5
INTRODUZIONE
Sergio Saviane era solito dire, con il suo brillante e generoso anticonformismo, che la
critica ha una figlia legittima che si chiama satira. Apparentemente – e il lettore si
accorgerà di quanto questo avverbio sia fondamentale per cambiare continuamente
l‟ordine delle carte, già ben rimescolate, di questa tesi – la matrice teorica del
“giudizio”, autonomo e autoritario, lega a filo doppio le due discipline esegetiche. In
realtà, nessun cittadino del “secolo dei media” si sentirà disposto a negare, se
interpellato, che tra satira e critica scorre un fiume immenso, di autorevolezza e di
credibilità, di stroncature indorate dall‟alto e di trovate geniali miseramente cestinate.
Non vi è dubbio, nella prassi e nella storia, che tra Francesco De Sanctis, il buco nero
da cui nacquero Benedetto Croce e tutta la scuola critica italiana del Novecento, e
Bobo - per citare il personaggio da vignetta forse più famoso - intercorrono
differenze non ignorabili, che fomentano l‟interpretazione della presunta filiazione
individuata dal critico dell‟”Espresso” in termini essenziali di grandezze. La satira è
più piccola, pesa meno, parla a bassa voce anche quando urla, perché sa di
pronunciare parole meno degne; la critica, dall‟alto – e in molti casi è pur vero –
della sua scienza infusa e sterminata, ha il pollice di Cesare, decide cosa è vivo e
cosa deve morire.
Tutto vero, se si tralascia la critica della televisione. Il “convitato di vetro”, come
amava chiamarlo Luciano Bianciardi nel simposio del suo divano, sconvolse da
subito sia le caratteristiche estetiche a cui le accademie erano abituate, sia quelle
temporali. D‟improvviso, nei pochi giovedì che servono al televisore per raggiungere
i salotti più comodi della penisola, s‟instilla il bisogno di analizzare uno spettacolo
innovativo e inconsueto e di renderlo fruibile, allo scritto sul quotidiano del mattino,
tralasciando che l‟evento è ormai passato per sempre.
Parole buttate al vento, la critica televisiva.
Al vento nella dimensione in cui, come Umberto Eco coglie dal principio, la
televisione non è arte e gli strumenti dell‟estetica tradizionale non possono rovistare
tra la monnezza. Al vento perché chi non è scoliaste di un fenomeno creativo puro,
non ha nessun diritto di essere annoverato nell‟Olimpo della critica e il suo giudizio
perde, istantaneamente, ogni brillio di verità e di autorevolezza. A queste
6
deformazioni congenite del mezzo televisivo si aggiunge, prepotentemente, lo spunto
virale del pregiudizio. Non solo – si legge tra le righe nei giorni paleotelevisivi – la
televisione è poca cosa e per giunta brutta, ma, per occupare il suo palinsesto, è
costretta a filtrare e triturare le “cose che contano”. È il caso degli sceneggiati
televisivi tratti dai grandi classici della letteratura che si rialzano, alla fine del round,
sempre stanchi e tumefatti; fa la stessa fine, con implicazioni logistiche oltre che
etiche, il cosiddetto “teatro televisivo”, snaturato dalla compressione del
palcoscenico e del loggione in venti pollici piatti. Infine, anche l‟arte più bistrattata
prima dell‟avvento, salvifico, della tv e ultima ruota del carro dell‟evoluzione umana
– per come era considerato all‟inizio del secolo, non è un nostro giudizio -, il cinema,
ha le sue rimostranze da fare. Perché il cinema, anche se trasmesso in televisione,
resta cinema ed è competenza del critico cinematografico.
Si sarà compreso, a questo punto, che le “grandi firme” di cui si parla nel titolo
difficilmente furono considerate tali nel pieno della loro attività. C‟è chi per sposare
la televisione diventò asceta, come Ugo Buzzolan nel suo stanzino, c‟è chi, come
Achille Campanile, fu, forse per sua fortuna, sempre considerato “altro” e preso poco
sul serio, come se l‟etichetta da “umorista” che gli erano valsi i suoi strabilianti
romanzi fosse la patente per uscire dai giochi. Sergio Saviane fu sempre tacciato
d‟alcolismo; Beniamino Placido fu ferocemente invidiato. Anche dopo la riforma
della Rai e, in seguito, il crollo del monopolio che spalanca le porte dell‟etere alle
emittenze private, se la televisione è lentamente e progressivamente accettata, la
critica resta una spina nel fianco. Suoi delatori, che prima erano gli intellettuali di
cartello e i settori culturali dei giornali che fanno opinione, diventano nientemeno
che gli addetti ai lavori. Via Teulada, corso Sempione, viale Mazzini e il Babuino
sono fortezze stravaganti e blindate, da cui l‟informazione esce rimasticata e
addolcita secondo i voleri di palazzo, mentre l‟intrattenimento fa la muffa nei suoi
schemi del passato.
Ritornando all‟affermazione iniziale di Saviane, credo che la filiazione da lui
individuata volesse suggerire ben altro. La critica, ma solo il magnifico e pessimo
mondo della televisione ha saputo dimostrarlo, conserva al suo interno una radice
comune a quella della satira. L‟aveva dentro in origine, ma i secoli di bambagia a cui
la connivenza, derivata dal necessario scambio, con le arti riconosciute e affermate
7
l‟hanno fatta scivolare nell‟oblio dei velluti e degli ori. La critica, avendo a che fare
con la televisione, deve tornare a combattere e quel che di satirico si nasconde nei
soldati di questa battaglia – soldati apocalittici e soldati integrati – è la capacità di
togliersi i guanti e sporcarsi le mani.
Edoardo Sanguineti, nella sua Critica in poltrona (1978), incalza la polemica
brechtiana contro la critica teatrale definita “culinaria” – quella che nella lingua
catodica si traduce in anteprime, promozioni, interviste, servilismi – suggerendo che
il critico perfetto, quello che la scampa, dovrebbe essere un po‟ miope e un po‟
presbite; non solo difettato, ma anche distaccato e sornione. Il recensore ideale, per
Sanguineti, va a teatro con un grosso sigaro e si guarda bene dal dimenticarlo,
evitando di farlo spegnere sebbene sotto i suoi occhi scorrano le meraviglie più
stupefacenti sulla faccia della terra. Il critico televisivo – l‟esempio è illustre e arguto
– dev‟essere tutto questo e anche, suo malgrado, turarsi il naso. Solo con i sensi
appositamente allenati si coglie il giusto atteggiamento verso un media così
controverso, che racchiude in sé istanze artistiche poco palesi e discutibili, che si
impone, per natura, il fine irrealizzabile di essere al contempo “popolare” – con tutti i
difetti che la definizione si porta appresso dai meandri reconditi dell‟attestazione
della grande cultura – e di qualità. La denuncia del critico televisivo, che non
sviscera dal proprio contesto le discussioni sul metodo e sui paradigmi che sono
propri della critica sui generis, si scontra con poteri che vanno aldilà dello spettacolo,
che si addentrano nella più viva lotta politica e che toccano da vicino le corde della
manipolazione dell‟opinione pubblica e della propaganda neanche troppo
subliminale.
Parole controvento, la critica televisiva.
Lo scopo di questo lavoro è, in sostanza, quello di fare criticamente chiarezza sulle
figure - Luciano Bianciardi, Achille Campanile, Sergio Saviane e Beniamino Placido
– che sole, o quasi, hanno saputo, con stratagemmi, convinzioni e disposizioni spesso
opposte, atterrare nell‟arena dello spettacolo televisivo per sconfiggere il pregiudizio
e denunciare, senza mai scendere a compromessi, i sotterranei accordi, le viltà e le
contraddizioni di trent‟anni d‟Italia, fuori e dentro la tv.
Una precisazione è doverosa per quanto riguarda l‟apparato del lavoro. Storie della
critica televisiva ne sono state scritte alcune. L‟obiettivo, in questa sede, era duplice
8
e nasceva dalla necessità del confronto che proprio i testi-guida, di fine ricercatezza e
memorabile suggestione, hanno saputo stimolare. Si è cercato, con i pochi mezzi a
disposizione, di conservare, e se possibile, ampliare la sistematicità propria del testo
di Elena Dagrada (A parer nostro. La critica televisiva nella stampa quotidiana in
Italia, 1992) che è il vero punto di partenza di questa tesi ma, focalizzandosi in
maniera più tecnica sul contesto degli anni ‟90 e sulle specifiche editoriali delle
testate, si conforma come un libro per gli addetti ai lavori. Questo non vuole esserlo e
si ripropone, senza ambizioni, di abbozzare le linee guida, storiche e interpretative,
che al lettore “esterno” possano suggerire almeno un‟idea del contesto in cui si
muovono i nostri personaggi.
In secondo luogo - e il rimando va alla brillante ricostruzione famigliare della critica
televisiva redatta da Nanni Delbecchi (La coscienza di Mike, 2009) - si è sentito il
bisogno di ridurre la fortunatissima parte aneddotica dei racconti dei critici, per dare
invece più spazio ai testi e all‟analisi, essenzialmente letteraria, dello stile e della
composizione, come il corso dei miei studi umanistici mi ha reso propensa a fare.
La conclusione, tutta personale, è un invito alla rilettura di questi autori che non
meritano di essere dimenticati. Mai come oggi la loro parola è attuale, il loro stile
raggiante, il loro insegnamento una guida per sopravvivere alla modernità. Non solo
televisiva.
9
1 La critica in poltrona
L’ottimista è colui che sa fin troppo bene che la televisione è marcia,
Mentre il pessimista è colui che lo scopre ogni giorno.
PETER USTINOV
1.1 Sperammo invano che la Tv non si avverasse mai!
Il 10 marzo 1947, alla Conferenza mondiale delle radiocomunicazioni, riunita ad
Atlantic City, i rappresentanti di sessanta nazioni decisero all‟unanimità di adottare
la parola televisione per designare la nuova tecnologia, figlia della radio e del
cinema. Il nome, dalla composita etimologia derivante dal termine greco per indicare
la distanza (telos) e dal latino video, si associa al suo abbreviativo TV e prelude a
quello che sarà il mezzo di comunicazione più invasivo e diffuso che la mente umana
potesse partorire. In Italia, televisione significa immediato successo. Il “convitato di
vetro”, schernito agli esordi non solo dagli intellettuali, e considerato, alla meno
peggio, figlio degenere del cinematografo (quando una paternità è già qualcosa), non
solo è entrato, di fatto e con profitto, nelle case di tutti gli italiani, ma si è anche
imposto come vero e proprio altare del focolaio, re dei bisogni e delle fantasie di
ogni famiglia. Il tutto, bisogna dirlo, in poco meno di un ventennio. Da quel 3
gennaio 1954, o forse sarebbe meglio dire 19 novembre 1955
1
fino ad una vera e
propria “personalizzazione dell‟apparecchio” che, anche a seguito della riforma della
Rai e dell‟abolizione del monopolio, ha permesso di differenziare i suoi contenuti al
punto da incanalare le tendenze, consumistiche o culturali che fossero. Il risultato di
questo trionfo è la considerazione che, da subito, il mercato italiano in espansione, su
1
Il 3 gennaio 1954 partono le trasmissioni Rai con Arrivi e Partenze, condotto da Mike Bongiorno,
ma il vero boom di pubblico si ha l‟anno successivo quando esordisce sugli schermi Lascia o
Raddoppia?
10
cui si riversarono gli sforzi per rendere concreto il boom economico, favorì
l‟acquisto del nuovo mezzo. In questo senso, in relazione al confronto costante con
gli Stati Uniti, indiscussi “maestri” in fatto di televisione, gli italiani furono tra i
primi ad acquistare il televisore, e a posizionarlo in stanze diverse dalla living room.
Insomma, in Italia la tv arriva dopo che in America, ma saranno gli italiani i primi a
portarlo in camera da letto ed in cucina - o, per in più facoltosi, nel rinomato salotto -
consolidando il suo ruolo totalizzante nella routine giornaliera. In questo senso, le
limitazioni prossime derivanti dal definitivo switch-off del digitale terrestre in tutta la
penisola interverranno, a mio avviso solo in parte, su uno scenario che è già definito
2
.
Per ripercorrere la storia della critica televisiva, che è anche storia della televisione
tout-court, è quindi necessario partire dal presupposto che la sua legittimità, intesa
anche come autorità nella definizione dei costumi, per quanto osteggiata, sia
innegabile. Sorge qui un problema d‟interpretazione. Di fronte alla prolificazione
smisurata dei canali televisivi (si pensi al mux di sei canali garantiti ad ogni
emittente nel passaggio alla trasmissione digitale, valido anche per le reti locali, e si
pensi all‟offerta smisurata della piattaforma satellitare) il ruolo del critico si fa
sempre più determinante. La moltiplicazione esponenziale di programmi significa
anche incremento incontrollabile delle linee editoriali, di fronte alle quali il critico
deve stabilire dei criteri di scelta. Per intenderci, se già dal principio, o a partire
dall‟introduzione del secondo canale
3
, era difficile per il critico e per il
commentatore del bar individuare ciò che vi era di significativo nella
programmazione, al giorno d‟oggi, il labirinto delle possibilità dovrebbe rendere
impossibile il commento generalista nella teoria o, mi si perdoni il gioco di parole,
2
Per quanto riguarda la situazione attuale del digitale terrestre in Italia, secondo la relazione di Digital
Monitor, realizzata dallo studio di ricerche E-res (si tratta di tre rilevamenti all‟anno per un totale di
8000 interviste) e riferito al periodo di settembre 2010, sono stati venduti 1,2 milioni tra decoder Dtt
stand alone e televisori con ricevitore integrato. La penetrazione complessiva raggiunge quindi il 72 %
delle famiglie e, dato rilevante, un quinto delle vendite risulta effettuato da famiglie che già
disponevano di almeno un decoder e che hanno scelto il digitale terrestre anche per altri televisori
presenti in casa.
3
Il secondo canale fu introdotto nel 1961, ma non tutti ne furono entusiati. “Da anni il pubblico
protestava per i programmi, ed ecco che la TV apre un secondo canale. Di cui grandi sono i vantaggi.
Primo fra tutti, per la TV, la possibilità di sottrarre il primo all‟attenzione e, perciò, alle critiche del
pubblico. Finché guardano il secondo non possono vedere il primo. [...] La cosa non è ancora perfetta,
perché in ogni caso il teleutente vede uno dei due programmi. Ebbene, a questo si rimedierà
facilmente, mettendo in funzione un terzo canale. Di cui fin da ora si avverte la necessità urgente.”.
(A. Campanile, Il secondo, che male!, in La televisione spiegata al popolo, a cura di Aldo Grasso,
Bompiani, Milano, 1989, pp. 209-215).
11
sulla carta. Non è così. Non è così nella dimensione in cui la scelta è già di per sé
l‟acquisizione di una linea. Ma non è così anche perché, politicamente e socialmente,
rimane salda la convinzione che esista, e domini l‟opinione pubblica, una “tv che
conta” è che ad essa siano destinate le energie delle intellighenzie. Si tratta di un
mezzo la cui analisi permette di comprendere il mondo e le sue regole, un mezzo che,
se scosso, può minare in profondità le leggi di una società. Ebbene, cosa si pensa
della “tv che conta” quando una sua visitazione è decisamente imprescindibile? Si
pensa male.
Di recente Giorgio Bocca, nella sua rubrica “Fatti nostri” in incipit al “Venerdì” di
“Repubblica”, non ha esitato, a ribadire la negatività intrinseca al mezzo televisivo
4
.
Parte addirittura dall‟accusa non delimitata alla sofisticazione della tecnologia, di cui
già si prevedeva (il suo riferimento è Toni Negri) l‟esito: la restrizione indebita degli
spazi di libertà fisica e intellettuale. Manca il riferimento diretto alla cronaca, per
questo il suo articolo Ma cento telecamere non fanno di un cretino un personaggio
vero è significativo nell‟ottica di quel commento generalista che era appiglio della
riflessione critica poche righe fa. Il suo riferimento è a uno dei personaggi dell‟età
dell‟oro della televisione
5
, quel periodo di poco posteriore alla “rivoluzione
berlusconiana dell‟etere” in cui la corsa alla tv affascinava e seduceva tutti i
giornalisti, o meglio, tutte le testate, senza che il loro “colore” potesse nulla di fronte
alla necessità della moda:
“Funari diceva: con tre telecamere e dei bravi operatori io faccio di una persona comune un
personaggio. Sbagliava: neppure con cento telecamere si fa di un cretino qualcosa di diverso da
un cretino [...]. Quello che Funari avrebbe potuto dire cogliendo nel segno era piuttosto: datemi
cento telecamere e, in un mondo dove il mercato prevale su tutto e la pubblicità impera
sovrana, io farò la televisione di massa che si adatta all‟industria e ai consumi di massa.”
6
Bocca, in un testo dal veleno un po‟ ammuffito, nel senso che la sua critica
anticapitalistica ha molto degli “anni di piombo” (negli anni in cui il valore
4
G. Bocca, Ma cento telecamere non fanno di un cretino un personaggio vero, “Il Venerdì”, 24
dicembre 2010, p. 8.
5
“Dall‟inizio degli anni ‟80 la Tv diventa ipertrofica: legata alla pubblicità, si espande in mercati più
ampi coprendo l‟intero arco delle 24 ore. A cambiare il rapporto fra il telespettatore e la Tv è poi
l‟utilizzo del telecomando, con il quale possiamo trovare ciò che ci piace in qualsiasi momento (e il
principio di piacere è più forte del principio di dovere)”. (G. Tonelli, Pippo e la critica della ragione
televisiva, www.recensire.it consultato il 31 marzo 2011).
6
G. Bocca, Ma cento telecamere non fanno di un cretino un personaggio vero, cit.
12
recuperato e imperante è proprio l‟apologia, o la giustificazione, del capitalismo),
afferma quella che, a guardar bene, è una verità storica: nonostante la tv sia stata
accettata e accolta, nelle case e sui giornali, la sua legittimazione ha sempre
convissuto con la trama sottesa del pregiudizio, in particolare da parte degli
intellettuali, ma anche dei giornalisti della carta stampata. La conclusione richiama
direttamente la famosa considerazione di Umberto Eco atta a rendere impropria la
definizione stessa di critica televisiva
7
. L‟ex-funzionario Rai (responsabile anche del
boom di Lascia o raddoppia?), dopo aver rinnegato il “primo mestiere” con l‟accusa
altisonante della Fenomenologia di Mike Bongiorno del 1961, nel „72 bolla come
ossimorico l‟accostamento tra una pratica estetica e un soggetto che di estetico non
ha nulla e, in quanto irripetibile, non potrebbe nemmeno fregiarsi della
denominazione, non felice, di “merce estetica”
8
. Bocca ribadisce lo stesso principio,
sostenendo le ragioni per cui la tv, “fra le arti più impure e sottostanti al mercato [...]
E‟ un‟arte i cui prodotti sono dedicati al grande consumo, che cioè deve essere
acquistabile e comprensibile dai molti, quindi elementare, semplice e banale.”
9
E‟ il tasto dolente dell‟eterno confronto-scontro tra la cultura “alta” e quella
popolare. È il retaggio di una visione crociana dell‟arte pura che ha investito buona
parte della cultura del Novecento. Tradizionalismo di pensiero a cui si aggiunge la
“scuola”: la formazione di Giorgio Bocca
10
e la “linea” del quotidiano fondato da
Eugenio Scalfari cui il “Venerdì” è fissa appendice. Ritorna in questo senso una
7
Eco aveva partecipato ai corsi di formazione per in nuovi dirigenti Rai, che passeranno alla storia
come “i corsari”, voluti dall‟a.d. cattolico Filibero Guala. Di questa sua posizione parla la Dagrada
all‟inizio del primo capitolo “La critica televisiva nella stampa quotidiana in Italia”. E. Dagrada, A
parer nostro. La critica televisiva nella stampa quotidiana in Italia, Rai-Eri, Roma, 1992, pp. 19 e
sgg.
8
Vedi U. Eco, Estetica e teoria dell'informazione, Milano, Bompiani, 1972 e Id., Per una definizione
della critica televisiva, in Criteri e funzioni della critica televisiva, Eri-Prix Italia, Torino, 1973.
9
G. Bocca, Ma cento telecamere non fanno di un cretino un personaggio vero, cit., p.8
10
Giorgio Bocca, nato nel 1920 a Cuneo, nonostante l‟adesione giovanile al Gruppo universitario
fascista e la presunta sottoscrizione al Manifesto della razza del 1938 (ma la questione non è chiara),
ha poi cambiato fronte durante la guerra, partecipando alla formazione delle brigate partigiane di
Giustizia e libertà e ai tribunali popolari del primo dopoguerra. Tracce della sua esperienza si
ritrovano anche nei suoi numerosi libri sulla Resistenza, in una linea di revisionismo, famosa nella
polemica con Pansa, che si propone di ricordare i valori fondanti della Repubblica, in opposizione alla
storiografia assoluzionista che tende, secondo la sua visione, ad accomunare Fascismo e Resistenza.
Per quanto riguarda la carriera giornalistica fu tra i fondatori, nel 1976, del quotidiano “La
Repubblica”, a cui collabora tuttora. In questo contesto si considera sia la formazione “crociana”
relativa agli anni della sua educazione, sia l‟adesione al centro sinistra (che definì “uno dei suoi
innamoramenti”) in opposizione al berlusconismo inteso come modello consumistico della politica, di
cui la televisione si è rivelata uno strumento imprescindibile. Per Bocca, intellettuale e di sinistra, la
televisione resta, per principio, un boccone un po‟ amaro.
13
condanna che è fermamente materialista, nei confronti di una televisione che costa
cara e, necessitando di grandi investimenti pubblicitari, finisce per essere schiava del
suo Carosello
11
.
Dopotutto, se si guarda indietro, ci si rende conto che il giudizio di Bocca, oltre a non
essere isolato ma all‟unisono con il coro mai muto dei delatori della tv, per quanto
appaia categorico sia di fatto moderato, se confrontato con quello dei “padri”
dell‟opposizione televisiva. E‟ utile a questo proposito citare un articolo di Paolo
Monelli
12
, pubblicato su “La Stampa” il 17 ottobre 1953
13
. Il titolo, che dice tutto, è
Sperammo invano che in Italia la televisione non si avverasse mai. All‟epoca del
testo non erano ancora iniziate ufficialmente le trasmissioni Rai, ma il neo critico
aveva un chiaro sentore del fenomeno grazie ai quattro anni di sperimentazione cui
aveva avuto modo di assistere. Al lettore di oggi, la passionalità e il tono apocalittico
dell‟autore sembreranno insoliti, ma credo esprimano perfettamente il clima dei
tempi. Dopo una requisitoria sul maggior difetto degli italiani, quello cioè di essere
“solleciti” e “zelanti” nell‟appropriarsi delle novità altrui (il paragone eterno è quello
delle milanesi all‟inseguimento della moda parigina) e un excursus sulla “moda
sgarbata e villana delle radio portatili”, il discorso si fa scientifico, valutando quali
catastrofi sarebbero scaturite dall‟ingresso della televisione nelle case:
“...O addirittura la fin del mondo che si annuncia per cento segni, scatenata da noi stessi,
bambocci incoscienti che ci ostiniamo a giocare con i fiammiferi in un pagliaio e diamo via
libera a neutroni e pulviscoli radioattivi senza conoscerne la natura, e potrebbero essere carichi
dei più mortali veleni. E mortali o no, certi guasti pare abbiano cominciato a farli; sia perché
alterano la composizione dell‟atmosfera saturandola troppo di elementi radioattivi, sia perché
sottopongono i nostri sensi a bombardamenti di particelle che non gli si convengono, e che la
Provvidenza aveva saggiamente imprigionato dentro l‟atomo, nella cassaforte del nucleo”.
14
Otto anni dopo Nagasaki e Hiroshima, nel cuore della guerra fredda che farà del
nucleare la sua minaccia più efficace, ma anche nel segno della Provvidenza cristiana
11
“E, condanna ferrea, è un‟arte che costa carissima, che esige grandi investimenti e che perciò deve
ricorrere alla pubblicità, vivere di imbonimenti, di esagerazioni, di imposture” (G. Bocca, Ma cento
telecamere non fanno di un cretino un personaggio vero, cit., p.8).
12
Paolo Monelli (Fiorano Modenese 1891- Roma 1984) fu giornalista e scrittore di prestigio e tra i
fondatori del Premio Bagutta. Tra i suoi titoli: Io e i tedeschi, Le scarpe al sole, Il ghiottone errante e
Barbaro Dominio. Cfr. P. Monelli, Questo mestieraccio, Treves, Milano, 1930.
13
P. Monelli, Sperammo che in Italia la televisione non si avverasse mai, “La Nuova Stampa”, 17
ottobre 1953, in Il giornalismo italiano a cura di Franco Contorbia, i Meridiani, Mondadori, Vol. IV
pp. 759-764.
14
Ibidem, p. 761.
14
e di quel “convenire” piccolo borghese, molto “a modo”, Monelli si fa profeta di un
mondo che non è poi così distante da quello reale: citando nubifragi e terremoti “con
una violenza mai veduta prima” (pensiamo ad Haiti, pensiamo al Sud est asiatico e a
Sumatra e, in questi ultimi giorni, al disastro giapponese) e anticipando persino un
successo pop degli anni „90, It’s the end of the world as we know it (and I feel fine)
dei R.E.M, lanciato in Italia dalla traduzione di Luciano Ligabue, con il titolo A che
ora è la fine del mondo?
15
. Questa la calamitosa profezia di Monelli:
“Avremo la televisione in Italia, l‟abbiamo già, assai prima della fine del mondo; anzi, se la
fine del mondo avverrà a rate, e la nostra nazione sarà fra le ultime a scomparire, potremo
goderci sullo schermo la visione del cataclisma in America o Australia e rallegrarci per breve
tempo di essere i fortunati e i sopravvissuti”
16
.
Nello stesso articolo il giornalista e scrittore non dimentica le questioni economiche,
prevedendo che solo in un secondo tempo gli “apparecchi” saranno accessibili a tutti,
in direzione “di un progresso all‟ingiù, [...] una società di analfabeti, di conformisti,
di meccanizzati”
17
. Ultima, ma forse più importante, la mutazione che Monelli
individua nei rapporti sociali, nel tempo oggetto di studi psico e sociologici ma, per i
tempi, un‟intuizione non indifferente. Diceva David Frost, forse riferendosi proprio
al Presidente Nixon che lo ha reso famoso, che la televisione “è quel mezzo che ti
consente di godere dal tuo salotto di persone che non inviteresti mai a casa tua”
18
.
Monelli lo anticipa, in riferimento ad un suo articolo del „52 in cui segnala i
mutamenti che la televisione aveva arrecato alla vita americana, descrivendo schiere
di famiglie che ospitano nei loro salotti, per anche più di mezz‟ora, il candidato
dell‟uno o dell‟altro partito (“novernadogli i foruncoletti sulla pelle e le stille di
sudore sulla fronte”
19
) ma non sono più in grado di comunicare tra loro; il
coronamento della profezia è il suo picco estremo:
15
E‟ la traccia che dà il nome all‟album del 1994; Ligabue ha dichiarato, in A che ora è la fine del
mondo? a cura di Corrado Minervini, edito come Extra booklet nel 2008, che l‟idea del testo, rivisitato
rispetto a quello della band inglese, nasce dal discorso di inaugurazione della prima legislatura del
governo Berlusconi. Il Cavaliere, in tale occasione, aveva dichiarato che le televisioni in suo possesso
(le reti Fininvest oggi Mediaset) non avevano influito sulla sua vittoria elettorale. Il cantante, in
disaccordo con il premier, immagina una distopia in cui, di fronte all‟apocalisse, la sola reazione
umana sia quella di voler assistere in poltrona allo spettacolo.
16
P. Monelli, Sperammo che in Italia la televisione non si avverasse mai , cit, p.761.
17
Ibidem, p. 762.
18
N. Del becchi, La coscienza di Mike, Mursia, Varese, 2009, cit., p.7.
19
.P. Monelli, Sperammo che in Italia la televisione non si avverasse mai , cit, p.762.
15
“Ma verrà il tempo in cui tutti vorranno stare a casa per vedere la sfilata e nessuno vorrà
scomodarsi a sfilare, occorrerà stabilire turni, dovrà intervenire la polizia per decidere chi
debba dare spettacolo in piazza e chi possa comodamente assistervi.”
20
Su questo, Monelli sbaglia. Non poteva prevedere il ruolo di costruzione di modelli
sociali, che la televisione avrebbe incarnato con l‟era del consumismo, e non aveva
come riferimento neppure il primo “divismo” della televisione, riguardante i
concorrenti che due anni dopo avrebbero solcato il palco di Lascia o raddoppia? per
fissarsi nell‟immaginario collettivo di migliaia di telespettatori ansiosi d'imitarli. Nel
suo “subdolo strumento di dittatura nel campo dello spirito e della coscienza” non
c‟era ancora spazio per le code interminabili ai casting del Grande Fratello o di
Amici.
In conclusione, Monelli lamenta una difetto del sistema che si rivelerà decisivo per
lo sviluppo della televisione in Italia. Si tratta del monopolio, non ancora definito
ufficialmente, ma inevitabile secondo i presupposti. Il giudizio non può che essere
lugubre:
“Avremo un solo ente trasmittente, i programmi saranno nell‟arbitrio di quel solo ente,
eventuali visioni di società straniere dovranno passare al suo vaglio. [...] questa sola fonte sarà
manipolata, dosata, conciata secondo la scelta l‟estro, il capriccio, i preconcetti, le storture di
poche persone. Paurosa eventualità, siano anche quelle poche persone le più intelligenti, le più
eclettiche, le più liberali di tutta la nazione.”
21
Non lo saranno, avrebbe aggiunto Giorgio Bocca.
Non si può escludere, a questo punto, una delle critiche più radicali e analitiche della
storia della televisione. Mi riferisco all‟articolo Sfida ai dirigenti della televisione
che Pier Paolo Pasolini pubblicò sul “Corriere della sera” due anni prima di morire.
La sua analisi spietata della distruzione delle culture particolari - che lui chiama
“periferiche”- passa per la denuncia dell‟intolleranza congenita al centralismo; quello
che lo stato fascista aveva solo teorizzato, e è riuscito, invece, alla cultura dei
consumi. La repressione dei “modelli culturali reali” è avvenuta, secondo il
poliedrico scrittore, attraverso due rivoluzioni e, la più importante, è quella della
televisione. Questo “edonismo neo-laico”, nell‟accezione pasoliniana, prevede che la
sola - e monopolistica - “scatola” abbia assoggettato, omologando, ogni cultura
20
Ibidem, p. 763.
21
Ibidem.