit., pag. 71.
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dell’800 vede la comparsa del problema dell’abitazione; lo Stato italiano tenta di arginare
il problema tramite interventi legislativi, tentando di indirizzare il risparmio delle famiglie
verso l’acquisto di immobili, ma con scarsi risultati; anzi, semmai si ottiene l’effetto di
rallentare la competitività e la crescita qualitativa del settore edilizio. In risposta a questo
stesso problema, l’architettura e l’ingegneria civile rinunciano a costruire delle abitazioni
che rendano evidente lo status sociale di chi le abita, facendo perdere alla casa i suoi
connotati più spiccatamente classisti.
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Nel frattempo il panorama internazionale offre sul tema dell’abitazione importanti
novità: all’Esposizione Universale del 1851 a Londra vengono mostrati per la prima volta
dei modelli di casa operaia, che da quel momento diventa uno dei topoi dell’architettura e
di tutte le esposizioni di settore. Fondamentale in questo campo è il Congresso
sull’abitazione a buon mercato
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tenutosi a Parigi del 1889, in occasione dell’Esposizione
Universale, che muove dal presupposto che la prosperità di una fabbrica si colleghi
necessariamente alla prosperità degli operai che vi lavorano. Durante questo Congresso
vengono indicate le quattro caratteristiche fondamentali di un’abitazione operaia: primo, la
casa deve essere situata nelle vicinanze del posto di lavoro oppure il luogo dell’abitazione
deve essere fornito di un buon servizio di trasporto pubblico, che la colleghi facilmente
allo stabilimento. Secondo, il canone d’affitto deve essere commisurato al salario percepito
dall’operaio. Terzo, gli alloggi operai nel loro complesso devono garantire un ambiente
salubre e questo implica a sua volta il concorso di diversi fattori; una scarsa densità
abitativa generale, che, secondo i dettami della nascente statistica medica, garantiva
condizioni più salutari; il minor contatto possibile fra abitanti; la necessaria presenza di un
orto-giardino abbinato alla casa, che permette all’operaio di integrare la dieta alimentare
con i frutti dell’orto e di trarre beneficio dal meno ripetitivo lavoro alla luce del sole e
all’aria aperta (combattendo il rachitismo e le malattie respiratorie). Infine l’ultima
caratteristica individuata nel Congresso parigino era la garanzia della separazione fra i
sessi, soprattutto all’interno dell’abitazione. Le camere dei figli e delle figlie dovevano
essere distinte: ciò avrebbe favorito la crescita morale della comunità. Non bisogna poi
sottovalutare il fatto che il clima ideologico dell’epoca affidava all’esercizio della proprietà
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E’ quello che si evince dal saggio di Carlo Olmo, Il primo Novecento, in AA.VV., I villaggi operai in Italia.
La Val Padana e Crespi d’Adda, op. cit., pag. 23. Il saggio di Olmo è fortemente incentrato sul tema
dell’abitazione operaia nei primi del ‘900.
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In relazione alle abitazioni operaie nel Congresso di Parigi confronta Roberto Gambetti, Seconda metà
dell’Ottocento, in AA.VV., I villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d’Adda, op. cit., pag. 10.