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INTRODUZIONE
1. Identità e differenza nell’esperienza letteraria: genesi di una critica contrappuntistica
Edward W. Said, nato a Gerusalemme Ovest nel 1935 e morto a New York nel 2003, è
senza dubbio uno degli studiosi contemporanei più conosciuti; il suo lavoro ha influenzato
profondamente l’approccio critico alla letteratura, proponendo non tanto una nuova metodologia,
quanto una nuova ottica in cui inserire lo studio dei testi e degli autori classici, abbattendo le
barriere interdisciplinari tra i diversi ambiti della cultura.
Portata avanti per tutto il corso della sua opera, questa linea di pensiero raggiunge la sua massima
formalizzazione venendo infine denominata, in maniera alquanto evocativa, come teoria
contrappuntistica: espressione di una metaforica unione di musica e critica letteraria in un unico
concetto.
In ambito internazionale, il suo nome è però principalmente legato principalmente a due
fattori: alle due opere Orientalismo e la successiva Cultura ed imperialismo, spesso percepita come
un seguito o un ampliamento; e l’attività in favore della causa palestinese a cui Said non si è mai
stancato di prendere parte, pur con modalità e ritmi differenti, fino alla morte. A ciò deve un certo
interesse che lo ha reso un “intellettuale pubblico”, definizione forse un po’ datata ma non del tutto
scorretta, a patto che venga privata della sfumatura limitativa che queste due parole assumono in
alcuni contesti politici
1
.
La politica è certo parte integrante del suo pensiero; ma in un senso che non riguarda direttamente
una connessione con il potere, quanto piuttosto un’attitudine. L’interpretazione del termine
“politico” si richiama direttamente alla sua etimologia greca, ponendo pertanto l’accento su una
sfumatura etico-sociale. Said rivendica con decisione la presenza di una disposizione al politico così
inteso, all’interno non solo della propria opera ma di qualsiasi teoria scientifica, anche la più
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Cfr. a proposito J. A. Buttigieg, Prefazione a Cultura e imperialismo, Gamberetti editrice 2006
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rigorosa ed impersonale: nella sua visione il sapere è fortemente condizionato dalle idee, o, come
egli le chiama, dalle circostanze in cui si trova ad essere l’autore, obiettando pertanto l’impossibilità
di rendere un pensiero apolitico, poiché nell’impostazione stessa di qualsiasi studio è presente un
contributo, un’imparzialità. Ciò che non deve necessariamente leggersi come un difetto, ma come
una costituzione imprescindibile della produzione di sapere.
Diviene quindi indispensabile scardinare il pregiudizio di un sapere “obiettivo” come
maggiormente aderente al vero: una finzione, che risulta se protratta deleteria soprattutto in
quell’ambito scientifico compreso nella vasta e talvolta malleabile denominazione di scienze
umane.
Per quanto diverse tra loro, esse si prefiggono lo scopo condiviso di studiare l’uomo. Ma in un
momento storico delicato come quello della decolonizzazione , in cui emergono nuovi studi e nuove
prospettive, si ha una forte percezione di venire per così dire “liberati” dalla necessità di un unico
punto di vista, e diviene lecita la domanda: “Quale uomo?”. Poiché questa tradizione scientifica
risulta essere fortemente europea, ne conseguirà un’impostazione eurocentrica; in un sapere che
studia e determina le modalità del rapporto tra una cultura e le altre da essa differenti,
accumulandone le conoscenze, ciò comporterà l’immissione di un certo numero di rappresentazioni.
Esse non sono affatto nascoste, né dissimulate: per chi si accinga a riconoscerle, la loro presenza è
evidente nel linguaggio, nella terminologia di cui questi studi si compongono. Da questo
presupposto si sviluppa la ricerca sull’immaginario figurativo e concettuale che soggiace al concetto
di “Oriente”, un Oriente creato come opposizione in riferimento ad un’identità, prendendo come
riferimento l’identità occidentale. Orientalismo è il prodotto di questa ricerca che prende in esame il
florido campo degli studi orientali, i cui confini sono difficilmente delimitabili.
La tesi portata avanti nell’opera è l’inesistenza di questa opposizione, se non appunto come
rappresentazione tra culture. Tuttavia, essa è fortemente radicata nel linguaggio stesso, il cui potere
risulta talvolta difficilmente sormontabile per lo stesso Said, che non sempre riesce a fare a meno di
adoperare i due concetti, spesso proprio opponendoli tra loro. Un paradosso che non è sfuggito né ai
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suoi critici, né a lui stesso: Cultura e imperialismo è, in parte, il tentativo di superare la tendenza
alla schematizzazione tra due poli di identità e alterità, parole che, insieme con differenza, sono
venute ad assumere un valore “talismanico”, come lo definisce lo stesso Said
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, per sostituirvi una
relazione di reciprocità e continuo rimando, secondo una metafora musicale, di polifonia, da lui
molto amata.
Cultura e imperialismo segna inoltre il superamento di un’influenza che si può riconoscere
all’interno del lavoro di Said fin dai primi saggi critici: l’influenza delle teorie di Foucault.
In Orientalismo si può affermare che quest’influenza si riveli in tutta la sua potenza: l’analisi della
scienza orientalistica è svolta interamente nel segno delle due concezioni di rappresentazione
(l’Oriente, appunto, come immaginario collettivo europeo) e discorso (l’insieme delle nozioni che
dell’Oriente compongono la scienza, sedimentate in nome di un duplice criterio di autorità e
tradizione).
Nelle premesse stesse di una ricerca archeologica, volta ad indagare la storia di queste
rappresentazioni e discorsi, ci si vuole richiamare al Foucault dell’Archeologia e di Le parole e le
cose, ma altresì, nel voler tracciare la storia di un rapporto in cui l’orientale assume la funzione
dell’Altro, del diverso, oggetto di studio e sperimentazione, lo studioso palestinese ha senz’altro in
mente Storia della follia e l’analisi dei meccanismi di controllo di Sorvegliare e punire.
Richiami foucaultiani, per l’appunto, ed in quanto tali sono stati perlopiù trattati dalla critica, che si
è concentrata maggiormente nell’aspetto polemico dell’opera.
Nel lavoro che seguirà, si sostiene invece una lettura di Orientalismo come tentativo di
continuare la ricerca di Foucault, secondo una libera interpretazione della sua metodologia, in un
ambito di cui egli non si è mai occupato, e che agli occhi di Said risulta essere, al contrario, un
terreno particolarmente ricco per formulare una ricerca in questi termini.
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Cfr. Rappresentare i colonizzati. L’antropologia e i suoi interlocutori. In Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture ed
altri saggi, Feltrinelli 2008
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Orientalismo in quest’ottica rappresenta così uno studio sperimentale, applicazione pratica di una
teoria che si delimita nei confini di un’indagine rivolta all’interno della propria società, quella
europea; Said la utilizza per trascendere tali confini, incentrandosi sul rapporto che lega quella
società, scrutata così a fondo, con l’Altra, suo eterno sfondo, margine bianco del suo discorso.
L’evidente volontà di ricollegarsi al lavoro foucaultiano è ed è stata spesso trascurata in nome di
una lettura più direttamente autobiografica, che connette l’origine arabo-palestinese dello studioso e
il suo successivo dislocamento negli Stati Uniti, ma soprattutto il coinvolgimento in prima persona
nell’evolversi del conflitto arabo-israeliano. Orientalismo è spesso sovrapposto a La questione
palestinese, pubblicato quasi in contemporanea, così come vi è una certa tendenza a leggerne la tesi
come un atto di accusa diretto, in realtà, verso il sionismo. Se questo elemento ha in qualche modo
una certa rilevanza in alcuni tratti dell’opera, poiché non è semplice, talvolta nemmeno possibile,
scindere la componente autobiografica dalla trattazione prettamente critica dell’autore, questa
lettura appare tuttavia eccessiva. L’accenno al sionismo, così come ad una certo tipo di politica
estera statunitense, esprime una volontà di operare un continuo confronto con i risultati della
propria ricerca e la società, la contemporaneità, quello che viene da Said definito dal concetto di
mondano mutuato da Vico, altro importantissimo riferimento in ambito critico.
Questo continuo rapportarsi ai fatti ed avvenimenti del mondo è per Said una prerogativa
che è stata non di rado vista come un difetto, così come la scelta di un linguaggio estremamente
chiaro e diretto, finalizzato, come nota lui stesso ironicamente, a “trasmettere il senso di una
scoperta, non di una sorta di illuminazione religiosa e segreta
3
.” La scelta di espungere l’astruso,
l’astratto e l’eccessivamente tecnico in nome di un linguaggio semplice e lineare, espresso quasi
prosaicamente, insieme ad un’esposizione tesa a ribadire i concetti, limandoli il più possibile a
beneficio della loro comprensibilità, ha senza dubbio contribuito ad un’ambigua ricezione da parte
di chi, soprattutto nell’ambito della scuola critica americana, è stato abituato ad un tipo di
3
E. Said, Umanesimo e critica democratica, il Saggiatore 2007
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linguaggio più criptico, meno esplicito; ciò può aver comportato in alcuni casi una sottovalutazione
di molti dei lavori saidiani.
La scelta di Said in questo senso è però testimoniata dalla centralità che il linguaggio stesso riveste
all’interno della sua critica. Il linguaggio è rappresentazione, è identità (o alterità); è resistenza,
nelle differenti forme in cui esso si manifesta come elaborazione di un nuovo modello di pensiero,
forme tanto diverse da accomunare la parola di Mallarmè, la neolingua di Orwell, le trattazioni di
Fanon, e così via; è altresì dominio, nella misura in cui l’autore lo adopera per imporre la propria
autorità sulla pagina. Non necessariamente il linguaggio, per essere critico, deve essere lineare: lo
dimostra l’esempio di Adorno. Tuttavia, poiché lo stesso Said lo riconosce un esempio
“difficilmente eguagliabile” e poiché, come stigmatizza in polemica con Judith Butler, “chi usa un
linguaggio involuto non è necessariamente un Adorno
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”, egli preferisce un diretto riferimento alla
realtà.
Vi arriva però in una seconda fase: nei due saggi più propriamente di critica letteraria quali
sono Beginnings e The World the Text and the Critics si assiste all’utilizzo di un linguaggio non
oscuro, ma fortemente legato alla psicologia, soprattutto nei due termini di filiazione ed affiliazione
su cui ruota la descrizione del movimento modernista in arte e letteratura.
La psicologia e Freud esercitano su Said un’attrazione mai del tutto dichiarata, cui torna
saltuariamente, finanche negli ultimi anni di attività (la pubblicazione delle sue ultime conferenze
su Freud, “Freud and the Non-European
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”, risale al 2003); c’è qualcosa di freudiano nella struttura
stessa della sua opera, nell’interessarsi principalmente ad autori che condividono con lui
l’esperienza della lontananza e dell’esilio o comunque di un sentimento di estraneità, della
mancanza di una propria autentica dimensione; un sentimento che egli descrive come un “sentirsi
sospeso tra due mondi”, o due differenti personalità: nel parlare di se stesso, come nel caso della sua
autobiografia, egli si riferisce talvolta ai “due Edward” in lui.
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Ibidem
5
Nel presente lavoro si è utilizzata la versione francese Freud et le monde extraeuropéen, Le serpent à plumes 2004
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Un’affinità percepita in larga misura in un autore come Conrad, i cui testi analizza proprio in questo
senso, svolgendo un’indagine su quanto di questa estraneità ne influenzi l’opera e la scrittura stessa,
la dimensione personale che entra nel testo: l’esperienza dell’autore.
Il concetto di esperienza è a tal punto fondamentale nella critica di Said da poterla definire una vera
e propria “critica dell’esperienza”; un’altra espressione che si ritrova di frequente nel suo lavoro è
quella di “esperienza (o esperienze) di letteratura”.
È un’espressione con cui ci si vuole riferire certo al bagaglio di circostanze che accompagna il
lavoro di ogni autore; ma il suo significato non viene limitato a questo. Il concetto di esperienza
saidiano assume una funzione che parrebbe fenomenologica, infradimensionale; funzione che, già
delineata nel 1978 in The world the Text and the Critics, è destinata ad accentuarsi fino a risultare in
Cultura e Imperialismo come l’elaborazione di un “sistema aperto” della letteratura, suscettibile di
“interferenze” da parte di altri campi culturali e artistici, in primis proprio la musica.
Non di rado Said si serve di una terminologia presa in prestito dal contesto musicale e operistico,
trovandovi una maggior aderenza ai concetti da lui esposti: è il caso della teoria contrappuntistica,
approccio critico così denominato in Cultura e imperialismo, ma di cui si può seguire la
costituzione a partire dalle formulazioni di Beginnings: Intention and Method.
La teoria contrappuntistica è la definizione ultima di questo “sistema aperto” delineato dal
professore palestinese. Esso si sviluppa su questi due livelli qui accennati.
Il primo fa riferimento ad una dimensione di spazio/tempo in cui si dispiega una relazione fra opere
e autori, connessi tra loro proprio attraverso l’esperienza. Si tratta di una rete di rapporti formato dal
nucleo di conoscenze e cultura che ogni autore condivide con i propri predecessori, in un ciclo
continuo di ripetizione ed originalità. Nel riflettersi, all’interno di una teoria, delle elaborazioni che
l’ hanno preceduta, siano esse rifiutate o accettate e, soprattutto, siano esse riflesse in maniera
conscia o meno, si crea un’interrelazione contestuale tra le opere, che permette a ciascuna teoria di
venire riletta e rielaborata in relazione al proprio contesto: “Per comprendere un testo letterario
bisogna comportarsi come se fossimo gli autori di quel testo, calandoci nella realtà dell’autore,
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passando attraverso lo stesso tipo di esperienze e così via, e avvalendoci di quella combinazione di
erudizione ed empatia che contraddistingue l’ermeneutica filologica. In questo modo (…) il confine
tra gli eventi reali e la rielaborazione mentale che li modifica si fa indistinta. Questa debolezza, in
qualche modo tragica, della conoscenza umana e della storia, è tuttavia una delle contraddizioni
irrisolvibili che sono parte integrante dell’umanesimo stesso: non si può prescindere dal ruolo del
pensiero nella ricostruzione del passato, ma, nello stesso tempo, il pensiero non può essere fatto
coincidere con il reale”
6
.
Questa reciprocità più storica che psicanalitica si ricollega direttamente all’idea molto potente, per
Said, di Traveling Theory: la disponibilità di una teoria ad essere soggetta a “revisione,
ripensamento, rivitalizzazione”, arrivando ad essere applicata in ambiti molto diversi da quello di
partenza; giudicare l’adeguatezza di questo “viaggio” è compito che spetta in parte all’autore, ma
soprattutto a coloro che con essa avranno a che fare. L’obiettivo è quello di rendere possibile un
superamento dei concetti di tradizione culturale, intesa in un senso fortemente restrittivo, e
dell’autorità stessa, nella sua forma di dominio dell’autore sul proprio testo.
Il secondo livello è in una direzione che si potrebbe metaforicamente definire orizzontale:
riguarda il coinvolgimento di più ambiti artistici, come tentativo di abbattimento programmatico
delle barriere che vengono frapposte fra discipline. L’obiettivo polemico è la specializzazione
eccessiva, soprattutto in ambito accademico, che è posta inevitabilmente in contrasto con la
concezione di “umanistica” cui si rifà lo studioso: il contesto del sapere cui si riferisce Said è
certamente quello particolarmente settorizzato di un certo tipo di scuola nordamericana. Ad esso
egli oppone non solo una concezione “alternativa” di studio, ma altresì un modello intellettuale cui
viene attribuito uno specifico ruolo sociale: un archetipo, di cui si tenta però in ogni misura di
evitare un’astrazione, riscontrandolo in esempi prettamente pratici di applicazione nell’opera di vari
autori. Questi, tanto diversi fra loro quanto possono esserlo Vico e Foucault, Adorno e Lukàcs,
6
E. Said, Umanesimo e critica democratica, op. cit.
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condividono però una continua formulazione e applicazione di istanza critica, intesa sia come
opposizione e resistenza, sia come creazione di nuovi spazi di pensiero.
La questione del ruolo dell’intellettuale è il vero leitmotiv dell’opera saidiana, cui
contribuisce a dare un’immaginaria forma circolare, pur se non chiusa: è la problematica iniziale,
posta nell’accezione di responsabilità dell’autore, ed è ciò che nelle fasi finali assume il sapore di
una retrospettiva, un’autoanalisi del proprio lavoro: interrogandosi circa l’attività dell’intellettuale
contemporaneo, il professore pare in realtà chiedersi (e rispondersi) a proposito della sua stessa
attività e il ruolo, e certo il potere, da lui esercitato.
L’elemento-chiave dell’esperienza diviene nella fase finale tanto preponderante da inaugurare un
nuovo filone, strettamente autobiografico: in esso Said riprenderà La questione palestinese,
aggiungendovi gli sviluppi del processo storico relativo alla gestione politica del conflitto
susseguitisi nei vent’anni successivi alla prima edizione; ripubblicherà alcuni cicli di conferenze
tenute in diverse occasioni importanti, come nel caso delle londinesi Reith Lectures, donandogli un
taglio ancor più personale; produrrà, soprattutto, un’autobiografia, dall’eloquente titolo Sempre nel
posto sbagliato, e diversi resoconti di viaggi nella terra natale, a significare l’attenzione rinnovata
per l’uomo Said, prima che per lo studioso.
In quella che potrebbe apparire una svolta intimistica à la Foucault, ancora una volta, almeno per
come lo stesso Said interpreta l’ultima fase del filosofo francese, manifestandone una delusione,
bisogna però rimarcare come nel proporre un discorso su se stesso il professore intendesse portare
avanti un discorso su ciò che si era assunto, anni prima , come compito: la condizione palestinese.
La delusione manifestata verso Foucault, ed in generale verso coloro che, dopo aver brillantemente
agito in nome della libertà intellettuale, si ritirano in una disillusa contemplazione
7
, è rivolta non
tanto verso i successivi lavori, quanto nell’accantonamento di quell’ideale che da Foucault veniva
7
Cfr.E. Said, Alla ricerca di Gillo Pontecorvo, intervista con il regista, in Nel segno dell’esilio, op. cit.
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presentato per esempio nella conclusione di Che cos’è l’illuminismo
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, incentrandovi la maggior
parte dei propri studi.
Orientarsi nel pensiero di Said può dunque risultare complesso, per via dei così tanti
contributi che originano altrettanti spunti di riflessione, semplicemente come rievocazioni o
commenti, o talvolta in un’ottica decisamente sperimentale, come avviene nel caso di Vico, di
Gramsci e di Foucault. Si è cercato in questo lavoro di rendere sinteticamente la mappa di un
possibile percorso con cui analizzare questa complessità, seguendo un criterio maggiormente
concettuale; un’analisi specifica viene dedicata ad Orientalismo, come opera centrale nella sua
carriera di studioso, anche per via dell’impatto che ha provocato nel mondo accademico e non: il
dibattito che ne è seguito ha contribuito, in parte, a renderlo quell’ “intellettuale pubblico” sopra
descritto. Si è ritenuto importante tuttavia tentare di capire le ragioni di tale dibattito, ed al
contempo evidenziare la possibilità quasi ignorata di leggerlo in un ambito completamente
differente, in relazione al lavoro di Foucault.
2. Il ruolo dell’intellettuale Edward W. Said.
Il taglio personale che Said sceglie di dare alla sua critica è un’evidente caratteristica fin dai
primi lavori. Il lavoro presentato come tesi di dottorato sul rapporto tra il carteggio di Conrad e la
sua opera presenta già forti indizi in tal senso.
Oltre all’esposizione in prima persona che caratterizza ogni specifica scelta metodologica vi è una
volontà di riferirsi direttamente all’ambito della società e degli avvenimenti contemporanei: quello
che in letteratura egli denomina il contesto. Nel rimarcare in maniera così potente il proprio punto
di vista ed il proprio vissuto, egli identifica un principio di responsabilità dell’autore, responsabilità
esercitata nei confronti del pubblico cui sono destinate le proprie opere, ma anche nei confronti di
se stesso, in una continua revisione autonoma delle proprie idee. Come viene rimarcato da alcuni, si
8
M. Foucault, Che cos’è l’illuminismo, in Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli 2006
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tratta di un compito che Said intraprende su più fronti: “The point I want to insist on, is this:
whether explicitly stated (as in The Fiction) or simply assumed, there is a sense in which Said’s
entire critical project is predicated on the very idea of a radicalized dialectical engagement—an
engagement between an author and his work, between critical consciousness and the material
(textual or otherwise) under its scrutiny, between the intellectual and the category of culture
(whether broadly or narrowly conceived) that empowers and constrains him or her, and so on”.
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Ciò che potrebbe avere una qualche analogia con un’autoanalisi in termini psicanalitici assume per
Said il valore di uno scopo etico, nel rapportare il suo lavoro ad una funzione essenzialmente di
denuncia o, come ama ripetere, di resistenza: resistenza al dominio sia in termini culturali e
linguistici, sia decisamente fisici.
È un impegno che egli esercita nei confronti di molte cause, stringendo collaborazioni con autori
dissidenti come Salman Rushdie
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, nonché supportando i lavori di alcuni critici emergenti che delle
tracce di questa dominazione si occupano. La “sua” causa tuttavia, in cui si è adoperato con tutte le
proprie energie e seguendo diverse strade, dalla politica all’arte, è però quella riguardante il suo
paese di origine, la martoriata Palestina nel suo eterno conflitto.
La condizione di esule tante volte da lui rimarcata all’interno dei suoi interventi riguarda
non tanto un esilio forzato in terra straniera o una lontananza dal suo paese natale, quanto una
sensazione di divisione, di sdoppiamento tra quelle che considera le sue due patrie, la Palestina e gli
Stati Uniti.
Poiché è negli Stati Uniti che passa la vita a partire dalla maggiore età, egli si sente a tutti gli effetti
cittadino americano; mantiene comunque con la terra di origine un forte legame sentimentale,
benché non vi faccia ritorno che dopo quarantacinque anni
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, dimostrato soprattutto nella
partecipazione con cui di essa segue le vicende, arrivando a svolgere per brevissimo tempo il ruolo
9
A. A. Hussein, Edward Said: Criticism and Society, Verso 2004
10
Cfr. Patrie immaginarie, Garzanti 1991
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Come racconta nelle prime righe di Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele:“Io sono nato a Talbiya, un
quartiere di Gerusalemme Ovest, nel novembre del 1935, ma dalla fine del 1947-poco prima che Talbiya soccombesse
alle forze ebraiche all’inizio dell’inverno del 1948- non vi ho più fatto ritorno, per una serie di ragioni politiche e
personali.