Durante i primi anni di successo dei Beatles, periodo “patologico” contagiato
dalla Beatlemania, Lennon sembra scisso in due persone differenti: l’io-scrittore, che
esprime in un linguaggio satirico e quasi inintelligibile i suoi vissuti e la sua visione
del mondo, e l’io-beatle, la sua “immagine” che scrive canzoni in modo oggettivo.
(…)
Il testo di Come Together, traspira libertà dal modo in cui scioglie le parole da ogni
tipo di forma, legge e regola (anche grammaticale):
Here come old flat top
He come grooving up slowly
He got joo joo eyeball
He one holy roller
He got hair down to his knee.
Got to be a joker he just do what he please.
He wear no shoe shine
He got toe jam football
He got monkey finger
He shoot Coca Cola
He say I know you, you know me
One thing I can tell you is you got to be free.
Ogni verso è come un gioco ad incastro, un puzzle in cui i pezzi sono le parole
stesse, pezzi messi insieme per costruire l’identikit di questo strano “hobo-outcast-
messiah”, come è stato definito. Un “joker”, una figura senza utilità, uno spirito
libero che fa solo quel che lo diverte, senza curarsi di ciò che, invece, dovrebbe
essere sensato fare - “Got to be a joker he just do what he please”: il rifiuto di seguire
una condotta lineare è soprattutto nel modo in cui viene proferito, in quella mancata
coniugazione dei verbi “to do” e “to please”. Scrive Ponzio:
La parola ritrova la sua materialità, la sua resistenza, il suo spessore di significante non
asservito al significato, non trasparente, non subordinato all’intenzione discorsiva. La parola e il
gesto ridivengono corpo e non si dissolvono in direzione del senso.
Il ritornello è un vero e proprio slogan per coinvolgere l’ascoltatore:
Come together right now over me.
Nel richiamo al raduno, al piacevole “venire insieme”, risuona
contemporaneamente l’allusione sessuale del verbo “to come”, abbracciando così
ogni aspetto ludico, compreso il divertirsi con la valenza multipla delle parole.
Strofa dopo strofa, il “processo descrittivo” non porta affatto ad una chiara
delineazione della figura del “messia”:
He bag production
He got walrus gumboot
He got O-no sideboard
He one spinal cracker
He got feet down below his knee.
Hold you in his armchair you can feel his disease.
Alcuni “indizi” farebbero risalire “he” allo stesso Lennon: “bag production” è
il nome dell’etichetta delle produzioni artistiche di John, “walrus gumboot” rimanda
alla canzone I am the Walrus, “O-no sideboard”, oltre a “basette O-no”, può essere
letto come un bisticcio di parole sull’avere accanto Yoko Ono. Nondimeno, l’identità
del protagonista di questa canzone è una serie di rimandi e lo stesso autore si diverte
a dire senza svelare, a depistare da ogni possibile raggiungimento:
He roller coaster
He got early warning
He got muddy water
He one Mojo filter
He say one and one and one is three.
Got to be goodlooking ‘cos he’s so hard to see.
Come together right now over me.
Alla fine della canzone il puzzle è ancora aperto ad ogni eventuale pezzo, a
tutto ciò che si voglia e si possa ancora dire su questo “messia”, sfuggente alla vista
veloce che non sappia soffermarsi a guardare - “Got to be goodlooking ‘cos he’s so
hard to see”: un gioco tra le varie chiavi interpretative di “goodlooking” (“di
bell’aspetto” ma anche “guardare bene”), perché è nel gioco che si può interpretare il
“vagabondo” libero, polisembiante, forse il linguaggio stesso, liberato e polivalente.
(…)
Le relazioni che, nelle prime canzoni dei Beatles, rientravano “nell’orizzonte
dell’uguaglianza” del dare per avere, ora vacillano; non tutto si pareggia nel rapporto
d’amore, non più quel “gioco facile” che alcuni versi di Yesterday rimpiangono:
Yesterday, love was such an easy game to play,
Now I need a place to hide away
Oh, I believe in yesterday
Why she had to go,
I don’t know, she wouldn’t say
I said something wrong,
Now I long for yesterday.
Yesterday rappresenta l’idealizzazione di un passato basato su un’illusoria
univocità della parola: una frattura insanabile tra significante e significato ha generato
equivoci, ambiguità, “something wrong” che ha fatto andare via “lei”; “she” che non
ha “voluto dire”, spiegare, perché ormai la parola ha perso ogni probabilità di riuscire
a comunicare senza alludere, senza rinviare ad un senso “altro”.
Il “gioco amore” è stato perso fra il vuoto dei significanti, fra l’imprevedibile
trappola dello stesso Linguaggio. Una perdita che è anche liberazione, affrancamento
dagli stereotipi a senso unico, dalle rassicuranti ripetizioni; le “love songs” dei
Beatles cominciano, così, a dare spazio alla plurivocità, all’enigma, alle insicurezze
del doppio senso.
L’amore non è più l’“easy game” basato sul corrispondere e ricambiare ma il gioco
della seduzione, il rischio che fa perdere tutto: è la passione, in cui nulla si compensa
né ritorna a coincidere.
Il gioco di seduzione dell’eros diviene, nel testo della canzone Norwegian
Wood (This Bird Has Flown), allusione seduttiva della scrittura:
I once had a girl
Or should I say
She once had me.
She showed me her room,
Isn’t it good?
Norwegian wood.
She asked me to stay and she told me to sit anywhere
So I looked around and I noticed there wasn’t a chair
I sat on a rug
Biding my time
Drinking her wine
We talked until two,
And then she said,
“It’s time for bed”.
She told me she worked in the morning and started to laugh
I told her I didn’t and crawled off to sleep in the bath
And when I awoke
I was alone,
This bird had flown
So I lit a fire
Isn’t it good?
Norwegian wood.
Il testo si apre con un’assenza (“I once had a girl”), che è anche spiazzamento,
perdita di equilibrio e di ordine: colui che parla cerca di ricostruire i suoi ricordi ma
non può basarsi su certezze - “or should I say/she once had me”: il possesso è stato
messo fuori gioco dalla seduzione ed il seduttore sedotto si perde, confuso, alla
ricerca di un ruolo sessuale in cui riconoscersi.
L’autore inizia così il suo racconto, un ricordare che, in quanto tale, non si
identifica con una semplice trascrizione dei fatti: divaga sui piccoli dettagli, sulle
minuziose particolarità - il legno norvegese che riveste la stanza, il tappeto sul quale
si siede a bere del vino -; “il racconto non è più il luogo, ciò che accade esorbita da
esso”, spazientendo l’ascoltatore che si aspettava di assistere ad un amplesso rapido e
conclusivo.
La seduzione diviene così dispersione, in “una simultaneità del clandestino e
dello scoperto”; un ludico “accostarsi e fuggire” che l’autore gioca anche con il suo
ascoltatore: dopo il verso vagamente allusivo “It’s time for bed”, risuona una risata,
inconcludente e perversa, che non produce niente e ritarda ulteriormente gli
avvenimenti.
Quando lui si risveglia, la ragazza è gia volata via, come un uccello; la luce del
giorno ha fatto sparire l’oscurità di un sogno fugace ed ambiguo: è l’ora della
linearità, il momento di dare un significato, di rendere conto di tutto l’inutile spreco
notturno. Ma il testo “si disfa del racconto”, dando il senso alle fiamme insensate:
evade dalla costrizione del significato quasi fosse una “prigione da cui bisogna
scappare, ma prima bisogna bruciare, dare al fuoco il passato, il luogo, gli oggetti”.
La seduzione non lascia tracce e, come la scrittura, non dice niente: “la
seduzione e la scrittura stanno insieme proprio per questo”.
(…)
In alcuni versi di Get Back, oltre alla descrizione caricaturale della madre di
Loretta - vestita di tutto punto mentre aspetta che la figlia torni a casa - si trovano dei
riferimenti provocatori a quelle realtà che la morale si rifiuta anche solo di sentir
nominare:
Jojo was a man who thought he was a loner
But he knew he couldn’t last
Jojo left his home in Tucson, Arizona
For some California Grass
Get back, get back
Get back to where you once belonged
Get back Jojo, go home.
Sweet Loretta Martin thought she was a woman
But she was another man
(...)
Get back, Loretta
Your mummy’s waiting for you
Wearing her high heel shoes
And her low-neck sweater
Jojo si allontana dalla sua casa e dal suo stato di “solitario” per intraprendere
un viaggio che può essere inteso sia in senso fisico che mentale: pur camuffata da
“Pascolo della California” conforme allo spirito dell’epoca (“Sono le strade e i
viaggi, le frontiere e le nuove praterie che affascinano il beat”), la “Grass” - l’erba - a
cui si allude è inequivocabilmente la marijuana. La significazione di alcuni segni non
è più riconducibile al significato attribuito sino a quel momento dalla tradizione:
Loretta è il nome di un uomo che pensava di essere una donna - un travestito.
Il continuo “torna a casa” del ritornello si carica di non poca ironia in questo
particolare contesto storico, che vede la controcultura sostituire al nucleo familiare la
comune, modello di vita alternativo dove l’individuo è libero e autonomo senza
sentirsi solo. Nota Zecchi:
Gli anni Sessanta sono il periodo dei grandi raduni, dei riti collettivi, delle fughe in
comunità, dello smontaggio antifunzionale del sistema, dell’Oriente contro l’efficienza mercantile
dell’Occidente.
Con Yellow Submarine i Beatles istituiscono una repubblica ideale, costituendo
il modello “musicale” delle nuove forme di vita comunitarie; i valori autonomistici e
libertari sono condensati soprattutto nelle ultime due strofe della canzone:
And our friends are all aboard
Many more of them live next door
And the band begins to play
We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine.
As we live a life of ease,
Everyone of us has all we need
Sky of blue and sea of green
In our yellow submarine
Nei versi ricorrono i pronomi “We”, “Us” e l’aggettivo possessivo “Our”: il
sottomarino viene, pertanto, percepito come uno spazio comune da ripartire fra
“friends”; a bordo si conduce “a life of ease”, ognuno ha tutto ciò di cui ha bisogno
fra “sky of blue and sea of green”.
Estraniato dalla sua funzione di macchina da guerra, il sottomarino viene
trasformato dai Beatles in una “macchina antimacchina” surreale, di colore giallo, “il
più ardente dei colori (...) che oltrepassa sempre i limiti nei quali lo si vorrebbe
confinare”. Riguardo al carattere espressivo di questo colore, Itten ha specificato che
“il giallo indica intelletto, conoscenza, sapienza o luce e ispirazione (...). Al giallo
come il colore più luminoso, si associa così simbolicamente l’intelligenza, il sapere.”
Nel sottomarino giallo i colori risaltano puri e incontaminati, il verde del mare
e l’azzurro del cielo infondono la sensazione di una contentezza “semplice”,
corporale e mentale, una pace nei sensi orizzontale e verticale dello spazio: scrive
infatti Ponzio, secondo le indicazioni di Kandinskij, che “il verde dà l’impressione di
riposo terrestre e di appagamento, mentre l’azzurro suggerisce l’idea di una
sovrarealtà, di una tranquillità sovrannaturale”. Dei quattro elementi, il verde
rappresenta l’acqua mentre il giallo rappresenta l’aria.
Nel campo delle forme, al giallo corrisponde il triangolo, simbolo del pensiero,
e tutte “le forme basate su diagonali, come il rombo, il trapezio, lo zigzag e loro
derivati”.
Da parte nostra notiamo una sorta di similitudine tra la forma del triangolo, con
i suoi angoli acuti, e quella del sottomarino, con la torretta e il periscopio al suo
apice: si potrebbe, perciò, riscontrare una certa attinenza tra il sottomarino giallo, che
scandaglia il fondale degli abissi marini - laddove l’elemento acquatico diviene
“metafora dell’inconscio” - e il triangolo, con il suo “carattere imponderabile”, che si
irradia in tutte le direzioni.
(…)
La difficile comunicazione col mondo esterno, la divisione tra “Them and Us”, la
mancanza del “patire insieme” sono aspetti della solitudine che i Beatles affrontano
nel testo di Eleanor Rigby, in cui il rapporto di alterità e le relazioni ad esso legate,
quali l’amore e la fecondità, sono portate al limite dell’impossibile:
Ah, look at all the lonely people
Ah, look at all the lonely people
Eleanor Rigby picks up the rice in the church where a
wedding has been
Lives in a dream
Waits at the window, wearing the face that she keeps
in a jar by the door
Who is it for?
La frase introduttiva, ripetuta due volte, riecheggia come un richiamo: l’autore
cerca l’attenzione dell’ascoltatore, lo prepara alla storia che sta per raccontare; il
piccolo prologo ha in sé tutta la drammaticità dell’intera canzone, che può essere
definita un “romanzo breve”. Le parole “lonely people” già prefigurano la condizione
in cui vivono i due sterili personaggi di questo testo; scrive Mellers: “Miss Rigby and
father McKenzie (...) represent all the lonely people: and that includes us, and the
young Beatles”.
Eleanor Rigby viene raffigurata mentre raccoglie il riso, solitaria, in quel
momento o tutti i giorni, nella chiesa in cui c’è stato un matrimonio, un’occasione
importante della vita che lei ha inesorabilmente perso. Nel focalizzare l’attenzione
sulla donna, l’autore trasporta l’ascoltatore in una surrealtà, in un punto di incontro
tra realtà - il mondo esteriore, la “church” in cui Eleanor raccoglie il riso - e sogno - il
mondo interiore, il “dream” in cui ella vive -: la frase “wearing the face that she
keeps in a jar by the door” potrebbe essere paragonata ad un’opera di René Magritte,
ad uno di quei quadri in cui “il significato sta nella combinazione inattesa ed
enigmatica delle immagini”.
L’associazione di “face” e “jar” crea una sorta di scollamento tra l’immagine e
la parola, che perde il suo ruolo “rassicurante” di rappresentazione: “la scrittura si
presenta come fuoriuscita dalla rappresentazione, dall’immagine, dalla visione”.
La faccia di Eleanor viene “indossata” quando la donna “waits at the window”:
fra le pareti di casa, lontana da porte o finestre, ella è senza volto, è “nothing”.
Eleanor si sottrae alla concettualizzazione, esiste nella sua assenza.
Alla realtà onirica della prima strofa si affianca il realismo del ritornello:
All the lonely people, where do they all come from?
All the lonely people, where do they all belong?
L’autore non fornisce risposte all’ascoltatore, ma solo domande - di quale
posto è la gente sola, da dove viene - domande che lo spingono a chiedersi se la
gente sola non sia forse figlia di quella stessa società che ignora gli emarginati o
peggio ancora ne nega l’esistenza. Non è un caso che questa canzone abbia meritato
l’elogio dei sociologi.
Nella seconda strofa compare l’altro personaggio della storia, father McKenzie:
Father McKenzie writing the words of a sermon that
no-one will hear,
No-one comes near.
Look at him working, darning his socks in the night
when there’s nobody there,
What does he care?
Anche father McKenzie viene raffigurato nei suoi gesti ritualistici, ad indicarne
la “drammatica esclusione dalla comunità”. Per ogni sua azione risuonano tre
negazioni, come una triplice condanna alla solitudine: “no-one will hear”, “no-one
comes near”, “nobody there”.
Il sacerdote scrive delle parole che nessuno ascolterà: egli stesso sembra
consapevole del fatto che nessuno gli si avvicinerà; scrive il suo sermone di “scrittura
infunzionale e improduttiva” per il piacere di scrivere, per continuare a vivere.
L’atmosfera cupa e fredda della notte avvolge il personaggio come fosse un
punto che si confonde nel buio, che nessuno vede e di cui nemmeno il lettore si
accorgerebbe se il narratore non gli indicasse la scena, non lo invitasse ad “assistere”
- “Look at him working”.
In un contesto storico in cui la controcultura si avvicina alle esperienze
mistiche della religione orientale, father McKenzie abbandonato dai suoi parrocchiani
diventa simbolo della Chiesa cattolica che ha perso ogni seguace.
Nell’ultima strofa viene comunicata la morte di Eleanor Rigby, avvenuta nella
stessa chiesa in cui la donna aveva passato la maggior parte della sua vita a
raccogliere gli avanzi della felicità altrui:
Eleanor Rigby died in the church and was buried
along with her name.
Nobody came.
Father McKenzie, wiping the dirt from his hands as
he walks from the grave.
No-one was saved.
Questa strofa è l’unica ad avere tutti i verbi tranne uno - quello che ha come
soggetto father McKenzie - al passato, quasi a voler comunicare un senso di
irrimediabilità.
Un tumulo di terra ha cancellato completamente l’intera esistenza di Eleanor,
seppellita insieme all’unico segno che aveva dato un’identità a quel viso posticcio - il
suo nome.
L’ascoltatore apprende, senza essere più chiamato, che tutto si è compiuto nella
più completa desolazione (“Nobody came”): il verbo “came” potrebbe essere stato
scelto semplicemente per far combaciare la rima con “name”, ma è comunque curioso
notare come l’autore usi un verbo che implica in qualche modo la sua presenza sul
luogo della sepoltura.
Lo sporco da cui father McKenzie si pulisce le mani è tutto ciò che rimane
della morte di Eleanor; il suo gesto sembra un segno di indifferenza: il sacerdote ha
ormai concluso il rito funebre ma ha dispensato un sacramento che non porta
nessuna salvezza - “no-one was saved”.
Un’aura oscura e decadente sembra avvolgere la chiesa, figura predominante in
tutta la canzone, sia come edificio - usato come tempio solo per celebrare matrimoni
ma anche luogo di morte - sia come istituzione -non più infallibile autorità
somministratrice di salvezza eterna.
Con il testo di Eleanor Rigby i Beatles escono completamente da quelli che
erano i canoni - e i limiti - della musica pop, nel cui campo un argomento “brutale”
come la morte era di solito evitato, oppure visto in funzione dell’aldilà o trattato
come “a black joke”. In questa canzone dei Beatles c’è
Un recupero del valore della morte (...) una delle tante cose che questa società rimuove ed
emargina - e proprio quella su cui tutte le altre cose rimosse ed emarginate hanno fondamento - è la
morte, il finire senza una bella fine è il cessare, è la persona nel suo diritto, preesistente a qualsiasi
contrattazione, di essere un progetto interrotto.
Nella morte l’esistenza di Eleanor si innalza ad essere, un essere che non
valeva per gli altri - la faccia che ella indossa alla finestra, come viso che è visto e
che vede, “who is it for?” - ma non era neanche per sé, volto di una faccia inesistente
sotto un viso indossato - “nel volto si manifesta l’alterità dell’altro come essere per
sé”.