4
Introduzione
Il tema dei diritti umani rappresenta uno dei temi più dibattuti e complessi,
soprattutto se si analizza rispetto alla politica internazionale. Trovare il denominatore
comune fra la politica estera statunitense degli anni della Guerra Fredda, e la tutela dei
diritti umani, non è compito facile. Gli anni della Presidenza di Richard Nixon sono
stati caratterizzati dalla politica della distensione, volta a smussare il conflitto
ideologico con l‘Unione Sovietica, ma sopratutto destinata a cambiare l‘equilibrio
mondiale. Per questo, la tutela dei diritti umani fu posta in secondo piano. Con
l‘elezione alla presidenza di Jimmy Carter, la politica statunitense assunse un indirizzo
diverso. Come egli stesso disse in varie occasioni, gli Stati Uniti avevano la
responsabilità di scoprire e mettere fine alle violazioni dei diritti dell‘uomo, i quali
trovavano garanzia nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell‘Uomo.
La ricerca tenta di segnare un filo comune fra i rapporti delle Amministrazioni
statunitensi con l‘Unione Sovietica, considerando i dibattiti relativi ai diritti umani, e la
politica statunitense in America Latina. In questo contesto è stata esaminata in primo
luogo, la questione dell‘emigrazione ebraica dal territorio sovietico e poi, l‘Operazione
Condor nel continente sud-americano. I due avvenimenti sono, come risaputo,
estremamente distanti e diversi, ma rientrano, inizialmente, nella strategia repubblicana,
volta all‘eliminazione del pericolo comunista ad ogni costo, e poi, nella politica
democratica, che privilegiava la lotta per la tutela dei diritti umani nel mondo.
La ricerca, pertanto, analizza il passaggio fra le due Amministrazioni in tema di
diritti umani e colloca la questione nel quadro internazionale, e in particolare della
cooperazione. In virtù dei contenuti del progetto, attinenti alla collaborazione
internazionale, il progetto di ricerca ha usufruito di un contributo ERSU che ha
consentito di svolgere un soggiorno di ricerca presso la Jimmy Carter Library di Atlanta
(JCL), la cui documentazione inedita costituisce la base del lavoro. La fase preliminare
della ricerca, con il reperimento di fonti bibliografiche, è stata condotta in Belgio grazie
ad un soggiorno Erasmus, presso l‘ottima biblioteca delle Università Fucam, che ha
consentito l‘utilizzo di opere non facilmente accessibili in Italia.
Il lavoro si articola in quattro capitoli: i primi tre riguardano le politiche statunitensi
nei rapporti con l‘Unione Sovietica, mentre l‘ultimo prende in considerazione, più
brevemente, gli avvenimenti in America Latina.
Il primo capitolo esamina la politica di Richard Nixon, e a tal fine si è avvalsi
soprattutto di opere monografiche. Le più utili sono state le opere di Henry Kissinger
1
,
che in qualità prima di Consigliere per la Sicurezza Nazionale, e poi di Segretario di
1
KISSINGER H., A la Maison Blanche 1968-1973, Fayard, Paris 1979; L’Arte della Diplomazia,
Sperling & Kupfer, Milano 1994.
5
Stato ha svolto il ruolo più importante nelle decisioni di politica estera. Ci si è avvalsi
inoltre di un‘importante letteratura sulla questione ebraica, come, per esempio, l‘ottima
opera di Petrus Buwalda e di Pauline Peretz
2
. In questa parte si è cercato di
comprendere le conseguenze della distensione tanto auspicata dall‘Amministrazione
Nixon, considerandone l‘impatto nei rapporti con l‘Unione Sovietica. Si è analizzato
inoltre il problema sorto dopo l‘adozione dell‘emendamento Jackson-Vanik che per la
prima volta ha subordinato i rapporti economici fra le due superpotenze, al rispetto dei
diritti degli ebrei ad emigrare dal territorio sovietico. A tal fine si è utilizzato il sito web
del National Security Archive.
In questo capitolo si analizza inoltre la Conferenza di Helsinki del 1975, avvenuta
durante il mandato del Presidente Ford: la Conferenza per la creazione della
Commissione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, rappresentò un momento
fondamentale nel contesto socio-politico. Effettivamente fu attraverso l‘Atto Finale che
si fece un implicito riferimento ai diritti umani, sancendo il diritto al ricongiungimento
familiare, principio che ha poi determinato la base della rivendicazione dei cittadini
sovietici. Per prendere visione del testo finale della Conferenza ci si è avvalsi di diversi
strumenti: attraverso opere monografiche l‘opera di Daniel Thomas
3
, o l‘opera di
Giovanni Barberini
4
, ma soprattutto si è potuto visionare il testo per intero, presente
nella collezione Public Liaison della JCL. Si è utilizzato inoltre il sito web della Gerald
Ford Library, e quello dell‘Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa.
Il secondo capitolo analizza la politica del Presidente Carter, prendendo come punto
di partenza il suo programma politico. Nel comprendere le motivazioni che spinsero il
Presidente degli Stati Uniti a rendere la tutela dei diritti umani come obiettivo della sua
agenda politica, è stato utile prendere visione delle varie conferenze stampa cui il
Presidente ha partecipato, attraverso le collezioni Public Liaison, e Presidential Papers
of Jimmy Carter White House Central File, della JCL. Per apprendere il significato dei
diritti umani, riconosciuti dalla nuova Amministrazione, e dunque poterne capire
l‘impatto nelle scelte di politica estera, si è avvalsi di vari memorandum della collezione
Donated Historical Material.
In questo capitolo si analizza inoltre una corrispondenza tra Carter e Brezhnev,
visionata dalla collezione Zbigniew Brzezinski 1972-1981, attraverso la quale si coglie
perfettamente l‘intento del Presidente di porre i diritti umani alla base del rapporto con
l‘Unione Sovietica: Jimmy Carter non desiderava perdere l‘equilibrio trovato attraverso
la distensione della precedente Amministrazione, ma desiderava rinvigorire la politica
estera americana di un moralismo che sembrava essere stato perso durante gli anni di
Nixon.
In questa parte si cerca di delineare il rapporto tra Carter e la comunità ebraica, che
negli Stati Uniti ricopriva un ruolo fondamentale. Nonostante il Presidente si facesse
portavoce della tutela dei diritti umani nel senso più ampio, non considerava il diritto
degli ebrei sovietici ad emigrare dal paese, maggiore o prioritario rispetto ai diritti di
tutti i sovietici. Per questo, e poiché Jimmy Carter si propose come nuovo rivendicatore
2
BUWALDA P., They did not dwell alone The Woodrow Wilson Center Press, Washington 1997.
PERETZ P., Le combat pour les juifs soviétiques Washington-Moscou-Jérusalem 1953-1989,
Armand Colin, Paris 2006.
3
THOMAS D., The Helsinki effect, Princeton University Press, Princeton 2001.
4
BARBERINI G., La nuova Europa, FrancoAngeli, Milano 1994.
6
dei diritti del popolo palestinese, l‘elettorato ebraico non lo considerò mai come suo
rappresentante. Per analizzare questo rapporto piuttosto conflittuale, ci si è avvalsi,
sopratutto, della collezione Advisor to the President on American Jewish Affairs.
La parte finale di questo capitolo analizza la Conferenza di Belgrado del 1977, erede
della Conferenza di Helsinki, in cui gli Stati Uniti cercarono di porre la discussione sui
diritti umani come base dei rapporti tra gli Stati europei. L‘intento
dell‘Amministrazione Carter fu di promuovere una maggiore discussione sul Basket III
dell‘Atto Finale di Helsinki, relativo ai diritti umani, sancendo dunque l‘irrinunciabilità
della tutela di tali diritti nelle decisioni di politica internazionale. Ci si è avvalsi
soprattutto della collezione Public Liaison, in cui è stato possibile visionare le strategie
dell‘Amministrazione, e poter accedere a vari reports indicanti lo stato dei diritti umani
nel territorio sovietico due anni dopo Helsinki. Sono stati essenziali a tale scopo, i vari
comunicati trasmessi all‘Amministrazione dagli Helsinki Groups e da Amnesty
International, reperibili nella JCL.
Per questo capitolo sono state utilizzate varie memorie, fra quelle dello stesso Jimmy
Carter
5
, e di Zbigniew Brzezinski
6
.
Il terzo capitolo prende in considerazione il punto fondamentale della politica estera
di Jimmy Carter: egli infatti desiderava equiparare i diritti di tutti i cittadini sovietici,
non curandosi solamente dei diritti degli ebrei. A tal fine si è ritenuto opportuno dare
ampio spazio a due personaggi in particolare, Anatoly Scharanski e Andrei Sakharov. Il
primo è un ebreo sovietico che desiderava lasciare il paese per raggiungere Israele, e
che ha rappresentato l‘emblema della lotta ebraica, sopratutto nell‘opinione pubblica
occidentale. Il secondo era un dissidente, che ha incarnato la lotta per il rispetto dei
diritti civili e politici in Unione Sovietica. Erano anni in cui i gulag ospitavano migliaia
di personaggi scomodi al regime, e Andrei Sakharov è stato il simbolo di una lotta che
ha trovato nel Presidente Carter un valido sostenitore. Le fonti utilizzate sono frutto
delle ricerche nella JCL, soprattutto nelle collezioni Public Liaison e Donated
Historical Material.
L‘ultimo capitolo riguarda invece l‘America Latina e la politica statunitense
nell‘area. Si prende prima di tutto in esame la politica estera di Richard Nixon, attuata
soprattutto da Henry Kissinger; l‘analisi cerca di dimostrare il ruolo svolto dagli Stati
Uniti negli anni dell‘Operazione Condor. Attraverso il National Security Archive, è
stato possibile prendere visione di documenti testimonianti il ruolo chiave di Kissinger
nelle vicende. L‘Operazione Condor nacque in un contesto storico assai complicato, che
trovò la sua base in Cile, il quale all‘epoca viveva un periodo di dittatura militare sotto
il regime del generale Pinochet. La pubblicazione dei documenti nel ―The Pinochet
File‖ a cura di Peter Kornbluh, ha reso la ricerca più semplice e diretta. Sono state
utilizzate diverse opere monografiche, fra le quali, degne di una particolare attenzione,
l‘opera di John Dinges
7
, e l‘opera di Yvonnick Denoel
8
; si è utilizzato inoltre il sito web
della Central Intelligence Agency.
Seguendo un filo prettamente cronologico, si analizza inoltre la politica di Jimmy
Carter, soprattutto attraverso i documenti inediti della JCL. Si ricordano a tal proposito
5
CARTER J., Keeping Faith Memoirs of a President, The University of Arkansas Press, Fayetteville
1995.
6
BRZEZINSKY Z., Power and Principles Memoirs of the National Security Advisor 1977-1981, Ferrar-
Straus-Girouz, New York, 1983.
7
DINGES J., Les années Condor, La Découverte, Paris 2004.
8
DENOEL Y., Le livre noir de la CIA, Nouveau Monde, Paris 2007.
7
diversi documenti presenti nella collezione Public liaison
9
, indicanti la diminuzione
dell‘aiuto militare e finanziario al Cile decretata dall‘Amministrazione Carter. Si è
avuto modo inoltre, di poter accedere a documenti simili anche riguardo all‘Argentina,
Stato che partecipò all‘Operazione Condor e che fu teatro delle maggiori sparizioni
umane, i così chiamati desaparecidos: a tal fine si sono utilizzati soprattutto i report di
Amnesty International presenti nella collezione Records of the office of National
Security Advisor 1977-1981 della JCL. Il capitolo analizza, infine, le più importanti
corrispondenze del Presidente Carter riguardo al Cono Sud: innanzitutto quella con il
generale Pinochet, della collezione Brzezinky Material, e quella con Orlando Letelier,
ex ambasciatore cileno del governo di Salvator Allende, assassinato a Washington.
Il lavoro termina con un‘appendice documentaria, riportante documenti editi e
inediti, utili al lettore per prendere diretta visione delle fonti utilizzate in questo lavoro.
9
Si vedano i documenti contenuti nel fascicolo Chile U.S Security Assistance and Related
Transactions,1/76-11/77,
8
Capitolo primo
L‘eredità repubblicana
1.1. La Presidenza Nixon
La presidenza repubblicana di Richard Nixon si caratterizzò per obiettivi riguardanti
la Guerra Fredda e l‘antagonismo fra gli Stati Uniti e l‘Unione Sovietica. La Dottrina
Nixon specificava l‘onere degli Stati Uniti di osservare gli impegni assunti con i trattati,
ed esprimeva di fatti un luogo comune. Lo stesso Henry Kissinger disse: ―Come le
professioni di castità, aveva una plausibilità limitata, dato che non è probabile che la
trasgressione venga annunciata in anticipo‖.
10
I diritti umani non comparivano nell‘agenda di un Presidente impegnato a pilotare
l‘America in un periodo di transizione verso un mondo che necessitava di una guida, e
che rendeva l‘anticomunismo una battaglia perseguibile attraverso la distensione.
Nixon considerava i suoi avversari comunisti innanzitutto e soprattutto come paesi
che perseguivano essenzialmente i loro interessi, paesi di cui l‘ordine interno non era
affare statunitense, ma si interessava solo del loro comportamento internazionale. Nixon
considerava il mondo come un insieme di sfide ambigue, di nazioni motivate
dall‘interesse più che dalla buona volontà, di cambiamenti quantitativi più che
limitativi; in definitiva, un mondo che poteva essere gestito ma non dominato né
rifiutato.
11
Il rapporto tra i due grandi della terra era effettivamente guidato secondo dei principi
essenziali basati sul desiderio di affermare le loro relazioni come pacifiche e solide.
Costatando la loro importanza e potenza a livello internazionale si obbligavano a
rispettare un ordine mondiale pacifico, e per questo si impegnavano alla non ingerenza
reciproca negli affari interni. Ma la realtà come spesso accade è notevolmente differente
dagli accordi, e le dinamiche relative al famoso ―ordine interno‖ oggetto della non
ingerenza, sono troppo complicate per non essere considerate, soprattutto se si tratta di
Guerra Fredda e di anticomunismo.
Il nuovo approccio di Nixon in politica estera metteva in discussione
l‘eccezionalismo americano e il suo imperativo che la politica fosse basata
sull‘affermazione di valori trascendenti. La sfida per l‘America, come la vedevano
Nixon e i suoi consiglieri, consisteva nell‘adattare queste verità tradizionali al nuovo
ambiente internazionale.
12
Per Nixon i valori americani rimanevano quelli di sempre,
ma dovevano costituire solo un mezzo per raggiungere degli obiettivi, e non degli
obiettivi in quanto tali. La nuova presidenza era convinta che trattare con i sovietici,
scendere a patti con i comunisti, era un prezzo da pagare per evitare che il mondo
passasse da conflitto un ideologico ad un conflitto nucleare.
10
Henry KISSINGER, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer, Milano 1994, pag. 551.
11
Ivi, pag. 577.
12
Ibidem
9
L‘America si trovava ad affrontare delle sfide importanti, come la guerra in Vietnam
e l‘opposizione pubblica internazionale, ma anche delle battaglie guidate da
organizzazioni interne, da colpi di stato, da diritti umani. Era il famoso dilemma che
spesso ha riguardato la politica estera americana: gli ideali, la tutela dei diritti, la libertà
devono essere considerati più importanti della lotta al comunismo? Il nuovo sistema
Nixon implicava necessariamente la presenza di oppositori, che da più parti animavano
l‘ambiente politico americano: i conservatori consideravano la sua strategia come
insolita e poco congeniale
13
, qualificando il conflitto con il mondo comunista
essenzialmente come ideologico. Giudicavano il compromesso come una ritirata
14
, fosse
in Vietnam o rispetto all‘Unione Sovietica. A questa corrente di opposizione si aggiunse
però anche quella dei democratici progressisti impregnati di cultura ideologica e poco
attenti alle necessità del momento. I conservatori temevano il disarmo morale o
un‘apocalittica resa dei conti nucleare a seguito di qualche scoperta tecnologica
sovietica. La preoccupazione dei progressisti era un‘eccessiva accentuazione degli Stati
Uniti sulla sicurezza militare.
15
Il Segretario di Stato Henry Kissinger, in una corrispondenza con il Segretario
Generale del Partito Comunista Sovietico Leonid Brezhnev, si espresse in questi termini
spiegando l‘opposizione interna:
there are the conservatives, who have always been anti-Soviet, [..] There is the Jewish
Community, for two reasons: One on the question of Jewish emigration, and secondly, because
they accuse me [..] of conducting our Middle East policy in too close cooperation with the
Soviet Union. They would like a situation in the Middle East in which the Soviet Union is on
one side and the United States is on the other side, so them there is unlimited support for Israel.
Thirdly, there are the intellectuals, who were anti-Nixon and who had to find a reason to be
against whatever he was for. And all these people combine for different reasons. And the
intellectuals also because of what they claim is happening to intellectuals in the Soviet Union.
16
Il senatore Henry Jackson, che la storia dipingerà come il fautore della politica
americana a favore degli ebrei, nel 1974 disse della distensione:
[..] nella terminologia sovietica attuale, distensione o coesistenza pacifica denota
un‘alternativa strategica all‘antagonismo apertamente militante contro i cosiddetti paesi
capitalisti. Non sottintende l‘abbandono da parte dell‘Unione Sovietica e dei suoi alleati di
conflitti con i paesi liberali occidentali. [..] Lo scontro diretto deve lasciar posto a metodi di
lotta indiretti con ricorso a mezzi non militari, che nella politica sovietica vengono definiti
ideologici: questo termine si riferisce a sovversione, propaganda, ricatto politico e operazioni
dei servizi segreti.
17
Il rapporto con l‘Unione Sovietica non poteva essere guidato da principi teorici, il
problema degli armamenti e i successivi accordi erano solo una componente di questo
rapporto. Ciò che divenne sempre più impellente era infatti la questione
13
KISSINGER, L’arte della diplomazia, cit., pag. 578.
14
Ibidem
15
Ivi, pag. 580.
16
http://www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/publications/DOC_readers/kissinger/docs/04-04.htm
17
KISSINGER, L’arte della diplomazia, cit., pag. 580.
10
dell‘emigrazione ebraica dal territorio sovietico, che rendeva gli americani direttamente
implicati vista la presenza di numerose organizzazioni ebraiche e sioniste nel territorio
statunitense, e visto anche, lo stretto vincolo di alleanza con Israele.
1.2 I refuseniks
Le origini della comunità ebraica in territorio sovietico è tutt‘ora disputa di diversi
studiosi, ma pare comune l‘idea che le prime migrazioni ebraiche ci furono dall‘epoca
precedente quella cristiana. Rilevanti soprattutto per la loro cultura e la loro tenacia
negli affari commerciali, gli ebrei riuscirono a vivere in modo pressoché tranquillo fino
all‘inizio del ‗900, quando iniziarono il primo esodo verso territori geograficamente più
vicini al mondo occidentale.
L‘esodo che riguarda la politica estera americana è quello del 1968, definito anche
Second Exodus. Dopo la morte di Joseph Stalin nel 1953, la condizione degli ebrei
sovietici sembrava migliorare, ma effettivamente anche Nikita Khrushchev era un
antisemita: represse ogni religione e quella ebraica in particolare, non esisteva nessuna
scuola o centro culturale ebraico. ―The government closed down synagogues, barred
Jewish education (including the study of Hebrew), forbade emigration, and published
antisemitic books, some of which accused Judaism of being a Nazi-like religion.
18
‖. Il
regime sovietico non tollerava la presenza di una minoranza così forte, e allo stesso
tempo gli ebrei non potevano tollerare tale regime.
La seguente può essere una spiegazione:
More and more I began to feel that something was wrong in the society in which I had grown
up and in which you could not even be apolitical, you were forced to participate. That was
unbearable for me. I hated that system, the antihumanism of it more than its antisemitism
19
La discriminazione era tale che il desiderio più grande diventava quello di emigrare
verso gli Stati Uniti o verso la loro ―terra promessa‖, Israele.
Tale problema peraltro non era sentito dalla popolazione sovietica nella sua totalità
ed importanza, vista sicuramente la mancanza di informazioni chiare, ed effettivamente
questa era l‘opinione che i ―veri‖ sovietici avevano della minoranza:
Soviet citizens regarded the Jews who were allowed to emigrate both with contempt and
with envy: contempt because those Jews were ―committing treason‖ by leaving; envy because
they themselves were hardly ever allowed to travel to the West, let alone to emigrate
20
.
18
Joseph TELUSHKIN, The Golden Land, The Story of Jewish Immigrations to America, Harmony
Books, New York 2002, pag. 26.
19
Petrus BUWALDA, They did not dwell alone, The Woodrow Wilson Center Press, Washington 1997,
pag. 33.
11
Il movimento ebreo prese vita in diverse parti dell‘Unione Sovietica, dando spazio ad
un nuovo fiorire della cultura ebraica che fino allora aveva sempre trovato censure.
Outre le fait qu‘entre 1948 et 1953 l‘existence même de certains Juifs est menacée, leur
extrême vulnérabilité tient à l‘ambiguïté de leur statut [..] Les bibles et les publications en
hébreu sont interdites, alors que les livres de culte des autres religions restent tolérés; les objets
nécessaires au respect des rituels juifs sont confisqués; [..] La nationalité juive est la seule à être
privée de ses droits culturels, pourtant garantis par la Constitution soviétique pour tous les
groupes nationaux.
21
In Unione Sovietica si sviluppò una pubblicazione non autorizzata, il Samizdat
22
, che
venne conosciuta da città in città. I giovani ebrei, che non potevano certamente avere il
retaggio culturale e storico dei loro antenati si recavano sempre più spesso nelle
sinagoghe, talvolta per pregare, e talvolta per riunirsi con coloro, che come loro,
condividevano la frustrazione di essere ―diversi‖. Effettivamente la sinagoga era l‘unico
luogo prettamente ebraico ancora autorizzato dal governo sovietico. Alla fine degli anni
60, il movimento ebraico divenne sempre più attivista: circa 6000 persone firmarono
petizioni tra la fine del decennio e il successivo, e l‘arrivo di persone dell‘Ovest in
Unione Sovietica, influenzò fortemente il movimento.
Gli Zapadniki
erano coloro che divennero cittadini sovietici dopo l‘annessione di
territori maggiormente occidentalizzati, come la Polonia, la Romania e gli stati baltici, e
non fu un caso che negli anni del risvegli nazionalisti i maggiori percussori furono
proprio questi Zapadniki che vissero in stretto contatto con il mondo ebraico e i loro
ideali. Nonostante il fervore del periodo, comunque il movimento non ebbe una
struttura: non c‘erano elezioni, non c‘erano leaders, niente indirizzi o numeri di
telefono, e questo dava la possibilità di organizzarsi nel modo più segreto possibile.
La spinta più forte al movimento venne con la guerra arabo-israeliana del 1967.
L'Unione Sovietica finanziando i paesi arabi, rendeva i suoi cittadini, compresi gli ebrei,
sionisti o meno, nemici di Israele. Questo era, per loro, chiaramente inaccettabile.
Mentre gli altri movimenti come per esempio quello ucraino, era concentrato in una sola
repubblica, quello ebraico permeava ogni angolo del territorio sovietico, ma soprattutto
aveva la sua principale base in città come Mosca o Leningrado che non solo vantavano
una consistente percentuale di stranieri, ma erano anche la sede di importanti media. Per
questo diversi membri riuscirono a diventare spokesmen e leaders del movimento.
Inoltre gli ebrei non chiedevano, come altre correnti d‘opposizione, un cambiamento
all‘interno del paese, perché effettivamente non lo consideravano il loro paese e per
questo desideravano esclusivamente lasciarlo.
L‘équipe dirigente del Cremlino escludeva di considerare l‘emigrazione come
soluzione al problema degli ebrei sovietici; già nel 1947 nel suo discorso davanti
all‘Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Andrej A. Gromyko
23
, dichiarando
l‘importanza per il popolo ebraico di creare il loro Stato metteva l‘accento sul fatto che
20
Ivi, pag. 47.
21
Pauline PERETZ, Le combat pour les Juifs Sovietiétiques Washington-Moscou-Jérusalem 1953-1989,
Armand Colin, Paris 2006, pag. 53-54.
22
Mourray FRIEDMAN, CHERNIN, A second exodus, Brandeis University Press, Hanover 1999, pag. 85.
23
Ministro degli Esteri sovietico dal 1953 al 1985.
12
l‘immigrazione in Palestina doveva essere riservata agli ebrei provenienti dai paesi
capitalisti, mentre fra quelli sovietici nessuno aveva mai espresso la volontà di andarci a
vivere.
Une énorme proportion de Juifs d‘Europe qui ont survécu à la guerre se sont trouvés sans
patrie, sans abri et sans moyens de subsistance. Des centaines de milliers de Juifs errent à
travers différents pays européens à la recherche d‘un asile. [..] Qu‘aucun des pays d‘Europe
occidentale n‘ait été en mesure d‘assurer la défense des droits élémentaires du peuple juif ou de
le protéger contre les violences déclenchées par les bourreaux fascistes, cela explique
l‘aspiration des Juifs à la création d‘un Etat à eux.
24
La legislazione sovietica d‘altra parte non autorizzava né negava la possibilità di
emigrare, ma anche solo immaginare che i cittadini potessero domandare di lasciare il
paese, per il governo costituiva un precedente intollerabile per l‘esperienza socialista. Il
desiderio d‘emigrare era comunque estraneo a coloro che vivendo nelle grandi città
erano totalmente integrati con il tessuto sociale sovietico, spesso fra l‘altro sposati a non
ebrei, adottando loro stessi una cultura sovietica.
Nel 1969 diversi ebrei decisero di chiedere il visa per emigrare ma di fronte alle
negazioni da parte del governo, si rivolsero alla Commissione per i diritti umani delle
Nazioni Unite; la loro lettera fu letta nelle radio israeliane, e per la prima volta il
problema degli ebrei sovietici divenne un problema occidentale. La Dichiarazione
Universale dei Diritti dell‘Uomo indicava chiaramente il diritto di ogni persona di
lasciare il proprio paese e di tornarci. Ma questo non era contemplato fra i diritti
concessi dal Cremlino ai suoi cittadini: infatti l‘emigrazione era ritenuta motivata solo
al ricongiungimento familiare dovuto essenzialmente alle diaspore ebree che seguirono
l‘olocausto nazista. Peraltro il governo riteneva che il ricongiungimento familiare si era
ormai pressoché realizzato, e utilizzava questa motivazione, fondata su insufficienti dati
di fatto, per negare il rilascio dell‘autorizzazione.
Fu a questo punto che intervenne il Vysov, un dichiarato invito del governo
israeliano per quegli ebrei che desideravano recarsi in Israele, che costituiva il primo
passo di quel lungo Labyrinth
25
. Lo stato ebreo specificò anche la motivazione per la
quale l‘emigrazione non doveva avere dei vincoli familiari: la comunità ebraica è
sempre stata considerata una grande famiglia, in cui si è sempre potuto trovare un
vecchio cugino fra i suoi adepti e, per questo, sarebbe stato ingiusto e non corretto
limitare il rilascio ad un determinato grado di parentela, stabilito illegittimamente dal
governo sovietico.
Peraltro l‘assoluta mancanza di decisioni pubbliche consentiva il governo ma
soprattutto l‘OVIR, (Visa Office of the Soviet Ministry on Internal Affairs)
di poter
negare un visto di uscita, e non dover dare spiegazioni. I Refuseniks, così venivano
chiamati coloro che non ricevevano l‘autorizzazione, talvolta venivano arrestati dopo le
varie proteste, e questo creava nuovo attrito tra il governo sovietico e l‘Occidente. La
consistenza di coloro è effettivamente impossibile da misurare, ma pare che negli anni
‗70 fossero circa 2000 persone, ma nei tardi anni ‗80, questi erano circa 7000.
24
Antonella SALOMONI, L’Union soviétique et la Shoah, Paris:la Découverte, Paris 2008, pag. 261,
262.
25
BUWALDA, They did not dwell alone, cit., pag. 47.
13
Per far fronte all‘aumento dei vista negativi, il Knesset approvò la proposta che
prevedeva ottenimento della nazionalità israeliana direttamente nell‘ambasciata dei
Paesi Bassi in Unione Sovietica. Ma la questione sollevò effettivamente diversi
problemi visto che si trattava comunque di un‘ingerenza negli affari interni dello stato.
La questione dell‘emigrazione ebraica fu tenuta segreta dal governo israeliano fino agli
anni ‗90, soprattutto per l‘impegno assoluto al non-intervento negli affari interni.
1.3 La lotta statunitense
Gli Stati Uniti, i quali hanno una lunga tradizione di intervento umanitario, si
trovarono presto implicati nella questione ebraica, soprattutto visto che gli ebrei
americani si mobilitarono a nome degli ebrei sovietici.
La necessità per il governo statunitense di conformarsi alle organizzazioni ebraiche
americane e seguire le loro spinte, si incontrava con la loro ideologia anticomunista, che
rendeva la lotta per la tutela dei diritti all‘immigrazione ancora più semplice. D‘altra
parte, il sostegno dell‘Unione Sovietica agli Stati Arabi durante i maggiori conflitti
mediorientali, giocava un ruolo fondamentale nello scacchiere di interessi; tutto questo
nonostante che l‘URSS avesse in passato voluto la creazione di Israele. Animato dalla
volontà di mostrare tutte le contraddizioni delle società imperialiste e di ritrovare un suo
valore in Medio Oriente, il Cremlino si è mostrato il miglior amico del sionismo.
L‘URSS ha prolungato il suo sostegno allo stato ebreo fino a condannare l‘attacco dei
paesi arabi del 18 maggio 1948.
Con l‘emergere delle discriminazioni sociali cui gli ebrei dovevano sottostare in
Unione Sovietica, Israele cercava un modo per rendere la lotta clandestina più efficace,
creando un vero e proprio ufficio per l‘immigrazione: il Lishkat Hakesher
26
, che
prenderà poi il nome di Nativ
27
, o Ufficio senza nome, il quale aveva l‘obiettivo di
facilitare la diaspora senza mettere a repentaglio le relazioni fra i due governi. Le
operazioni di questo ―ufficio‖ rimasero segrete fino agli anni ‗90, e questo rese ancora
più semplice creare una struttura doppia, che oltre la base a Tel Aviv, aveva il suo
braccio operativo in una rete di emissari che avevano il compito di avvicinarsi alle
famiglie ebree e rianimare la loro cultura e il loro senso di appartenenza alla comunità.
Il Nativ, in città come Londra, Parigi e New York, ottenne la collaborazione
d‘intellettuali ebrei ben introdotti nella società, incaricati di diffondere le notizie relative
alla sorte degli ebrei sovietici e di cercare l‘attenzione delle personalità più influenti.
L‘interessamento del mondo occidentale verso ciò che accadeva nell‘Unione Sovietica,
era anche frutto di questo ―gioco‖ israeliano. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo
migliore per portare avanti questo programma: avevano il vantaggio di essere dotati di
un sistema politico aperto e pluralista in cui gli interessi ebraici potevano facilmente
trovare rappresentanza.
26
PERETZ, Le combat pour les juifs soviétiques, cit. pag. 67.
27
Ivi, pag. 69.
14
La più grande originalità dell‘operazione consisteva nel ricercare l‘appoggio delle
correnti di sinistra: progressisti ma anche comunisti. Le loro critiche sarebbero state
molto più imbarazzanti per Mosca e soprattutto più credibili per l‘opinione pubblica,
rendendo facilmente distinguibili la campagna dei Nativ dalla propaganda anti-
sovietica.
Fondamentali si rivelarono inoltre le organizzazioni della diaspora e l‘importanza di
quella americana che contava il maggior numero di adepti; questi due fattori rendevano
paradossalmente l‘operato del Nativ più difficile, considerata l‘indipendenza e
l‘autonomia delle comunità. La mobilizzazione aveva come scopo muovere le coscienze
internazionali e costringerle a non commettere l‘errore già fatto durante il periodo
nazista:
pendant la période hitlérienne, le monde civilisé, frappé par surprise et incapable de croire
que l‘extermination de masse puisse être un objectif atteignable, a peu fait pour l‘empêcher.
Aujourd‘hui, avec ce précédent terrible en tête, nous n‘avons plus aucune excuse pour ne pas
intervenir immédiatement.
28
La risposta del Cremlino arrivò molto velocemente. Si trattava di una campagna di
disinformazione, attuata grazie alla collaborazione dei partiti comunisti stranieri. Si
trattava innanzi tutto di convincere gli ebrei che lasciare il territorio sovietico non erano
nel loro interesse, sopratutto se la meta era Israele. Il governo sovietico pubblicò lettere
inviate da emigrati, in cui essi esprimevano chiaramente la loro volontà di rientrare in
Unione Sovietica. Mosca cercava inoltre di rappresentare Israele come uno Stato che si
preoccupava maggiormente della sua politica estera piuttosto che dei suoi cittadini,
denunciandone la natura aggressiva.
Dal canto loro, le organizzazioni ebraiche rinunciavano alla loro propaganda
anticomunista per dirigersi verso un nuovo obiettivo, quello della lotta umanitaria. Gli
anni ‗60 rappresentarono, infatti, l‘inizio dell‘impegno di numerose organizzazioni non
governative in favore di cause definibili come umanitarie, ossia la lotta che prende in
considerazione i diritti umani riconosciuti dai testi internazionali. Nonostante
l‘immaturità del contesto internazionale, la guerra dei Sei Giorni permise al movimento
americano di prendere le caratteristiche di un movimento classico umanitario, laddove
le vittime e gli attivisti occidentali si concentrano per mettere all‘indice lo Stato
colpevole di repressione.
La partecipazione di attori non istituzionali diede la possibilità di parlare di un vero
movimento sociale, ossia di una lotta per un insieme di obiettivi. Il movimento di aiuto
agli Ebrei sovietici nacque in un clima effervescente nel quale il governo americano era
l‘oggetto di una contestazione multiforme: i neri militavano per l‘eguaglianza dei diritti,
gli studenti bianchi per la libertà d‘espressione, i pacifisti contro la guerra in Vietnam.
Indiscutibilmente il movimento ebraico americano beneficiò della sensibilità del
contesto.
La riunione fondatrice di un vero movimento statunitense si tenne il 5 e 6 aprile del
1964 a Washington: i costituenti si accordarono sulla necessità di creare una conferenza
ad hoc. Nacque in questo modo l‘American Jewish Conference on Soviet Jewry,
incaricato di mettere in pratica una campagna per la difesa dei diritti culturali e religiosi
28
Ivi, pag. 60.