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Capitolo1. L’introduzione della CSR nel dibattito
contemporaneo
1.1 La Relazionalità dell’impresa
La Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI o Corporate Social Responsabiliy ,CSR) è una
tematica che viene legittimata e inquadrata dalla Comunità Economica Europea nel 2001 a
Lisbona con la presentazione del libro verde nel quale la CSR viene così definita:
” l’integrazione volontaria, da parte delle imprese, delle istanze sociali e ambientali nelle loro
attività e nell’interazione con gli stakeholder”. (libro verde, CEE, 2001).
Un primo aspetto di questa definizione è quello relazionale dell’azienda con i propri
stakeholder (portatori di interessi) che, storicamente individuati negli azionisti membri del
consiglio di amministrazione aziendale e portatori di interessi economici e di profitto, si
dilatano notevolmente passando dai dipendenti/collaboratori ed i loro rappresentanti (agenti
interni) sino a soggetti man mano più esterni con i quali l’azienda è chiamata a relazionarsi.
Tale dilatazione impone un’ Identità, e dunque una comunicazione (Cortini, 2005) nella quale
la valenza identitaria dell’azienda è soggetta alla negoziazione ed al riconoscimento del
proprio operato nei confronti delle attese degli stakeholder di riferimento. L’impresa viene
quindi riletta come parte di un sistema, che sia esso locale od orientato al globale, un sistema
di categorie professionali o di particolari categorie di soggetti pubblici, istituzionali, di
consumatori, e sempre più nella modernità in cui l’informazione globale si eleva ad elemento
cardine del processo democratico di scelta, l’impresa è agente coinvolto in più processi
relazionali in grado non solo di supportarne il business ed apportare valore aggiunto, ma
sempre più necessari a alla legittimità dell’azienda.
Nella società della globalizzazione e dell’informazione a complessità crescente (Giddens,
2009), tale relazionalità inclusiva di tutti gli interessi coinvolti, a valere per tutte le
organizzazioni e comportante l’adozione del principio di responsabilità come guida per le
scelte e le azioni (Perrini,Tencati, 2008; pag 14), diventa condizione essenziale e necessaria
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per l’organizzazione per cui non esistono più soggetti che traggono da se stessi la propria
“licenza a operare” (Perrini,Tencati, 2006; pag. 14).
L’incapacità di prevedere e identificare le richieste anche implicite dei vari portatori di
interesse può comportare significative ripercussioni sulla reputazione dell’organizzazione e
sulle sue potenzialità di sviluppo. L’impresa deve quindi superare la logica prettamente
economica della creazione di profitto e deve ripensare se stessa come membro di un sistema
dal quale attrarre le migliori risorse per garantire continuità e sviluppo alle sue attività di core
business e rispondere alle attese dei portatori di interesse in maniera coerente e consapevole,
nell’ottica di membro di una comunità, poiché la vera legittimazione sociale nasce
dall’interazione e dalla collaborazione tra impresa e stakeholder. Il concetto di capitale sociale
ossia “linsieme delle relazioni attive tra individui ispirate ai principi della fiducia,
comprensione reciproca, valori e comportamenti condivisi” (Lipparini, 2002), alla base dei
modelli imprenditoriali locali, è sempre più in grado di spiegare il successo o la caduta delle
grandi imprese. Facendo un salto indietro nel tempo, nella storia e nella tradizione dello
sviluppo socioeconomico Italiano ed Europeo, il distretto industriale può essere considerato
l’espressione embrionale di una piccola economia sociale di mercato, in cui la stretta
interrelazione tra piccole e medie imprese ed il territorio ha consentito lo sviluppo e la
crescita equilibrata di intere comunità. Così oggi a livello globale e, con la riduzione massiva
delle distanze, con la pervasività dei confini delle comunità favorite dalla ridondanza dei mezzi
comunicativi, le assonanze di tali esempi positivi locali ritornano attuali anche per l’operare
delle big corporate nazionali e multinazionali, che da “entità capitalistiche voraci di profitto”
sono sempre più attente alla produzione di un valore legittimato dal consenso e dalla fiducia
reputazionale che sono in grado di veicolare nello stakeholder network di riferimento (insieme
dei portatori di interesse con cui l’azienda di relziona). Cambia quindi il concetto di
generazione di valore: non più soltanto profitto e investimenti redditivi nel breve periodo, ma
valore allargato (stakeholder value); concetto di valore perseguito che superi la sola accezione
di carattere economico, ma che attraverso scelte strategiche in grado di remunerare gli
stakeholder a più livelli, miri ad instaurare un circuito virtuoso in cui fiducia e legittimità, valori
intangibili riconosciuti all’organizzazione ed al suo operare, possano garantire all’impresa un
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vantaggio competitivo ed una continuità nel medio e lungo periodo (Perrini, Tencati, 2008;
pag.21). Tali valori intangibili non si vendono a buon mercato; sono frutto di progressiva
conoscenza reciproca, di ascolto, di negoziazione tra attese e adempimenti e riformulazioni. L’
organizzazione deve impegnarsi seriamente in un nuovo percorso identitario e strategico
veicolato tramite una trasparente e puntuale comunicazione, in grado di rendicontare quali
siano le reali attività e quale l’operatività concreta messa in atto, facilitando l’adozione di
relazioni proficue e veritiere con gli stakeholders di riferimento ed in grado di veicolare
l’impegno dell’organizzazione in un continuo processo di innovazione e dialogo, finalizzato a
consolidare quelle che sono le best practise sostenibili e durature in grado di assicurare una
crescita sostenibile.
Le forme relazionali con cui l’azienda si interfaccia nel suo ambiente si vanno quindi negli
ultimi anni moltiplicando ed evolvendo; sempre più spesso le aziende adottano nella loro
gestione lo “stakeholder managment” che consiste nel gestire le scelte aziendali
propriamente di business, di prodotto, di servizio o di gestione tenendo conto di quelle che
sono o che potrebbero essere le richieste da parte dello stakeholder network; stakeholder
management che evolve poi nella forma dello “stakeholder engagement”, che consiste in un
più concreto e negoziativo coinvolgimento dei rappresentanti dei vari stakeholder nelle forme
di comitati decisionali, che le aziende coinvolgono direttamente nella valutazione delle
strategie, con margini di influenza decisionali maggiori (modello evolutosi in nord Europa che
nasce dall’invito dei rappresentanti dei lavoratori ai tavoli di gestione, e dalle forme di
proprietà evolute in queste nazioni). Fondamentale ed imprescindibile per le aziende quindi
orientarsi verso le categorie di portatori di interesse, ascoltare le diverse aspettative rivolte
all’organizzazione e tenerne debito conto per l’implementazioni delle azioni afferenti il
business aziendale, al fine di modellare e migliorare il profilo aziendale veicolato, accrescere
una reputazione aziendale positiva ed auspicata e supportare i valori che l’azienda intende
perpetuare e veicolare con il suo operato. In questa cornice in cui la relazione diviene “unità
base” per l’analisi e la visibilità dell’azienda, molta attenzione assume il processo di
comunicazione nel quale tutte le aziende sono coinvolte in maniera incessante, veicolo del
brand, della filosofia valoriale dell’azienda, dell’immagine sociale trasmessa, che in un
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mercato altamente concorrenziale si dimostra sempre più suscettibile nell’influenzare le
scelte dei consumatori nei processi di acquisto di prodotti o dei servizi, suscitando
l’identificazione e mirando a specifici target di clientela. Comunicazione che in ambito di
politiche di sostenibilità e Responsabilità Sociale d’Impresa, maggiormente richiede il rispetto
dei trasparenza e veridicità per evitare uno spiacevole effetto boomerang.
Quando parliamo di Responsabilità Sociale d’Impresa il range di tematiche e di
preoccupazioni cui ci riferiamo abbraccia le tematiche ambientali, le preoccupazioni verso lo
stato di salute del pianeta, le forme di giustizia e di equità sociale nelle relazioni lavorative
all’interno dell’azienda e intraprese dall’aziende nei confronti delle comunità territoriali e non
solo; tematiche e preoccupazioni sempre più ricorrenti ed attuali. L’attuale crisi dei consumi
acuitasi dal 2008 sembra aver accelerato una necessità latente di cambiamento culturale e di
riflessione sulla società, sull’economia capitalistica volta alla crescita economica, sul ruolo
delle imprese nel perseguire la crescita del profitto; Nuovi scenari con risonanza crescente,
entrano nei significati condivisi, nella vita quotidiana e chiamano l’individuo e le istituzioni
sociali a decifrare e a farsi carico di nuove problematiche sempre più necessarie e sempre
meno silenziose e marginali, che interessano ed interesseranno il prossimo scenario
socioeconomico. L’impresa è chiamata ad un impegno serio e responsabile circa l’innovazione
e l’attenzione che tali problematiche sociali ed ambientali richiedono. In questa nuova
sensibilità culturale che si và diffondendo, la concorrenzialità delle aziende, l’appetibilità dei
loro prodotti e servizi, si interseca alla reputazione ed alle azioni che queste sanno
implementare e veicolare agli stakeholders circa la sostenibilità dei percorsi intrapresi,
l’attenzione per il sociale e la tutela dell’ambiente. Si registra quindi un incremento
nell’utilizzo e negli investimenti nella comunicazione cosiddetta “green” e di carattere sociale,
nelle potenzialità interattive offerte dai new-media tramite il WEB, tramite i Blog di
discussione, i Klog (Knoledge Blog) tramite i quali è possibile accompagnare l’utente
attraverso percorsi tematici d’interesse nel web (Cortini, 2005), ma anche le azioni di
marketing sociale, le comunicazioni di carattere istituzionale e l’adozione di redicontazioni
come il Bilancio Sociale (GRI Linee guida europee) che consente di documentare quelle che
sono le politiche di sostenibilità e l’attenzione per gli impatti e le relazioni con la società, il
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territorio, i consumatori, i fornitori e l’ambiente, al fine di rafforzare la propria posizione
reputazionale e gli asset intangibili di conoscenza e fiducia (Perrini, Tencati,2008; pag 17).
Per molte organizzazioni però la comunicazione Sociale e green, l’adozione di iniziative di
sponsorizzazione di particolari e sporadici eventi, la promozione di cause di rispetto
ambientale, non sono altro che altre frecce nell’arco, strumenti per mirate campagne
circostanziali volte al conseguimento di facili immediati consensi, il cui fine è il sostentamento
del proprio business ed un facile ritorno in termini prettamente economici o poco più. Questi
falsi valori espressi presuppongono una vecchia e cinica, ormai obsoleta, visione di un
pubblico acquiescente, spettatore passivo che può essere manipolato tramite la pubblicità e le
strategie di marketing; visione in cui in cui l’individuo viene relegato al ruolo di possibile
agente economico, da conquistare con tattiche persuasive preconfezionate basate su logiche
vacue, insane e prive di lungimiranza. Il consumatore ed il pubblico cui le aziende si
interfacciano, diventano sempre più consapevoli delle reali problematiche socio-ambientale
veicolate dai media, e sempre più padroni e abili nella gestione e selezione delle informazioni
tramite proprio il WEB ed il moltiplicarsi dei servizi offerti dai media che consentono margini
di maggiore discrezionalità; ed inoltre in un momento di crisi come quello che si sta
attraversando, che impegna ciascuno a districarsi in un presente più problematico, lo stesso
pubblico assume una posizione più critica nel processo di scelta di acquisto e nel
comportamento di consumo. Per un’azienda che adotti una strategia prettamente tattica, non
supportata da reali e sistematici percorsi di sensibilizzazione, innovazione circa le tematiche
socio-ambientali e di sostenibilità, è concreto il rischio da un lato di diventare vittima del
crollo del suo castello di carta e dall’altro di contribuire ad alimentare il fenomeno del
“Greenwashing”: fenomeno di sfiducia che si genera nel consumatore e nella società in
riferimento al marketing non solo green, e che rischia di indurre un circolo vizioso a seguito
del quale le imprese e i brand mettano in secondo piano o, addirittura, rinuncino a proseguire
nei propri sforzi e progressi verso la sostenibilità e la sua comunicazione (Sagone, 2010;
pag.7).
La CSR quindi non come uno strumento da utilizzare al pari di altri strumenti di marketing e
suscettibile di essere messo da parte in momento di crisi come questo, tagliato come costo
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superfluo data la limitatezza delle risorse; ma CSR come un percorso pervasivo e trasversale di
ristrutturazione per l’organizzazione ,che favorisca un ripensamento della stessa come agente
relazionale che persegua il profitto e la crescita contribuendo al valore allargato della rete di
cui è parte coltivando relazioni instaurate sui principi di collaborazione, conoscenza e
responsabilità, che non si esauriscano quindi in un rapporto di tipo utilitaristico; CSR non
come filantropia estemporanea che richiami nel proprio operato il management al rispetto e
all’ispirazione dei principi etici di comportamento estemporanei, ma come percorso strategico
che investa la governance dell’organizzazione nei suoi scopi, nelle ragioni del suo operare e
che sempre più si orienti verso una promozione di crescita e di benessere sociale e nella tutela
ambientale.
1.2 I limiti del concetto di crescita economica, la necessità del cambiamento
E’ parere diffuso che la crisi economica nella quale ci troviamo, acuitasi con la crisi dei
consumi nel 2008, mostratasi al grande pubblico con il fallimento finanziario di Leman
Brothers che si è ripercosso a livello globale con la vertiginosa caduta delle borse e
prosciugato i risparmi di milioni di consumatori, non sia una crisi congiunturale dovuta a
particolari condizioni economiche transitive, ma una vera e propria crisi strutturale che
necessita di un cambio di paradigma culturale alla base, ed un ripensamento del modello della
crescita economica e delle sue dinamiche. La crescita economica e la rincorsa alla crescita dei
profitti e all’accumulazione di beni è oggi argomento dibattuto a più livelli nella società civile,
in un epoca dove forti sono gli squilibri della ricchezza internazionale e forti le pressioni
dovute allo stato di salute del pianeta terra. Molti sono i movimenti che criticano il mito,
sedimento culturale ereditato dalla cultura illuminista del progresso, motore delle rivoluzioni
industriali e del boom economico del secondo dopo guerra, per cui l’aumento di produttività,
la specializzazione dei processi produttivi, le possibilità offerte dai mercati internazionali e la
conquista di questi, le esternalizzazioni di produzione in paesi con più bassi costi della
manodopera, non siano più parametri di sviluppo attuali, accettabili, ma soprattutto
sostenibili. La crisi economica altro non è che la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un
ventennio in cui la crescita economica generale, misurata con il Prodotto Interno Lordo, ha
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visto registrarsi una progressiva recessione nell’aumento di ricchezza pro-capite a livello
Europeo, che se letta anche in virtù della diminuzione della crescita della natività dei paesi più
sviluppati fornisce un idea dello stallo che il sistema economico sta attraversando nell’ultimo
ventennio (Giampaolo Busso, 2010). Nel frattempo sempre più le questioni del
surriscaldamento del pianeta, la globalizzazione e la consapevolezza degli squilibri
internazionali della ricchezza, le problematiche sociali quali incertezza e precariato causate
dalle modifiche delle forme contrattuali di lavoro, strumenti introdotti con una logica di corto
respiro per fronteggiare la disoccupazione e favorire le esigenze di flessibilità richieste per i
processi di produzione, concorrono oggi all’esigenza percepita di cambiamento, di riforme
strutturali negli assetti del sistema socioeconomico. Il grafico 1 nel riquadro seguente, mostra
come l’andamento del PIL registrato in Italia nel periodo 1996-2008, testimonia la recessione
della crescita del volume del PIL che la crisi del 2008 ha riportato al livello del 2002, già in
flessione rispetto all’andamento dei precedenti anni. La drastica riduzione causata dalla crisi
del 2008 viene letta anche nel secondo grafico nel quale è possibile leggere la situazione
dell’Italia confrontandola con quella delle 4 nazioni Europee riportate.
Andamento PIL Italia Andamento Pil Europa
Il PIL è un indicatore nato su richiesta di Franklin Delano Roosvelt successivamente alla crisi
del ’29; egli si rivolse al Dipartimento per il Commercio e chiese che fosse elaborato un
indicatore, un mezzo di misurazione standardizzato, che consentisse di avere sempre
sottomano uno strumento affidabile per verificare le condizioni economiche generali del
Paese, al fine scongiurare ed anticipare il ripresentarsi di situazioni così critiche.(Dingeo,
95
100
105
110
115
120
125
130
2000 2002 2004 2006 2008 2010
Italia Francia Germania Regno Unito Spagna
Grafico 1. PIL Italiano (Fonte Wikipedia) Grafico 2. PIL Europeo (Fonte ISTAT)