INTRODUZIONE
Il perdono di sé è un argomento poco conosciuto e poco analizzato tanto
dalla letteratura psicologica quanto dalla letteratura culturale in genere. E’un
concetto spesso utilizzato in modo moralistico o sentimentale, come un
suggerimento o un dovere: “devi perdonarti” “non devi pensarci” “è acqua
passata”, ma senza saper dire “come” e “cosa” ci si perdona.
Quando mi è capitato di sentirne parlare o di leggerne, soprattutto in testi o
da persone che si appellavano a sentimenti religiosi, lo ritenevo un argomento
appunto letterario o di fede vissuta astrattamente, ora m’accorgo che mi riguarda
direttamente nella vita quotidiana, nell’affronto dei miei rapporti con cose e
persone.
Tutti abbiamo qualcosa di cui perdonarci. Ciò spesso complica la vita con
sensi di colpa che la rendono opaca, quando non angosciata. Altre volte, a causa
di errate convinzioni sociali e culturali, si è caricati di colpe che non esistono e
per le quali non c’è da perdonarsi.
Per ovviare a tale rischio è necessario un percorso di conoscenza che
renda capaci di giudicare “Chi” è il colpevole e quale sia la “Colpa” da guardare in
faccia assumendosene la responsabilità, condizione indispensabile per potersi
perdonare, come sostenuto dagli autori e ricercatori che hanno studiato il
perdono di sé.
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Nel primo capitolo l’argomento è affrontato dal punto di vista psicologico e
si avvale, tra l’altro, di recenti ricerche svolte in Università Americane e
Australiane che descrivono iniziali approcci di modelli di ricerca e di misurazione
da verificare e validare allo scopo di giungere a definire i fattori che possono
favorire il perdono di sé, indispensabile per il benessere delle persone in
generale, ma soprattutto per casi di sofferenza patologica.
Articoli e testi che trattano l’argomento dal punto di vista psicoanalitico
esplicitano in particolare le origini della colpa e del senso di colpa e della
convenienza di raggiungere, attraverso un'acquisita capacità di giudizio, il
perdono di sé che può facilitare la possibilità di perdonare gli altri.
Nel secondo capitolo si esamina la distinzione tra la colpa come “peccato”
o trasgressione oggettiva volontaria di una norma, da cui normalmente deriva il
rimorso che può favorire un percorso di riscatto, e la pseudo-colpa in cui il
soggetto non ha chiarezza della responsabilità di ciò che gli viene imputato: da
quì deriva il “senso di colpa” e la difficoltà a districarsi per poter giungere ad un
giudizio liberatorio. Infatti spesso non è chiaro se il rimorso per la colpa
commessa può diventare senso di colpa e condanna di sé o se è il senso di
colpa ad indurre a commettere delle colpe che a loro volta incrementano il
rimorso. Ciò può accadere anche per una mancata verifica, confronto,
confessione, presa di consapevolezza e di responsabilità del fatto commesso e
un mancato lavoro di cambiamento.
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Nel terzo capitolo è approfondito l’aspetto del perdono dal punto di vista
religioso e il suo influsso sociale e personale come bisogno di perdonare e di
essere perdonati.
Il perdono di sé richiede un percorso impegnativo, ma è indispensabile per
la felicità personale e per la pace sociale: dove non c’è perdono di sé non c’è
perdono degli altri e dove non c’è perdono c’è vendetta.
Nei dizionari della lingua italiana il perdono è definito tra l’altro come:
”Gesto umanitario con cui si rinuncia a ogni forma di rivalsa, di punizione, di
vendetta nei confronti di un offensore.” La vendetta è definita come: “Offesa
morale o danno materiale arrecato ad altri per ottenere soddisfazione di un’offesa
o danno subito”.
Nel quarto capitolo è approfondita la necessità per l’educatore di essere
consapevole del bisogno di perdonare sé e sono analizzate le conseguenze che
da questo derivano rispetto all’educando.
Questo lavoro di consapevolezza, se è auspicabile per ogni adulto che
abbia responsabilità educative, diviene indispensabile nel lavoro professionale
dell’educatore. Solo così infatti potrà aiutare l’educando a compiere il percorso
che lui stesso ha fatto, evitando di farlo, inconsapevolmente, oggetto delle
proprie problematiche irrisolte, dovute ad una personalità non in pace con se
stessa, da cui non ultimo discende il problema del “burn-out”.
Il quinto capitolo svolge il lavoro sulle interviste. A fronte della complessità
e della poca, spesso contraddittoria, conoscenza trasmessa dalla cultura in
generale dell’argomento trattato, ho ritenuto utile limitare l’indagine alla
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conoscenza degli aspetti più facilmente e normalmente vissuti da persone che
hanno un basso livello di depressione o di nevrosi.
Come evidenziato dalla letteratura psicologica e constatato nell’approccio
dei soggetti a cui ho proposto di collaborare all’indagine, la presenza di
consistenti problematiche psicologiche e relazionali impedisce alla persona un
affronto razionale e quindi realistico della possibilità non solo di perdonare, ma
anche di porsi un problema che interessa la totalità della persona nei suoi risvolti
affettivi, cognitivi e psicologici, con i quali affronta il rapporto con la realtà e con
se stessa.
Credo che tale difficoltà abbia la sua radice in una scarsa consapevolezza
sulla convenienza del perdono, scarsamente diffusa dalla cultura del benessere e
quindi poco incidente sulla mentalità, nella normalità del vivere attualmente
prevalentemente edonistico, che spesso privilegia la sopraffazione dell’altro per
un egoistico benessere individualistico immediato.
Ciò non toglie, invece, che la possibilità di perdonare sé e quindi gli altri
sia reale e il suo percorso, anche se lungo e oneroso, attuabile, come cerco di
dimostrare attraverso il lavoro svolto.
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1° CAPITOLO
Il tema del Perdono negli studi psicologici
Come accennato nell’introduzione, il tema del perdono è stato
ampiamente affrontato dalle diverse correnti di studio psicologiche sotto
molteplici aspetti che vanno dallo studio delle cause del non perdono degli altri
come ad esempio, l’eccessiva auto valutazione dei narcisisti che si reputano
“intoccabili”, ai fattori che favoriscono l’attuazione e la possibilità di perdono come
il chiedere scusa del colpevole, riconoscendo la responsabilità del danno
arrecato e la necessità di un risarcimento.
In ”Perdonare” di C. Regalia, G. Paleari (pag. 124-125) si precisa che:
“..sono molteplici le esperienze che mostrano come offese, violenze e soprusi
compiuti possono sortire un effetto dirompente e mettere in moto un processo di
rivisitazione di sé. Promuovere l’autoperdono significa promuovere cambiamento.
Tale processo può, con effetto a catena, investire l’intero mondo psichico e
relazionale della persona e portare a vere e proprie conversioni, ossia, come dice
l’etimologia del termine, a un cambio di prospettiva radicale su di sé e sul
mondo”.
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Il fatto che possa esserci una convenienza è un aspetto interessante che
può condurre con più facilità all’atto del perdono, sia da parte del trasgressore
che da parte della vittima.
Come dimostrano le ricerche di M. Fisher, J. Exline (2006): “I dati
suggeriscono che un’accettazione di responsabilità, soprattutto se accompagnata
dalla consapevolezza che il perdono di sé richiede un impegno, servirà come
pronostico di atteggiamenti prosociali. Nelle trasgressioni interpersonali chiedere
scusa e sapersi perdonato, assume per il colpevole il vantaggio di liberarsi dal
disagio provocato dal senso di colpa, riconciliandosi con il mondo dei propri
rapporti e con se stesso”.
Se per atteggiamenti prosociali s’intendono umiltà, assunzione di
responsabilità, rimorso, confessione, chiedere scusa, prima ancora che essere
esiti del perdono di sé, sono fattori indispensabili per dire la consapevolezza
raggiunta dal trasgressore. Questo lo può aiutare a raggiungere il giudizio utile a
sciogliere il senso di colpa e quindi a perdonarsi. Infatti quando ci si é perdonati
gli esiti di apertura verso gli altri sono evidenti.
Se umiliarsi fino a riconoscere la propria trasgressione, chiedere scusa e
risarcire la vittima può essere una decisione costosa per il colpevole e quindi
richiedere un lavoro su di sé, anche per la vittima della trasgressione è
necessario un lavoro non indifferente che comporta una crescita in umanità e
maturità, per acquisire la capacità di giungere ad un vero perdono.
In molti studi è sottolineata l’importanza del cambiamento di mentalità per
poter perdonare. In particolare nella ricerca della “Rational Emotive Behavior
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Therapy” (REBT) ”Curare la rabbia con il perdono potrebbe richiedere
riconciliazione”, Nel citato articolo, Robb H.B. esemplifica tale necessità
attraverso dialoghi avuti con i suoi pazienti così descritti: “ «Ma dottore come
faccio ad arrivare a perdonare e rinunciare alla mia rabbia?». Come per molte
cose i rebtiani vedono la risposta a questa questione come relativamente
semplice e lineare, ma l’attuazione non è cosi facile. Come Ray DiGiuseppe
(1999) fa notare, ‘la rabbia è una emozione morale. La rabbia riguarda l’essere
stato offeso e, come ho cercato di osservare, la "droga” che gli individui scelgono
di preferenza, sembrando loro giusta l’indignazione'. La mia tesi è sostenuta
anche da ricerche inter-culturali (DiGiuseppe & Tafrate, 2006), che mostrano che:
‘La rabbia è il sentimento, secondo solo alla gioia, che molte persone vogliono
continuare a sperimentare. Così, il perdono richiede la rinuncia a qualcosa da
cui gli individui sono spesso riluttanti a separarsi, ossia la propria rabbia’. Inoltre
DiGiuseppe (1999) sottolinea che le persone arrabbiate generalmente non
chiedono di essere curate, ma di avere dei consigli su come trattare chi li ha
offesi. Il rimediare ai torti piuttosto che perdonarli è generalmente la cosa di cui
più si interessano le persone arrabbiate, che siano i nostri clienti, nostri vicini o
noi stessi”.
Prosegue Robb H.B.: “Alla domanda: «Come faccio a perdonare e
rinunciare alla mia rabbia?», la tipica risposta dei praticanti della REBT è: «Primo
chiedi a te stesso tra le convinzioni a cui ti attieni quale o quali sono associate al
tuo disturbo emotivo o comportamentale» (...). Nel caso preso in considerazione
l’emozione, la rabbia e il comportamento disturbato possono essere
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generalmente caratterizzati come fissazione allo scopo di far pagare all’altro il
torto subito (fixing their wagon). Sia chiaro: lo scopo del perdono, come di altri
antidoti consigliati per tali disturbi dai REBT, è soprattutto quello di arrestare
qualcosa che è già in atto. Ellis sostiene la tesi che la convinzione associata al
disturbo principale è la pretesa: «Io gli altri e il mondo DEVONO (O NON
DEVONO) esistere». Ipotizza che altre convinzioni derivino da questa
convinzione centrale”.
Relazione tra perdono e sanzione
G. Contri nella “Conversazione XIII” (Ed Sic. Milano) afferma che: “Per
capire cosa sia il perdono, occorre cogliere qual è la prima sanzione. Essa
coincide con la prima parte della frase: «Allattandomi, mia madre…»: la prima
sanzione è la soddisfazione imputata senza alcun merito a me neonato. Può
capitarmi anche da adulto. Il trattare qualcuno come soddisfacibile, piccino o
grande che sia – e noi diciamo che trattare qualcuno è trattarlo come
soddisfacibile, ossia trattarlo come corpo – è trattarlo come sanzionabile: ti
imputo la soddisfazione. La rivelazione cristiana dice: «… per i meriti di Cristo»,
cioè esattamente ciò che succede nella prima parte della nostra frase. «La
salvezza per i meriti di un altro» è precisamente un’applicazione di questa legge
venuta in mente a Dio. È il trattare come sanzionabile e come soddisfacibile
senza che ancora vi siano da parte del destinatario, così trattato, le azioni da
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imputare. Il bambino non ha compiuto alcuna azione per essere imputato della
soddisfazione. Non sta pre-scritto da nessuna parte che il bambino sarà
necessariamente trattato così e proprio gli handicappati o la psicopatologia più
precoci ci dimostrano che è realmente possibile che il bambino non sia trattato
secondo il bonifico di questa imputazione.
Cosa c’entra con il perdono? In fondo la sola obiezione che si possa
muovere alla parola perdono è che sia priva di significato. «Bisogna o non
bisogna perdonare?», «Si deve o non si deve perdonare?». Così impostata la
questione è fasulla né può essere posta, perché perdonare non è un dovere. Se
è, è una facoltà, la facoltà dell’onnipotenza. Uno che può perdonare può
letteralmente essere qualificato come onnipotente. Di costui si potrebbe dire
come di uno che abbia una bella auto: «Beato lui che può». Forse c’è il poter
perdonare, ma non si dà il caso del dovere.
Perdonare è quel trattamento – dunque reale – che, senza implicare in sé
il minimo sconto o annullamento di pena, tratta un soggetto riportandolo alla
condizione della prima imputazione, ossia un soggetto cui la soddisfazione è
imputata. Il perdono così concepito non è solo non abdicazione al giudizio, ma
addirittura l’unica esaltazione del giudizio, perché è riportare il reo al giudizio: a
quel soggetto si domanda che il giudizio stesso sul proprio essere reo sia suo,
fino al sapere perché sia reo. In questo senso il perdono non rinuncia a essere
esigente, ma è super-esigente rispetto al reo.
La concezione cristiana del Purgatorio è questo: avere ancora un po’ di
tempo per passare al giudizio. Per questo il Purgatorio non è affatto un bagno
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penale alleggerito. Il perdono è dunque il massimo del giudizio, il massimo della
sanzione, come si dice che la pena di morte è il massimo della pena”.
Ciò non significa che sia facile, anche volendolo e desiderandolo per sé e
per gli altri, giungere a perdonare, come ciascuno può, chi più chi meno, aver
sperimentato nei propri rapporti.
Prosegue infatti G. Contri: “Non esiste il dovere di perdonare, non
foss’altro che perché per perdonare bisogna esserne capaci. Così come non si
può fare dovere a nessuno di volare; volare è una facoltà, così come dire: «Alzati
e cammina!»: occorre averne il potere. Non serve a nulla farne un dovere.
Esattamente come non è un dovere l’amore”.
La convenienza del perdono
Come si ottiene tale “Potere”, capacità di perdonare? Esso sta nell’essere
giunti alla capacità di giudicare la convenienza di non chiudere l’universo dei
rapporti con quella persona che, anche se in modo doloroso, ho incontrato sul
mio cammino, escludendola dal mio rapporto o, peggio ancora, odiandola per il
male che mi ha fatto, riducendo così anche la mia umanità. E’ quindi, come
sostenuto da R.Colombo in “Ipsa Dixit - Imputabilità individuale e universo della
colpa” (Lezione dello Studium Cartello) una questione di:
“....vantaggio “economico” di possibilità di rapporti e di un di più di umanità
che si estende al colpevole ed assume una utilità universale. E’ collaborare con
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Cristo alla redenzione dell’uomo, non accusando ma giudicando fino alla libera
decisione di contribuire al pagamento delle conseguenze della colpa dell’altro”.
Perdono di sé e degli altri nel narcisismo e nel senso di colpa
Nella ricerca di P. Strelan,” Chi perdona se stesso, gli altri e le situazioni? I
ruoli del narcisismo, del senso di colpa, dell’autostima e della gradevolezza”
(2007), che mette in evidenza in particolare il senso di colpa e il narcisismo nel
perdono di sé, degli altri e delle situazioni, è evidenziato come, da parte del
narcisista, sia ambigua la capacità di perdonare sia gli altri che se stesso. In
questo caso diviene perciò precaria una modalità di rapporto che renda possibile
un “vantaggio economico” di rapporti più umani.
Strelan P. sottolinea (op cit 2007): “Il perdono di sé comporta il
riconoscere, l’accettare la propria responsabilità per un’azione che ha fatto male,
superando un sentimento negativo nei propri confronti, arrivando a rispettare di
nuovo se stesso, portando a piacersi nuovamente.”... “Il narcisismo e il senso di
colpa sono gli aspetti messi a fuoco in questa ricerca proprio per la loro capacità
potenziale di differenziare tra i tre tipi di perdono. I narcisisti sono più preoccupati
per il proprio benessere mentre gli individui che soffrono di senso di colpa
tendenzialmente sono più preoccupati per il benessere altrui”
Gli esiti della sopraccitata ricerca affermano che: ”Come si prevedeva, c’è
un legame positivo tra il narcisismo e il perdono di sé, mentre il rapporto con il
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senso di colpa è negativo. Questo è stato il primo studio ad esaminare il rapporto
potenziale tra il narcisismo e il perdono di sé. Il risultato per il senso di colpa è
invece coerente con ricerche precedenti (Zechmeister & Romero, 2002). Sembra
che gli individui che provano un insieme di ansietà, tensione, rimorso e rimpianto
in seguito al torto fatto siano più facilmente portati a punire se stessi.
Il risultato per il narcisismo è meno chiaro. Quando si tiene conto della
vergogna e dell’autostima, il senso di colpa mantiene un rapporto significativo
con l’autoperdono, ma non con il narcisismo. Il rapporto tra l’autostima e il
narcisismo non stupisce dato che la componente narcisista del “self-serving” dà
importanza all’amor proprio o a un senso elevato di autostima. Perciò, sebbene
la promozione di sé, potrebbe essere implicata nell’autoperdono, può darsi che la
chiave dell’autoperdono sia data più da una percezione di sé positiva, mentre il
senso di colpa potrebbe costituire una barriera.
Inoltre non è chiaro fino a che punto i narcisisti facciano ricorso al
meccanismo definito “self-serving” quando perdonano se stessi. Nel perdono di
sé il soggetto assume anche la responsabilità per il ruolo giocato in un’azione
che ha provocato male, sofferenza, mentre nel “Self-serving” questa
responsabilità non è assunta. Poiché i narcisisti hanno un senso esagerato della
propria importanza, si potrebbe sostenere che non sono capaci o non sono
disposti ad accettare la responsabilità di aver fatto male agli altri (o a se stessi),
quindi essi stanno usando ciò che fa loro comodo, quando dicono di perdonare
se stessi”.
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Ciò può compromettere oltre ad un reale perdono di sé, la costruzione e il
mantenimento di rapporti economicamente “convenienti”.
“Le false trasgressioni”
Una ulteriore difficoltà intravista da B. Flanigan in “Perdonare se stessi”
(pag. 37 e seg.) nella possibilità di un reale perdono di sé è dato da:
“Le false trasgressioni e il senso di colpa che le accompagna possono essere
invalidanti e chi cerca di “perdonarsi” per esse si trova in difficoltà perché anche il
perdono di sé è falso. In presenza di false trasgressioni, non c’è nulla di cui
essere perdonati e niente di cui perdonarsi. Cosi come i falsi limiti non sono
evidenti agli estranei, le false trasgressioni non sono ovvie agli altri perché
niente di male è stato compiuto (in realtà c’è stata violenza morale e inganno,
nascosti da buone intenzioni). I falsi limiti e le false trasgressioni, sono definiti da
una sola parte del rapporto, non da entrambe. Una parte comincia a dettare i
termini morali del rapporto invece di negoziarli con l’altra parte”. (Il corsivo è mio)
E’ un esempio dell’inganno perpretato attraverso un ricatto affettivo al
bambino che non è in grado di difendere il proprio pensiero di convenienza. Ciò è
evidente nell’esempio riportato dalla B. Flanigan (op. cit. pag .39) in cui il figlio
non riesce a perdonarsi di avere lasciato, facendosi una vita indipendente, la
madre che per tutta la vita aveva avuto più attenzioni per i propri cani che per il
figlio:
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