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INTRODUZIONE
E’ davvero possibile narrare una vita? E condividere con altri il
racconto delle proprie esperienze? Ma, più di ogni altra cosa, è
attuabile - in che modo e quale significato assume - in contesti
educativi ?
Al termine di un complesso itinerario, sono giunta a rispondere
affermativamente a tali quesiti e, in particolare, a concludere che
raccontare la propria storia di vita significhi anche condividerla.
Dunque, di seguito, ponendo come centrale la tematica educativa,
ripercorrerò a ritroso tutte le tappe e i passaggi del percorso
conoscitivo che sono stati necessari al fine di pervenire a questa
scoperta, a tale traguardo.
Inoltre, nella presente trattazione verrà privilegiata una prospettiva di
genere, ovvero l’analisi del racconto e della scrittura di sé “al
femminile”.
Partendo dalla constatazione che la comunicazione risulta essere, al
tempo stesso, strumento e momento centrale di ogni relazione o
interazione fra individui (quindi, anche di un particolare tipo di
relazione come quella educativa, oppure di cura, o altro), il primo
capitolo si apre con una breve trattazione della teoria della
comunicazione approntata dagli studiosi della scuola di Palo Alto, Paul
Watzlawich, Janet H. Beavin e Don D. Jackson.
Vengono analizzate, secondo i principi della pragmatica, le proprietà
fondamentali della comunicazione: i cinque assiomi ed il contesto,
ossia la “cornice relazionale” che conferisce significato alle parole e
5
alle azioni; ma, soprattutto, si vuole comprendere se tali criteri
mantengono la loro validità anche qualora vengano applicati a realtà
concrete e differenti, e, in caso contrario, cosa non funziona o,
eventualmente, cambia nell’ambito del racconto. Comunque sia, la
comunicazione è, innegabilmente, lo strumento principale per mezzo
del quale ci si pone in relazione con/all’altro; e la relazione è l’incontro
tra due o più storie, esperienze, aventi ognuna la propria dignità e
validità: ciascuna è “degna di essere narrata”
1
. Per di più, ogni
incontro umano si genera all’interno di un “contenitore”, di qualcosa di
esterno ed avvolgente, che dà senso a ciò che contiene (il
“contenuto”): la comunicazione, infatti, è un prodotto storico e
culturale in quanto ha luogo entro un quadro globale di condizioni
materiali, economiche, biologiche e sociali.
Dopo aver effettuato queste considerazioni, si prospetta l’ipotesi che
il bisogno odierno di comunicare e parlare di sé, di dialogo e scambio
reciproco, possa essere soddisfatto grazie alla riscoperta del racconto,
della narrazione come legame sociale e occasione di rapporto con gli
altri; di una dimensione in cui anche l’ “ascolto” diviene fonte di
arricchimento.
Successivamente, nel secondo capitolo, si affronta l’importante tema
dell’autobiografia come genere letterario, ossia di una delle varie e
diverse forme che può assumere il racconto della propria storia di vita.
Secondo il noto linguista e studioso francese Philippe Lejeune,
l’autobiografia è il “racconto retrospettivo in prosa che una persona
1
Rossetti, G., Una vita degna di essere narrata. Autobiografie di donne nell’Inghilterra puritana, La
Salamandra, Milano, 1985, p.5.
6
reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita
individuale, in particolare sulla storia della sua personalità”.
2
Ma, appunto, l’autobiografia è un prodotto difficile da definire e
classificare, perché l’ “Io”, anche a seconda dei vari contesti storici in
cui è inserito, sceglie modalità differenti per la propria messa in scena
e rappresentazione: assi molteplici - cronologici, tematici, stilistici,
metodologici - orchestrano ciò che si racconta; al pari di innumerevoli
fili di una matassa che ordiscono una trama. E’ comunque possibile
enucleare le caratteristiche peculiari di questo genere letterario,
rapportandolo ad altri modi di raccontare, rispetto ai quali presenta
analogie e differenze.
Innanzitutto, considerando la modalità di raccontare propria della
storia, si può notare come essa sia caratterizzata da una narrazione ed
esposizione ordinata di fatti, che descrive, ricostruisce, interpreta e
spiega gli eventi.
Mentre, lo stile di racconto di una biografia si colloca in un’altra
prospettiva euristica: in quanto, ha a che fare, principalmente, con
individui, atti, persone o gruppi. Una biografia delinea il profilo di un
uomo, delle sue idee, del suo modo di pensare e del mondo in cui vive o
visse; quindi, in tale ambito, la cronologia assume un’importanza
secondaria. L’utilizzo del metodo biografico fa sì che il ricercatore
debba raccontare per primo, cioè raccontando degli altri parla anche di
sé; e, raccogliendo e diffondendo racconti di vita di “coloro che non
scrivono” viene data loro la parola, o meglio, gliela si prende per farne
della scrittura. Anche se, è utile ricordare che, per prima cosa, ci sono
le biografie di coloro che scrivono, raccolte sotto la dicitura “opere e
2
Lejeune, P., Il patto autobiografico, Tr.it., Il Mulino, Bologna, 1986, p.12.
7
vita”; oppure, le analisi e lo studio dell’intera produzione di un autore,
al fine di osservare quale posto vi occupa l’eventuale scrittura della sua
autobiografia e, in tal caso, come si colloca in rapporto con l’intera
opera dello stesso; infatti, questo confronto permette di interpretare o
re-interpretare, più compiutamente, pure i romanzi e le altre opere dello
scrittore.
Infine, è opportuno analizzare l’autobiografia in relazione al campo
più vasto della narrazione e, in particolare, del romanzo. In questo
modo emerge anche la questione del “vero”, ossia del rapporto tra
fattualità e finzione, tra vissuto e costruzione/ricostruzione che avviene
dentro e durante l’operazione autobiografica (compreso l’imponderabile
“abbandono immaginativo”: quasi una caratteristica complementare di
tali generi). Infatti, la vita va, in un certo senso, re-inventata per
renderla narrabile; così, attraverso tali analisi e raffronti si arriva a
riconoscere la natura sociale e “creata” di ogni testo: a causa, anche,
della funzione mediatrice e formatrice del linguaggio. Perciò, viene
negata la possibilità di distinguere il racconto vero e proprio da quello
“fictional”, in quanto la finzionalità non è altro che “lo stato ontologico
di qualsiasi testo”
3
; fra verità e finzione esiste uno scambio reciproco e
continuo.
E’ importante sottolineare, una volta ancora, che, con la
pubblicazione nel 1975 de Il patto autobiografico di Philippe Lejeune,
lo studio dell’autobiografia - sempre nell’ambito della critica letteraria
- è uscito dagli ambienti riservati ed elitari nei quali era stato praticato
fino a quel momento per divenire oggetto di ricerche e di interessi più
vasti.
3
Aa. Vv., Teorie moderne dell’autobiografia, Graphis B. A., Bari, 1996, p. XIII.
8
Andando oltre, il discorso riguardante l’analisi delle storie di vita,
nonché l’uso dell’approccio autobiografico e biografico come
strumento di ricerca, nelle scienze umane e sociali, occupa il terzo
capitolo della presente trattazione. Infatti, attività altamente
significative e complesse come la narrazione o la scrittura di sé sono
state studiate e comprese - come avviene tuttora - da molteplici punti di
vista: soggettivo o intersoggettivo e, soprattutto, etno-antropologico e
culturale, sociologico, storico, psicologico, e così via; favorendo, a
volte e a seconda degli scopi, un esame polidisciplinare dei racconti
autobiografici; il quale mescola volutamente contributi di diversa
origine, al di là di confini disciplinari e/o ideologici o di altro genere al
fine di pervenire ad una migliore e più completa conoscenza di quell’
“insieme organizzato in forma cronologico-narrativa, spontaneo o
pilotato, esclusivo o integrato con altre fonti, di eventi, esperienze,
strategie, relativi alla vita di un soggetto e da lui trasmesse
direttamente, o per via indiretta, ad una terza persona”
4
; cioè, della
biografia e autobiografia come sono concepite nel campo di indagine
delle scienze umane e sociali. In tal modo, oltre ad essere oggetti
privilegiati di studio, le storie di vita (la loro raccolta, ecc..) divengono
alcuni degli strumenti più importanti delle cosiddette ricerche
qualitative.
Quindi, queste metodologie, che hanno certamente origini antiche,
sono trasversali a diversi campi disciplinari e rispondono a molteplici
obiettivi e finalità.
4
Olagnero, M., Saraceno, C., Che vita è. L’uso dei materiali biografici nell’analisi sociologica, La
Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, p.10.
9
Innanzitutto, in antropologia gli studiosi si sono sempre serviti della
raccolta di racconti autobiografici per conoscere le persone o i gruppi
con cui entravano in contatto (gli “altri”). Ma le trascrizioni di tali
storie da parte dei ricercatori risultavano caratterizzate da una certa
ambiguità: univano alla fredda descrizione scientifica un forte
coinvolgimento autobiografico ed una tendenza rischiosa a ritrascrivere
in modo romanzesco i modi di vita dei popoli incontrati. Tutto ciò era
frutto dell’incapacità di comprendere i racconti e le storie di culture
che erano estranee ai ricercatori. In seguito, gli antropologi che si sono
“concessi” l’opportunità di studiarle, non interpretandole in maniera
valutativa o giudicante, hanno colto pienamente il significato di riti,
credenze, giochi, costumi, letteratura e narrazioni (non essenzialmente
orali). E, attraverso questa strada, sono giunti a domandarsi con quale
diritto gli studiosi, soprattutto occidentali, possono rappresentare, o
meglio, pretendere di rappresentare le altre culture.
Ormai, l’antropologia non parla più con autorità per conto di altri
considerati incapaci di prendere la parola in prima persona (“primitivi”,
“pre-letterati”, “senza storia”); e sempre meno le popolazioni altre
possono essere tenute a distanza, collocandole in una temporalità
remota, o rappresentate come se non fossero anch’esse coinvolte nel
sistema-mondo: “le culture non stanno ferme a farsi ritrarre”
5
. Vengono
invece favoriti il dialogo, il confronto, l’incontro e il racconto fra
soggetti e storie appartenenti a realtà differenti, che consentano di
comunicare e valorizzare la propria diversità, di mettere in relazione
diverse interpretazioni e “approcci al mondo”. Il fatto stesso di
5
Clifford, J., Marcus, G.E., Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Tr. it., Meltemi,
Roma, 1998, p.33.
10
adottare, per estensione, una prospettiva dialogica ha trasformato ogni
rituale, istituzione, storia di vita o qualsiasi altro comportamento da
analizzare in una sorta di “soggetto parlante, che vede oltre ad essere
visto, che schiva, discute, sollecita”
6
.
Inoltre, gli studi di storia orale, ad esempio in Africa,
sovrapponendosi spesso a ricerche antropologiche classiche, tendono al
recupero dell’identità nazionale e/o culturale compromessa dalla
dominazione coloniale: attraverso una riappropriazione della memoria
storica collettiva, il coinvolgimento di testimoni aventi fra loro
caratteristiche disomogenee, la valorizzazione della cultura locale e il
rispetto della tradizione.
La storia orale o “storia dei senza voce” - classi subalterne, donne,
popoli ex-coloniali, senza scrittura - tuttavia, nasce come storia sociale
in Europa, grazie alle intuizioni e teorizzazioni di Paul Thompson ed
altri sociologi inglesi.
Comunque, in generale, qualsiasi lavoro autobiografico va inserito
nel contesto più ampio di una prospettiva antropologica che esalta le
valenze umane, culturali e religiose dell’autobiografia stessa; in altre
parole, ogni lavoro autobiografico ha rilievo antropologico, in quanto
rappresentativo del più ampio contesto che lo ha prodotto.
In secondo luogo, è necessario focalizzare l’attenzione sul contributo
pionieristico che proviene dall’ambito sociologico alla tematica di cui
ci stiamo occupando. In sociologia, il metodo delle storie di vita risulta
essere la strategia di ricerca maggiormente usata per portare alla luce
gli effetti degli eventi esterni sull’esperienza interna degli individui e,
di conseguenza, per ricostruire una determinata realtà. E’ opportuno,
6
Ibidem, p.38.
11
altresì, tenere presente che le storie di vita possono assumere forme
differenti e contenere aspetti diversi anche nel caso di una stessa
persona, in relazione agli scopi e agli interessi di chi le ha prese in
esame.
Secondo sociologi come, ad esempio Durkheim, gli individui sono
esseri sociali e, quindi, nient’altro che rappresentazioni della società in
cui vivono, mentre generalmente si ha l’abitudine di considerarli enti a
sé. Ed anche il fatto di avere ciascuno un certificato anagrafico da
presentare per differenziarci dagli altri soggetti non consente comunque
di avere storie individuali: infatti, una volta di più, quando ci si
racconta non si fa altro che raccontare come la società costruisce le sue
rappresentazioni.
Inoltre, in uno stesso periodo, in una stessa epoca, le persone possono
raccontare storie diverse, ma in fondo le loro vite non sono poi molto
dissimili le une dalle altre, tanto che, sentendone narrare una, possiamo
immediatamente collocarla in un periodo storico ben preciso; ciò
accade perché il soggetto nella sua raccontabilità è fortemente
caratterizzato da un costume, un clima, ecc.. .
A sostegno di quest’ultima tesi sta la constatazione che le storie di
vita sono “intercomprensibili”, poiché hanno qualcosa in comune:
difatti, se fossero assolutamente singolari non le capiremmo. Per
giunta, anche al lato opposto, ossia tra gli studiosi che sostengono la
singolarità di ogni storia, la raccolta, la classificazione e la
teorizzazione dei racconti autobiografici avvengono in maniere
estremamente diversificate (come nel caso di individui che
appartengono ad una condizione di emarginazione: le donne, gli
immigrati, o altri ancora).
12
Tuttavia, il quadro che abbiamo delineato non sarebbe completo
senza considerare la questione delle cosiddette “fonti orali” - storia
orale - le quali costituiscono una delle scoperte più recenti nelle
indagini sociologiche, benché, come visto in precedenza, metodi e
tecniche analoghe hanno sempre contrassegnato il loro sviluppo.
La svolta è avvenuta nel Novecento e, più precisamente, nel
momento in cui anche persone non famose hanno avuto la possibilità di
parlare di sé. Tale opportunità ed, in maniera più ampia, il recupero
delle fonti orali hanno condotto ad un ridimensionamento della storia di
“élite” e spostato l’ottica di studio verso le classi sociali, soprattutto
quelle subalterne, protagoniste nascoste della storia. Però, il
riconoscimento delle fonti orali come fonti documentarie a tutti gli
effetti assume nella ricerca storica un ruolo diverso rispetto alle
indagini sociologiche e antropologiche: in questo caso, le testimonianze
orali (interviste, storie di vita), ma non solo (biografie, lettere), sono
riferite ad esperienze circoscritte e ben precisate; mentre, per lo storico,
l’utilizzazione delle stesse fonti viene finalizzata alla ricostruzione di
grandi fatti, avvenimenti e situazioni del passato. Oggi, comunque, gli
studiosi, storici e sociologi, si rivolgono alle fonti orali mossi dal
desiderio di dare voce ai soggetti “non dominanti”, di allargare il
campo dell’indagine storiografica fino ad includervi le vite individuali
e la quotidianità, e con la volontà di scoprire quale visione del mondo e
della storia si abbia in basso o “dal basso”
7
.
Perciò, si cercherà di discutere in maniera approfondita di tutto
questo ed altro ancora senza trascurare di mettere in evidenza le
caratteristiche proprie del racconto orale, nonché tenendo presente che
7
Ferrarotti, F., Storia e storie di vita, Laterza, Bari, 1981, p.14.
13
l’attenzione al più piccolo dettaglio o al più lontano ricordo personale
rappresenta sempre una traccia, un indizio rivelatore di fenomeni più
generali, da grande storia; si tratta di “storie”, ma anche di “Storia”
8
.
Inoltre, per quel che concerne la psicologia o, più precisamente, ciò
che caratterizza il suo campo di studi rispetto alle scienze precedenti, è
l’attenzione particolare che rivolge alla dimensione soggettiva -
significati, immagini di sé - della storia di vita. Mentre nella ricerca
sociale le circostanze biografiche di un soggetto possono essere utili
per spiegare il comportamento dell’individuo ed anche del proprio
gruppo di appartenenza, la psicologia prende in considerazione l’unicità
di ogni singola persona e, di conseguenza, l’unicità della storia che
viene raccontata. In altri termini, “la prima legge immagini e significati
alla luce di repertori culturali relativamente condivisi”
9
, quindi suppone
che in un determinato ambiente vi siano altre vite non troppo dissimili,
oppure connesse fra loro anche se diverse, a quella vita che si sta
analizzando: si ipotizza, cioè, l’esistenza di un referente collettivo in
cui situare la vita singola; invece, “alla seconda i significati e le
immagini di sé interessano in quanto prodotti all’interno di un sistema
più o meno coerente di personalità e di identità individuali”
10
: le
caratteristiche di una singola storia di vita sono considerate proprie di
quell’individuo in quanto osservate e riconosciute su di sé.
All’interno di quest’ultima area disciplinare, un posto di primo piano
è occupato dalla psicoanalisi, la quale, fin dalle sue origini, propone il
comunicare e il parlare di sé come terapia: la costruzione e
8
Ibidem, p. 106.
9
Olagnero, M., Saraceno, C., Che vita è. L’uso dei materiali biografici nell’analisi sociologica, La
Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, p.13.
10
Ibidem, p.14.
14
ricostruzione della propria autobiografia o percorso biografico
conducono alla progressiva presa di coscienza di sé da parte del
paziente. Per averne la conferma, è sufficiente compiere un breve
excursus dalla sperimentazione freudiana della “cura parlata” alla
tecnica delle “libere associazioni”, e così emergerà, in maniera ancora
più chiara, che la psicoanalisi offre, soprattutto, un particolare tipo di
rapporto, nonché uno spazio ed una protezione fondamentali per
motivare al dire, raccontare, narrare, ecc.. .
La situazione psicoanalitica viene messa a disposizione del soggetto
come territorio del sé e, in un certo senso, “supplisce” così alla
necessità di uno spazio relazionale, di incontro, di “dia-logo” libero.
Infatti, l’incontro terapeutico si sviluppa, appunto, all’interno di una
cornice relazionale o di senso (“setting” o sistema di regole), in un
clima accogliente, dove “gli attori della coppia cercano di creare un
tessuto proprio di comunicazione che tende a contenere, in un “tòpos” e
in un “chronos” privilegiati, elementi di emozionalità, affettività e
cognizione, che a loro volta acquistano uno specifico valore in virtù del
contesto nel quale emergono”
11
. La dimensione interpersonale qualifica
la coppia analitica e la giustifica nel suo essere autonoma e speciale e
in seno alla quale si origina il significato stesso - risultante da una
costruzione comune - della relazione terapeutica.
Però, tutto questo porta a riconoscere, per giunta, e a scoprire nella
condotta umana, quindi anche nell’ambito del racconto, una serie
diversificata di motivazioni non completamente riconducibili al
paradigma psicoanalitico. Dunque, per confronto con quest’ultimo si
può accennare al metodo narrativo che sta alla base della “psicologia
11
Rossi, L., Itinerari del simbolo in psicoterapia, Borla, Roma, 1998, p. 64.
15
analitica” di Jung, cioè del più noto tra i discepoli di Freud che si
staccarono dall’impostazione del maestro; ma, soprattutto, si può fare
riferimento alla terapia rogersiana “non direttiva” o “centrata sul
cliente”. Poiché, le modalità (appunto, non direttive) proprie di tale
terapia presuppongono la “creazione di un clima di fiducia, accettante
ed ottimale per il racconto, una comprensione empatica, l’assenza di
valutazione e, in particolare, la capacità da parte del terapeuta di
provare un autentico e genuino interesse per l’altro e per le sue
verbalizzazioni”
12
. Tali peculiarità del terapeuta rogersiano lo rendono
una figura educativa ideale: permette al soggetto di essere parte
integrante della cura, grazie ad un particolare rapporto paritario, di
stima e bisogno reciproco, che sarebbe auspicabile “trasportare” anche
in campo pedagogico.
Il tema dell’autobiografia può essere analizzato anche da un’altra
prospettiva: quella della psicologia sociale. Questa giovane scienza
presenta tra i propri argomenti di indagine una questione, rilevante per
la nostra ricerca, relativa alla memoria autobiografica
13
. In un certo
senso, i nostri ricordi autobiografici, riguardanti pensieri passati,
sentimenti e comportamenti, ci definiscono; ma anche noi definiamo i
nostri ricordi, organizzando o tentando di organizzare continuamente il
nostro passato e influenzando, così, ciò che ne ricordiamo. Certamente,
non possiamo rimembrare perfettamente ogni cosa accaduta nel corso
della nostra vita; infatti, in ogni momento o circostanza si verificano
deformazioni, creazioni, ricostruzioni, invenzioni ed anche amnesie.
12
Rogers, C.R., Psicoterapia e relazioni umane, Tr. it., Boringhieri, Torino, 1970, p. 149.
13
Esemplata in letteratura da Marcel Proust nella sua “recherche”.
16
Però, molto spesso simili atti di distorsione e revisione dei ricordi non
sono casuali: noi riscriviamo la nostra storia.
Comunque sia, i ricordi - quelli “reali” come quelli che sono frutto di
invenzione del nostro passato - rappresentano delle tappe significative
per ricostruire i percorsi del sé e, quindi, per giungere alla conoscenza
e comprensione di noi stessi. Ma non è tutto, perché i ricordi sono
anche alla base del senso di appartenenza che ci lega al nostro mondo
sociale. Infatti, ciascun individuo si trova immerso in un contesto, in un
ambiente sociale e culturale: “ognuno di noi non è altro che un nodo
nella rete delle proprie appartenenze”
14
.
Alla pedagogia - disciplina di spicco tra le scienze umane e sociali -
verrà dedicata una sezione apposita nell’ambito della trattazione.
Tuttavia, risulta importante, già in apertura, anticipare che
l’introduzione e la sperimentazione anche in educazione dell’approccio
autobiografico, basato sul racconto e la raccolta di storie di vita o
comunque di testi verbali e scritti che ricostruiscono una vicenda
personale, opera su due livelli: sul piano dell’autoformazione, come
riflessione su di sé, comprensione delle svolte significative, cura di sé;
nonché come efficace strategia formativa. Senza peraltro dimenticare
che quest’ultima è e deve essere sempre incentrata sulla relazione,
riconosciuta solo recentemente come biunivoca, tra un soggetto che
“insegna” e colui che “apprende”: per estensione, tra insegnamento e
apprendimento. Pure una relazione siffatta si presenta come un incontro
fra due storie o due “spontaneità”, per utilizzare un’espressione
14
Bateson, G., Mente e Natura, in Bateson, M. C., Comporre una vita, Tr. it., Feltrinelli, Milano,
1992, p.12.
17
risalente agli anni venti, cara al pedagogista catanese Giuseppe
Lombardo Radice.
A questo punto si rivela necessario un momento di raccordo fra le
diverse parti della ricerca, che procede dall’autobiografia letteraria,
attraverso gli approcci presentati dalle scienze umane e sociali, verso la
prospettiva e l’applicazione educativa. Per tentare di stabilire il punto
della questione ci avvarremo di contributi offerti da diversi studiosi e
di uno in particolare: quello del sociologo Paolo Jedlowski. Ciò che
egli analizza non rientra né nella letteratura, né nella terapia e neppure
nel dominio della statistica: si tratta delle storie comuni raccontate
nella vita quotidiana.
Questi racconti non solo possono fungere da “cerniera”, da anello di
congiunzione fra le tematiche affrontate, ma un tale genere di
narrazione diviene mezzo e strumento di comunicazione indispensabile
in ambito educativo e, in particolare, per soggetti che si trovano in
condizioni di svantaggio culturale e sociale. Dunque, ogni vita merita
di essere raccontata, “ma la vita non è un romanzo -non è un film, non è
un racconto- perché nella vita siamo coinvolti e rischiamo”
15
.
Prendere se stessi come soggetto del racconto implica un lavoro di
autorappresentazione, in cui diviene possibile osservarsi; un’operazione
che consente l’incontro o lo scontro dell’individuo con la propria
immagine, con un altro se stesso, il doppio del proprio essere. Questo è
ciò che accade a livello generale, mentre l’esperienza della narrazione e
della scrittura per le donne si rivela uno spazio eccezionale di ricerca,
di identità (e non solo) e di espressione di sé.
15
Jedlowski, P., Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Mondadori, Milano, 2000, p.
60.
18
Infatti, nel caso del racconto femminile si ritrova un legame molto
più stretto fra il raccontarsi e l’autorappresentarsi (divengono quasi
sinonimi): ogni donna ha bisogno di vedere se stessa per essere vista.
Al parlare di sé è data estrema importanza, perché consente, appunto
attraverso la propria autorappresentazione, di riacquistare identità e
dignità.
L’analisi è volta a cogliere il racconto e la scrittura autobiografica
femminile con uno “sguardo pedagogico”, che possa mettere in luce due
aspetti tra loro inscindibili: in primis, il valore della narrazione e della
scrittura di sé nella formazione dell’autocoscienza femminile; e, d’altra
parte, il riconoscimento della soggettività femminile nei diversi mondi
di formazione culturali, sociali, collettivi, ufficiali, grazie al suo
emergere dall’invisibilità e dall’eterno essere in ombra in cui era
confinata. Un simile itinerario di autocoscienza è un autentico percorso
formativo che parte dal parlare, attraverso il raccontarsi e
l’autorappresentarsi, fino a raggiungere l’autoconsapevolezza. E il fatto
stesso di privilegiare una prospettiva di genere, per di più, richiede
un’attenzione più puntuale nel trattare il rapporto esistente fra oralità e
scrittura.
Infine, l’ultimo capitolo tratta dell’applicazione pedagogica
dell’approccio autobiografico. Anche se è collocata al termine del
lavoro ne costituisce e rappresenta la parte principale, in quanto funge
da “contenitore” in cui confluiscono tutte le tematiche e i contributi
affrontati e dove, appunto, trovano applicazione pratica.
Che le varie forme di racconto e di scrittura autobiografica abbiano
insospettate ed inesauribili potenzialità formative, a prescindere dalla
fascia di età del soggetto protagonista, è un dato di fatto ormai