Il teatro tra ‘800 e ‘900
“Io considero l'Autore di una razza assai più elevata dell'Attore. Anche se l'attore è
Zacconi e l'autore XY. Per me, gli architetti valgono più dei calzolai. Ci fu un Ronchetti,
milanese, calzolaio di Napoleone che pare avesse un'abilità da sbalordire; gli hanno dedicata
una piccola piazza. E ci sono degli architetti i quali tiran su delle case in stile floreale che,
quando non rovinano, danno il mal di pancia. Non importa. Gli architetti sono di una razza
più elevata dei calzolai. Chi crea è di una razza superiore a chi eseguisce.”
1
Questa citazione
restituisce bene l’aria che si respirava nel teatro italiano al momento in cui il giovane Sergio
Tòfano iniziava nel 1909 a calcare le scene nella compagnia di Ermete Novelli. Erano quegli
gli anni di passaggio dal vecchio teatro ottocentesco all’italiana, basato sulle compagnie di
giro divise in ruoli sostanzialmente rigidi e dirette da un capocomico primo attore e direttore,
ad un teatro fondato sulla centralità di testo e regia (cosa che si realizzerà pienamente solo
dopo la Seconda guerra mondiale col primo vero Teatro stabile d’Italia, il Piccolo di Milano).
Tòfano vive i suoi anni di apprendistato in questo clima, conoscendo e vedendo scomparire
insieme figure che fino a quel momento avevano fatto la storia del teatro come il trovarobe, il
suggeritore, il servo di scena, il capocomico ed in particolare il “grande attore”.
A cavallo tra i due secoli da più parti vengono messe in discussione le fondamenta
stesse del teatro italiano, considerate antiquate e non più rispondenti alle moderne esigenze di
una nazione che si stava avviando verso una progressiva industrializzazione. Non è questa la
sede per un approfondimento di tale tema, però è bene ricordare come quest’Italia
primonovecentesca industrializzata fosse in realtà un Paese ancora fortemente contadino; la
1
M. Praga, Carteggio Marco Praga-Sabatino Lopez , in “Il dramma”, dicembre 1958. Corsivo dell’autore.
Citazione da G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento ,
Milano, Mursia, 1989, p.130.
vera trasformazione avverrà assai più tardi, negli anni del cosiddetto boom economico. E’
innegabile però che una mentalità industriale si sia aperta un varco nell’Italia giolittiana e che
tale mentalità abbia finito per condizionare il mondo della cultura e di conseguenza quello
del teatro.
Sino alla fine del secolo XIX il teatro italiano si era basato su tre pilastri: compagnia,
impresario ed agenzia teatrale 2
. In realtà è il primo elemento quello fondamentale,
impresario ed agenzia teatrale erano in fondo ruoli, seppur importanti, che ruotavano attorno
alla compagnia capocomicale, vale a dire retta da un capocomico. Il capocomico era difatti
colui che dava il nome alla compagnia, si occupava delle scritture, decideva i testi, pagava
attori e teatri e se l’impresa andava male ci rimetteva di tasca sua 3
. Inoltre alle prove era lui
che si occupava della direzione degli attori, anche se non si può (con la sola eccezione di
Talli) parlare di un vero e proprio regista, in quanto spesso le indicazioni si limitavano ad
entrate, uscite, posizioni e poco altro. Benché non fosse questa la prassi più diffusa, capitava
che alcuni capocomici, la Duse 4
ad esempio, non provassero con la compagnia ma per conto
proprio e che si riunissero agli attori solo all’ultimo.
Oggi tutto ciò che concerne una rappresentazione (ovviamente la recitazione degli
attori, ma anche le luci, la scenografia, le musiche, i costumi, ecc.) deve essere approvato dal
regista, è lui il vero artefice dello spettacolo. Al contrario nell’Ottocento ogni attore doveva
provvedere al proprio costume, le scenografie e gli oggetti venivano il più possibile
riutilizzati in quanti più spettacoli possibile ed infine i mobili erano generalmente affittati sul
posto al fine di limitare i costi degli spostamenti da una città all’altra. I giovani attori, per la
2
cfr. R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento (VI ed.), Bari, Laterza, 2002.
3
In realtà esistevano anche le compagnie nelle quali i rischi economici erano sopportati da tutti gli attori che
possedevano una quota del capitale sociale. Cfr. R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento , cit., p.
13.
4
cfr. C. Molinari, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli (II ed.), Roma, Bulzoni,
1987.
maggior parte figli d’arte, imparavano il mestiere in anni di osservazione attenta, non in
scuole apposite; infine nessun attore sentiva il bisogno di rispettare fedelmente un testo
percepito come semplice materiale da piegare alle proprie esigenze di recitazione. In questo
contesto non deve stupire il fatto che i primi attori, spesso anche capocomici, avessero il
diritto di tagliare le scene nelle quali non erano presenti, oppure di ridimensionare gli altri
personaggi a proprio vantaggio. Quando ciò accadeva gli attori scritturati non avevano
possibilità di far valere le loro ragioni in quanto le compagnie erano divise in ruoli che
determinavano un ordine gerarchico assai preciso: dal primo attore (o prima attrice) sino al
generico, passando per il brillante, il caratterista, l’attor giovane, ecc.
L’assegnazione del ruolo era dovuta certo alla bravura dell’attore, ma anche a
questioni prettamente fisiche (e in parte d’età); Tommaso Salvini ad esempio fu il prototipo
del primo attore, bello, imponente e con una voce decisamente energica. Con gli anni un
attore poteva passare dal ruolo di generico sino a quello di primo attore per poi giungere alla
vecchiaia come padre (o madre) nobile; anche se alcuni non si rassegnavano al trascorrere del
tempo ( famosa l’interpretazione di Amleto nel 1890 da parte di un sessantatreenne Ernesto
Rossi)
5
. Inoltre i ruoli avevano una funzione normativa all’interno dell’organizzazione
teatrale. Era attraverso di essi che si scritturavano gli attori, si davano le paghe, si
sceglievano i copioni, si creavano le gerarchie nella compagnia ed ogni attore poteva
“inserirsi all’interno della tradizione del linguaggio usato, di confrontarsi con chi nella storia
del teatro ha recitato segnandolo con il proprio tratto [e] maturare così una propria
personalità artistica” 6
.
Tutto ciò era possibile perché al centro del teatro vi era l’attore, o meglio, il grande
5
cfr. D. Orecchia, Il sapore della menzogna. Rossi, Salvini, Stanislavskij: un aspetto del dibattito sul
naturalismo , Genova, Costa e Nolan, 1996, p. 71.
6
D. Orecchia, Aspetti d’organizzazione e percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli alla Compagnia del
Teatro Argentina di Roma , in “L’asino di B. Quaderni di ricerca sul teatro e altro”, n. 6, gennaio 2002, pp. 28-
29.
attore. I drammaturghi erano abituati a collaborare assiduamente con gli attori ed a seguirne
scrupolosamente la volontà. A questo proposito è significativo il rapporto tra Adelaide
Ristori e Paolo Giacometti per la Maria Antonietta del 1867. L’attrice infatti, dopo aver
commissionato personalmente il dramma, non si contenta di fornire alcune indicazioni di
massima all’autore per poi attendere pazientemente il risultato finale, ma interviene
continuamente “prodigandosi con indefessa lena a suggerire nuovi spunti ed a proporre nuovi
personaggi che, affastellandosi disordinatamente nella memoria dell’autore ed
ottenebrandone la consapevolezza critica, gl’impediscono l’approfondimento dei motivi nei
quali dovrebbe articolarsi il lavoro” 7
. Gli autori come Giacometti dunque non erano
drammaturghi di compagnia come lo fu Shakespeare, ma semplici artigiani pronti ad
accogliere ogni esigenza, richiesta o capriccio, del proprio committente. Essi in fondo
dovevano fornire una semplice materia prima ancora tutta da rimodellare sulla scena. Ed
anche quando si rappresentava un testo “classico” non ci si preoccupava troppo del suo
rispetto letterale; Tòfano ricorda come Novelli tagliò totalmente l’ultimo atto del Mercante
di Venezia poiché Shylock non vi compare. In questo caso però il titolo dello spettacolo era
stato modificato in Shylock (dal Mercante di Venezia di Guglielmo Shakespeare)
8
.
I testi generalmente più apprezzati dai capocomici italiani erano le pochades francesi,
comprate a poco prezzo da impresari, come il torinese Re Riccardi, i quali per risparmiare
qualche lira si servivano di traduttori che, poiché il francese lo sapevano per sentito dire,
rendevano “fermez la porte!” con “fermate la porta! ” o “ tout le monde ” con “ tutto il
7
cfr. E. Buonaccorsi, L’arte della recita e la bottega, Indagini sul “grande attore” dell’800 , Genova, Bozzi,
2001, p. 145.
8
“Ma un giorno, chi sa come, per distrazione di un tipografo probabilmente, le parentesi caddero e da allora i
manifesti annunziarono la tragedia Sylock dal Mercante di Venezia che facevano piuttosto pensare a una visita
di cortesia del facoltoso ebreo allo sventurato Antonio” cfr. S. Tòfano, Il teatro all’antica italiana, e altri scritti
di teatro , a cura di A. Tinterri, Roma, Bulzoni, 1985, p. 91.
mondo ” 9
. Un sistema tale veniva accettato in quanto si aveva necessità di proporre le novità
francesi, allora assai alla moda, al pubblico italiano pochi giorni dopo il loro debutto a Parigi.
Era cioè necessario battere la concorrenza sul tempo piuttosto che sulla qualità della
traduzione (e dunque, seppure indirettamente, del testo); anche perché la vera qualità
richiesta dagli spettatori era quella della recitazione. Su tale predominanza della
drammaturgia straniera, e francese in particolare, si dovrà tornare in seguito.
Alfiere della campagna contro il “grande attore” fu Silvio d’Amico, il quale si rese
portatore di un’idea ancora oggi maggioritaria nella comune opinione su ciò che dovrebbe
fare una compagnia teatrale: mettere in scena (o rappresentare, i termini sono entrambi
significativi) un testo il più fedelmente possibile. Testo che, neanche a dirlo,
indipendentemente dalla sua reale qualità ha il potere di nobilitare come “poeta” il proprio
autore. Consapevole della necessità di modificare la mentalità di chi poi avrebbe agito
concretamente in teatro, d’Amico volle creare, assieme ad una nuova generazione di attori,
una prima generazione di registi, garanti del volere dell’autore del testo. A tale intento egli
dedicò buona parte dei suoi sforzi, coronati della trasformazione nel 1936 della Scuola di
Santa Cecilia in un’Accademia d’Arte drammatica (oggi a lui intitolata), nella quale “gli
allievi, che ne sian capaci, imparino non solo a eseguire, ma anche a dirigere; che si educhino
all’intelligenza, alla sensibilità, al gusto di estrarre da un testo l’azione teatrale, e metterla in
rilievo, e curarla e rifinirla” 10
.
Ma la fondazione di una scuola specifica per attori e registi è in fondo l’estrema
conseguenza dell’incessante lavoro critico e teorico di d’Amico contro quei comici che
“tendono a considerare il testo dell’autore come un pretesto, come spunto da cui ricaveranno
9
cfr. S. Tòfano, Il teatro all’antica italiana, e altri scritti di teatro , cit., p. 47.
10
S. d’Amico, Il tramonto del grande attore , Firenze, La casa Usher, 1985, pp. 33-34.
un’altra opera , tutta loro personale” 11
in favore invece di quelli che “s’ingegnano di
trasmettere allo spettatore, il più fedelmente che possono, quanto l’autore ha voluto.”
12
Ora, se il “poeta” diviene il vero autore in teatro, è ovvio che l’attore si debba
sottomettere ad un testo del quale deve semplicemente essere tramite verso il pubblico; allo
stesso modo risulta necessario uno sguardo esterno (il direttore) garante del rispetto delle
intenzioni dell’autore. Corollario di ciò è l’abolizione dei ruoli in favore della “compagnia di
complesso”, nella quale non esiste un ordine gerarchico fisso e le parti vengono distribuite
(dal direttore ovviamente) secondo le caratteristiche di attori e personaggi. D’Amico stesso,
pur non parlando qui esplicitamente di compagnia di complesso, affermava che “se la
personalità dell’interprete è fatalmente discorde da quella del poeta, non c’è altro da fare che
cercare la più affine, o la meno discorde” 13
. Ovviamente una distribuzione delle parti
secondo tale criterio risultava quasi del tutto impraticabile nel teatro d’attore ottocentesco.
Quasi impraticabile perché i testi venivano scelti dal primo attore (o dalla prima attrice)
secondo le sue personali esigenze e caratteristiche. In questo caso, forse, si può parlare di una
corrispondenza attore/personaggio. Corrispondenza dettata però sia dal fatto che molti
personaggi, come abbiamo appena detto, venivano modellati sotto le direttive dei comici, sia
dalla capacità di questi ultimi di piegare le battute alle loro specifiche poetiche d’attori.
Nonostante vengano spesso utilizzati come sinonimi, i termini “grande attore” e
“mattatore” indicano due fenomeni tra loro certamente simili, ma non identici. Entrambi
infatti si riferiscono ad un attore “signore assoluto e unico della scena che sottomette a sé, da
una parte, tutti i codici spettacolari e, dall’altra, gli spettatori stessi, chiamati a partecipare a
11
Idem , p. 22.
12
Ibidem . Corsivi dell’autore.
13
Idem , p. 24.
un rito di autoproiezione e di identificazione col personaggio incarnato dall’attore” 14
.
Stilisticamente i grandi attori della generazione successiva a Gustavo Modena (Salvini, Rossi
e la Ristori su tutti) incarnavano una romantica smisuratezza di passioni e sentimenti
coniugata però con il reale, o meglio con un “vero ideale o moltiplicato” 15
. Negli ultimi
trent’anni del secolo, parallelamente all’imporsi del Naturalismo anche a teatro, al declinare
della prima triade di grandi attori ed all’affermarsi della nuova generazione, il termine grande
attore sfuma in “mattatore”, il quale “deriva dal verbo spagnuolo matar, che significa
ammazzare. E infatti in una compagnia drammatica ha lo stesso effetto del divo o della diva
sulla scena lirica: soggioga il pubblico, lo conquista, lo vince, lo fa cosa sua” 16
. Il mattatore
incarna tutte le caratteristiche del grande attore, ma il suo cessa di essere un ruolo
esclusivamente teatrale per divenire anche un ruolo sociale; egli è infatti la perfetta
incarnazione di quell’individualismo coltivato dal Romanticismo prima, e dal liberalismo
poi, che tanta parte avrà nella storia sociale ed economica europea dalla fine dell’Ottocento
in avanti. Il mattatore è infatti imprenditore di una compagnia composta da scritturati, basata
interamente sulla sua persona, l’unica veramente determinante nella riuscita o nel fallimento
di un’impresa considerata spesso da un punto di vista esclusivamente economico.
Tornando alle richieste di modernizzazione del teatro, si può ancora dire che si stava
cercando di inserire nel contesto italiano la nascente figura del regista, anche se con
sostanziali differenze rispetto al suo omologo estero. Se infatti in Europa e Russia i primi
registi invocavano la loro libertà espressiva (si pensi ad Appia, Craig, o Mejerchol’d in
14
G. Livio, Il teatro del grande attore e del mattatore . In R. Alonge, G. Davico Bonino (a cura di), Storia del
teatro moderno e contemporaneo, vol. II. Il grande teatro borghese. Settecento-Ottocento , Torino, Einaudi,
2001, p. 611.
15
Idem , p. 612.
16
Dal Manuale della Lingua Teatrale (1909). In C. Palombi, Il gergo del teatro. L’attore italiano di tradizione ,
Roma, Bulzoni, 1986, pp. 180-181. Citazione da G. Livio, Il teatro del grande attore e del mattatore , cit., p.
613.
Russia), in Italia il regista (chiamato direttore sino agli anni ‘30
17
) viene invocato a garanzia
della libertà espressiva dell’ autore , non della sua 18
. Anche in questo caso d’Amico è molto
chiaro: “C’è quindi praticamente bisogno, almeno per loro [i drammaturghi], dei metteurs-
en-scène interpreti; di quelli cioè che pongono il loro amore e la loro gioia nel farsi tramite,
fedelmente, fra i poeti e il pubblico” 19
. Solo in seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, il
regista italiano si preoccuperà di dare la sua interpretazione del testo attraverso riscritture,
adattamenti, ecc.
All’interno di una tale organizzazione teatrale, non deve stupire se a chiedere a gran
voce che il testo fosse rispettato così come era stato scritto fossero gli stessi autori, decisi a
far valere finalmente i loro diritti (economici e artistici). Nel 1882 si era infatti costituita la
S.I.A. (Società Italiana Autori, oggi S.I.A.E.) col preciso scopo di scalzare i troppi copioni
stranieri, francesi soprattutto, dalle scene italiane e ridare vigore alla drammaturgia
nazionale. Nei primi anni però gli autori non ebbero la capacità di imporre le proprie
rivendicazioni ai capocomici e la S.I.A. rischiò addirittura di essere travolta da uno scandalo
interno. Infatti il direttore Giuseppe Soldatini ed il segretario Giuseppe Giacosa furono
accusati di aver comprato opere all’estero coi soldi della Società e di averle rivendute in
Italia a proprio esclusivo vantaggio; l’inchiesta interna fu condotta dal “drammaturgo-
ragioniere” 20
Marco Praga che, in virtù delle capacità dimostrate, fu nominato nuovo
direttore della Società Italiana Autori.
Praga (direttore dal 1896 al 1912 e presidente dal 1916 al 1919) in breve tempo risanò
17
B. Migliorini, Varo di due vocaboli , in “Scenario” n. 1, febbraio 1932, p. 6. L’intervento venne
successivamente ripubblicato in B. Migliorini, Saggi sulla lingua italiana del Novecento , Sansoni, Firenze,
1963, pp. 251-257.
18
Sulla libertà interpretativa del regista nella prima del ‘900 si veda G. Livio, Nasce l’industria teatrale in
Italia: il regista contro l’attore , cit.
19
S. d’Amico, Il tramonto del grande attore , cit., p. 28. Corsivi dell’autore.
20
A. Barsotti, Un drammaturgo-ragioniere a capo della S.I.A.: il «caso Marco Praga» , in “Il castello di
Elsinore”, a. XV, n. 43, 2002, p. 76.
un bilancio deficitario e trasformò la S.I.A. in un organismo capace di imporre alle
compagnie sia l’obbligo di un permesso scritto per la rappresentazione di qualunque testo
italiano contemporaneo, sia la compilazione di precisi borderaux, dai quali poi venivano
calcolate le percentuali dovute agli autori. Ciò che Praga non riuscì ad ottenere fu invece il
controllo del mercato delle commedie straniere, saldamente in mano all’impresario Re
Riccardi. Questi comprava, “per così dire a peso , all’ingrosso” 21
, la maggior parte delle
commedie francesi importate in Italia, per poi rivenderle ai capocomici italiani costringendoli
ad acquistare in blocco testi più o meno validi. Sebbene ciò possa sembrare un ricatto da
parte di Re Riccardi, le compagnie non lo percepivano affatto come tale; infatti quando, il 27
settembre 1903, Praga fece approvare la cosiddetta Delibera dei venti , nella quale si
imponeva che tutti i drammaturghi, italiani e stranieri, fossero amministrati dalla S.I.A., i
capocomici (Virgilio Talli, Ermete Zacconi, Irma Grammatica, Oreste Calabresi, ecc.)
pubblicarono su “Il Resto del Carlino” una lettera in difesa di Re Riccardi. Bisogna anche
dire che se la Delibera fosse rimasta in vigore, i capocomici avrebbero subito il danno di
dover modificare da un giorno all’altro gran parte dei loro repertori, basati appunto su
commedie comprate dall’importatore torinese 22
.
La S.I.A. del resto non riuscì mai ad assicurarsi nemmeno l’acquisto dei testi
all’origine, attraverso un accordo con l’omologa francese Societé des auteurs et des
compositeurs dramatiques , che volle lasciare liberi i propri iscritti di trattare singolarmente le
loro rappresentazioni estere. Re Riccardi pagava in anticipo ed a fondo perduto i
drammaturghi, i quali a loro volta gli concedevano il 50% dei loro futuri diritti d’autore; dal
canto suo la S.I.A. assicurava il 100% (detratto un 8-10% di commissione) dei diritti, ma in
21
R. Alonge, R. Malara, Il teatro italiano di tradizione . In R. Alonge, G. Davico Bonino (a cura di), Storia del
teatro moderno e contemporaneo, vol. III. Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento , Torino, Einaudi,
2001, p. 573. Corsivo dell’autore.
22
cfr. A. Barsotti, Un drammaturgo-ragioniere a capo della S.I.A.: il «caso Marco Praga» , cit.
ritardo, a rappresentazioni avvenute. Affidandosi alla S.I.A. gli autori avrebbero corso un
rischio decisamente alto, dato che una commedia avrebbe potuto non raggiungere mai il
palcoscenico, oppure venire talmente tanto fischiata dal pubblico da essere accantonata
subito dopo la prima rappresentazione. In entrambi i casi addio diritti. Al contrario Re
Riccardi, ben sapendo che ogni suo testo avrebbe raggiunto il palcoscenico (i capocomici
avevano tutti gli interessi a rappresentare un testo che volenti o meno avevano comprato),
pagando in anticipo compensava ai drammaturghi francesi il pericolo di mancati guadagni
futuri. Tutto ciò ebbe ripercussioni anche sulla drammaturgia nazionale in quanto, come
spiega bene un anonimo contemporaneo ai fatti, accadde che “l’importatore, per ragionevole
difesa dei propri interessi, ostacolò ogni accenno di produzione indigena. Nel modo più
semplice: saturando le varie compagnie col proprio repertorio comperato in Francia, tanto
che esse non avevano né spazio, né luogo per dare i nostri lavori” 23
.
Se la S.I.A. nasce per la difesa degli autori italiani, e se tale scopo resterà immutato
nel tempo, è vero però che negli anni le motivazioni di tale difesa subirono (almeno
esteriormente) alcune modifiche. Nel 1882 infatti l’Associazione “non fece nemmeno troppo
dell’ideologia” 24
e dichiarò esplicitamente di voler difendere gli interessi economici degli
scrittori. Successivamente l’attenzione fu spostata dalle percentuali sull’incasso alla difesa
del poeta (vale a dire qualunque scrittore di teatro, a prescindere dalle capacità) e della
drammaturgia italiana contro l’attacco rispettivamente di capocomico e straniero. La S.I.A. in
tal modo utilizzò motivazioni artistiche e nazionaliste al fine di tutelare gli interessi
economici degli autori e la fedeltà al testo nella sua “messa-in-scena” 25
.
23
A. De Angelis, Dina Galli ed Amerigo Guasti. Vent’anni di vita teatrale italiana (II ed. ampliata), Milano,
Modernissima, 1923, p. 64. Citazione da R. Alonge, R. Malara, Il teatro italiano di tradizione , cit., p. 575.
24
G. Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento , cit., p. 128.
25
Ibidem .
Bisogna infine ricordare come il rafforzamento della S.I.A. provocò la nascita della
Lega di miglioramento fra gli artisti drammatici (1902), dell’Unione capocomici (1908) e nel
1910 dell’Associazione fra i proprietari ed esercenti i teatri di prosa ed operetta (ma il primo
congresso data 1905). Insomma, il processo di industrializzazione del teatro portò alla nascita
di quattro associazioni di categoria volte a tutelare i propri interessi economici e per questo
motivo assai poco inclini a scendere a compromessi 26
.
Esiste ancora un ultimo punto molto caro ai fautori del rinnovamento del teatro
italiano, vale a dire la questione della “stabilità” delle compagnie. Sin dai tempi remoti della
Commedia dell’Arte peculiare caratteristica delle compagnie italiane era stato il nomadismo
tra le città, più o meno importanti, della penisola. La tournée da sempre ha fatto (e fa tutt’ora)
parte della vita quotidiana di qualsiasi compagnia di prosa, data la necessità di guadagnare il
più possibile con ciascun allestimento in assenza pressoché totale di sovvenzioni statali. Ai
primi del Novecento le compagnie restavano anche una o due settimane in ciascuna città,
cambiando spettacolo ogni due o tre sere, riproponendo le commedie di maggior successo e
accantonando quelle “cadute” (come si diceva in gergo teatrale) anche solo dopo la prima
rappresentazione. Le tournées non si limitavano soltanto all’Italia, alcune compagnie
giravano anche per l’Europa, gli Stati Uniti ed il Sud America; il tutto ovviamente a carico
dei capocomici.
Al fine di liberare le scene dall’“ affarismo volgare , bestiale, che ne mina la dignità e
ne arresta lo sviluppo” 27
Di Martino nel 1901 domandava allo Stato di “dare alla Patria
26
Per una trattazione più particolareggiata delle lotte tra autori, capocomici, autori e proprietari di teatri cfr. A.
Barsotti, Un drammaturgo-ragioniere a capo della S.I.A.: il «caso Marco Praga» , cit. e D. Orecchia, Aspetti
d’organizzazione e percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli alla Compagnia del Teatro Argentina di
Roma , cit.
27
G. Di Martino, I nemici del teatro di prosa in Italia , in “Arte drammatica”, 1901. Ora in “Quarta parete”, n. 5,
1980, p. 43.
nostra il teatro stabile dell’Italia nuova” 28
. Se l’arte drammatica è in decadenza, la colpa va
ricercata anche nell’impossibilità degli uomini di teatro di dedicarsi all’arte perché oberati
dalle esigenze di botteghino. A sostegno di questa tesi Di Martino riporta i nomi di grandi
attori (Modena, Ernesto Rossi, Salvini, Emanuel, Zacconi, la Ristori, la Duse e molti altri)
che, a suo dire, potevano lavorare in tutta tranquillità perché pagati dai piccoli Stati nei quali
era suddivisa l’Italia prima dell’unificazione. Egli afferma infatti: “I capi delle compagnie
sapevano di contare su di un assegno certo e la loro mente poteva permettersi il lusso di
fissare certi problemi inerenti al teatro, e di svolgerli a vantaggio del teatro istesso” 29
. Tale
interpretazione del passato però si discosta dalla realtà, ben descritta da Modena in una
lettera al commediografo Giacinto Battaglia: “Per creare una buona Compagnia bisognerebbe
che avessi il teatro Re gratis, senza nessun peso di affitto, che potessi farvi agire i miei attori
due sole volte, tre volte per settimana, che avessi denaro da sciupare per prendere allievi a
dozzine, provarli, rigettarne gli inetti, e per aver agio istruirli. Questo è impossibile: dunque?
non ci pensiamo più” 30
. La tesi di Di Martino viene in tal modo demolita in poche righe; non
bisogna nemmeno dimenticare la forte ingerenza della censura e l’ostilità con la quale veniva
accolta, dai nobili protettori e dal pubblico, qualsivoglia innovazione. Si pensi, a tal
proposito, alle difficoltà incontrate da Modena nel proporre Shakespeare ad un pubblico che
da secoli ne aveva dimenticato, e non ne comprendeva, la grandezza.
La stabilità fu una delle innovazioni che più faticarono a mettere radici nella realtà
italiana. Vi furono infatti alcuni tentativi di formazioni di compagnie stabili, ma tutte
destinate al fallimento; si pensi per esempio alla doppia direzione Boutet-Garavaglia della
Compagnia Stabile Romana del Teatro Argentina, alla Stabile Milanese del Teatro Manzoni
28
Ibidem .
29
Ibidem .
30
T. Grandi, a cura di, Epistolario di Gustavo Modena , Roma, Vittoriano, 1955 p. 69. Citazione da G. Livio, Il
teatro del grande attore e del mattatore , cit., p. 615.
(fallita nel 1917) e, in epoca fascista però, al Teatro d’Arte diretto da Pirandello per soli due
anni (1924-1926)
31
. E ancora oggi, a fronte di un discreto sostegno statale, i Teatri Stabili
sono costretti a porre sul mercato delle tournées i propri spettacoli, come quelli di qualsiasi
altra compagnia privata, per poter rientrare dei costi di produzione e sopravvivere
economicamente. Ma se oggi in qualche modo lo Stato interviene a sostenere il teatro
(almeno quello ufficiale), ai primi del secolo scorso esso restava sordo alle richieste di
sostentamento in favore di una più tranquilla ricerca artistica. E’ per questo che privati
mecenati, come nel caso della Stabile Romana diretta da Boutet e Garavaglia, si pongono il
problema di finanziare di tasca propria formazioni teatrali votate alla stabilità in nome
dell’arte. Benché le intenzioni di fondo in questo caso fossero buone, non si può tacere il
fatto che lo spettacolo veniva in tal modo assoggettato ai gusti ed alle richieste dei
finanziatori, oltre che ovviamente a quelle del pubblico. La differenza fondamentale rispetto
alla compagnia ottocentesca risiede nel fatto che in quest’ultima erano i capocomici a
finanziare le sperimentazioni, decidendo sin dove fosse possibile spingersi ed accettando
eventualmente i fischi; ora sono invece persone esterne che, in virtù dei loro investimenti,
possono pretendere il loro legittimo guadagno influenzando in tal modo proprio quella libertà
artistica che dovrebbero tutelare. Anche se forse non era questa l’intenzione dei primi
mecenati, è però innegabile che un tale processo si sia messo in atto grazie a questa ennesima
sterzata verso la completa industrializzazione del teatro.
Prima di analizzare la figura di Virgilio Talli, capocomico e maestro di Tòfano, è utile
riassumere brevemente le istanze di modernizzazione del teatro: “1) abolizione del
«mattatore» e quindi, 2) abolizione dei ruoli; 3) innalzamento del copione a base dello
spettacolo su cui si imposta la 4) «compagnia di complesso» l’unica che abbia diritto alla 5)
31
cfr., R. Alonge, R. Malara, Il teatro italiano di tradizione , cit., pp. 606-620.
stabilità; e infine il 6) direttore «armonizzatore» del tutto che, possibilmente, non reciti ” 32
.
All’interno di tale temperie teatrale Talli riuscì a mediare tra le spinte volte al
rinnovamento e la ovvia resistenza di una tradizione che non intendeva cedere le armi senza
combattere. Egli lavorò dialetticamente tra il vecchio ed il nuovo, tra il “ruolo” ed il
“complesso”, tra le esigenze degli attori e quelle dell’autore ed infine tra l’economia e l’arte,
al fine di introdurre nel teatro un rinnovamento che fosse realmente tale. Detto in atri termini
egli mise in discussione il vecchio sistema senza però giungere alla sua completa abolizione.
Scritturava infatti due (o tre) attori per lo stesso ruolo oppure li portava a recitare in ruoli
diversi da quello nel quale si erano formati (ad esempio dal brillante al promiscuo). Talli
comprese la necessità di preservare, pur nella spinta al cambiamento, il “patrimonio
artistico” 33
del ruolo “come parametro della tradizione” 34
con la quale attori e direttore
erano di necessità chiamati a confrontarsi. Per lavorare in questi termini era ovviamente
necessaria una certa continuità di formazione della compagnia, cosa che egli cercò sempre di
realizzare, aiutato sicuramente dall’usanza della scrittura triennale per ciascun attore.
Saldamente ancorata alla messa in discussione dei ruoli fu la ferma decisione di Talli
di strutturare una compagnia di complesso, nella quale le parti venissero distribuite secondo
le esigenze del testo in rapporto alle caratteristiche degli attori (scritturati anche per più ruoli
contemporaneamente). Riferendosi alla Talli-Grammatica-Calabresi il capocomico scrisse:
“Non si tratterà insomma di una delle solite compagnie nelle quali gli artisti debbono servire
ciecamente una prima donna o un primo attore; ma di una compagnia che darà campo a
32
G. Livio, Nasce l’industria teatrale in Italia: il regista contro l’attore , in Minima theatralia. Un discorso sul
teatro , Torino, Tirrenia Stampatori, 1984, pp. 176-177.
33
D. Orecchia, Aspetti d’organizzazione e percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli alla Compagnia del
Teatro Argentina di Roma , cit., p. 33.
34
Ibidem .
ciascuno di incidere e di fare valere la propria forza” 35
. Come si è detto sopra, quello di Talli
con la tradizione fu un rapporto dialettico, dunque se è vero che le gerarchie vennero poste in
discussione, è anche vero che non furono annullate del tutto. Come le scritture secondo il
ruolo, esistevano ancora parti distribuite in osservanza ad una gerarchia di attori; gerarchia
che però divenne progressivamente permeabile ad aggiustamenti in rapporto ai personaggi ed
ai testi. Ad esempio ne La maschera e il volto di Chiarelli la parte del marito fu di Betrone,
primo attore della compagnia con tanto di nome in ditta assieme a Talli ed alla Melato,
mentre la parte dell’amante, nella commedia borghese pensata per il secondo attore o l’attor
giovane, venne affidata al brillante Gandusio (poi sostituito da Marcacci ed infine, nel 1919,
da Tòfano). E’ questa una messa in scena fondamentale per comprendere come le
innovazioni di Talli dal punto di vista organizzativo della compagnia siano saldamente
ancorate ad una particolare ricerca teatrale indirizzata verso il moderno, questo sì, teatro del
grottesco, nel quale “non più si ritrovano [...] quelle definizioni di umanità scenica
convenzionale che rispondevano ai ruoli stessi” 36
.
Per la verità Talli aveva inizialmente rifiutato La maschera e il volto ritenendola
“inadatta alla rappresentazione” 37
. Chiarelli però non demorde e scrive a Talli, sperando di
convincerlo a tornare sui suoi passi, che Praga aveva trovato il testo “molto originale ed
interessante ed oltre ogni dire divertente sì che poche volte in vita sua aveva riso tanto” 38
. La
vicenda è quella del classico triangolo amoroso borghese: il conte Paolo Grazia, pur
35
V. Talli, Lettera a Stanis Manca , Spezia 15, conservata presso la Biblioteca del Burcardo di Roma, Cartella
Virgilio Talli , sezione autografi, Fondo Stanis Manca. Citazione da D. Orecchia, Aspetti d’organizzazione e
percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli alla Compagnia del Teatro Argentina di Roma , cit., p. 27.
36
L. Chiarelli, I ruoli , in “Quinte del teatro di prosa”, 5 dicembre 1918. Citazione da D. Orecchia, Aspetti
d’organizzazione e percorsi di poetica sulla scena: Virgilio Talli alla Compagnia del Teatro Argentina di
Roma , cit., p. 33-34.
37
S. Lopez, Dal carteggio di Virgilio Talli raccontato da E. Roggero , Milano, Treves, 1931. Citazione da G.
Livio, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento , cit., p. 174.
38
Ibidem .